domenica 27 giugno 2010

Penati?

Penati è Filippo Penati. Mi limito a copiare da Penati? Nein, danke! perché davvero c’è poco da aggiungere.
Da non perdere le dichiarazioni del Piddì. Non ce n’è uno che risponda sul merito. Tutti lì a gridare al complotto, a dire che “la Moratti non può dare lezioni”, a parlare d’altro. Un’omertà disgustosa per una vicenda che – sottolineo – da sola vale 1/3 di tutto l’ambaradan sui derivati.

Facciamoci caso 1: pochi ometti avidi e senza scrupoli (Penati, Maggi, Vimercati-2 e loro portaborse) si sono scoppiati da soli un centinaio di miGlioni di euro (il markup sulle azioni più i costi accessori di interessi passivi con Banca Intesa, stipendi, sede faraonica di Asam, eccetera).

Facciamoci caso 2: la replica di Penati è quasi comica, cioè avrebbe “costretto” Marcellino Gavio a vendere azioni che non gli interessavano al 30% in più del loro valore, con un utile secco di 75 milioni di euro. Direi che il polsino slacciato e il capello tinto di Penati sono il miglior commento all’indegnità delle sue repliche.

Cialtrone sperperatore, se non ladro.
Tutta la saga è qui.

sabato 26 giugno 2010

La croce in pubblico

Marco Politi coglie perfettamente ieri sul Fatto Quotidiano il punto debole di tanti attacchi alla sentenza sul crocifisso della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo («Laicità in croce», 25 giugno 2010, p. 18):
Falso è […] dire che la sentenza respingerebbe la fede nell’ambito angusto del “recinto privato”.
Il cristianesimo, come ogni altra fede, è totalmente libero di esprimersi collettivamente e visibilmente nello spazio pubblico e sociale dei paesi Ue. Parlare in Italia di un cristianesimo che rischia di essere conculcato, è una gag.
Ciò che indica la prima sentenza della Corte europea è, correttamente, l’impossibilità che in uno spazio istituzionale come la scuola (o i tribunali) vi sia un simbolo religioso che visivamente rappresenti il supremo principio ispiratore dell’educazione (o della giustizia). Non ci può essere nella società pluralistica contemporanea il dito indice di una sola religione, che all’interno di un’istituzione segni la via da seguire. Perché non è vero che il crocifisso sia nelle aule o nei tribunali “per tradizione”. La croce nei luoghi istituzionali è il retaggio dei secoli in cui il cattolicesimo era religione di stato. E il tentativo di imporne la presenza, anche oggi che la Costituzione e il Concordato hanno eliminato qualsiasi riferimento ad una religione di stato, non ha più nessuna base giuridica. Meno che mai è giustificato il tentativo surrettizio delle gerarchie ecclesiastiche di creare e crearsi uno status privilegiato di “religione di maggioranza”. Peraltro i giovani italiani, come dimostra l’ultima indagine Iard riportata dall’Avvenire, si sentono “cattolici” soltanto al 52 per cento.
Neanche è vero che il cattolicesimo sia un tratto universale dell’identità italiana. Ogni cittadino ha la sua storia, la sua cultura, le sue credenze. Sul piano istituzionale è certo che un solo simbolo, il Tricolore, rappresenta tutti (con buona pace di Bossi) e una sola immagine rappresenta nei luoghi pubblici l’unità della nazione, quella del presidente della Repubblica (Berlusconi se ne faccia una ragione).
Da questo punto di vista rimane insuperabile la chiarezza del principio costituzionale americano (nazione assai religiosa e spesso citata da Benedetto XVI come esempio di laicità positiva), secondo cui lo Stato non può “né favorire né contrastare una religione”. Nelle scuole americane c’è la bandiera a stelle e strisce, non il crocifisso.
Il punto chiave è proprio questo: ciò cui i laici obiettano è in generale l’esposizione del crocifisso negli spazi istituzionali, non negli spazi genericamente pubblici. Purtroppo l’uso di «pubblico» come sinonimo di «statale» e la confusione che ne può sorgere hanno fatto spesso il gioco di chi in malafede vuole seminare allarme su un presunto prossimo sradicamento di croci dai campanili e dai cimiteri.

venerdì 25 giugno 2010

Agnoli, imbavaglia te stesso

Capita ogni tanto che qualche cattolico integralista ceda alla tentazione di credersi il Joseph de Maistre dei nostri giorni, e si metta a fare l’apologia non più semplicemente di ciò che le persone di buon senso ritengono falso – questo ogni integralista lo fa già abitualmente – ma anche di ciò che ritengono infame. Prendete Francesco Agnoli, che tiene sul Foglio una rubrica dal titolo che è tutto un programma, «Controriforme»: come de Maistre aveva prodotto nelle Soirées de Saint-Pétersbourg l’elogio del boia, così Agnoli (sì, ok, si parva licet) faceva ieri dalla sua colonnina periodica l’«Elogio del bavaglio» (Il Foglio, 24 giugno 2010, p. 2), prendendosela con la libertà di stampa e auspicando «una museruola» per tutte le «condanne preventive e frettolose spacciate con ipocrisia per informazioni» e per il «moralismo», che sarebbe «il bieco e continuo rinfacciare ad altri... che guadagnano di più, che hanno avuto più successo, che sono più famosi, che hanno più potere...» (se pensate che dietro questi indeterminati «altri» si celi un ben preciso altro, probabilmente non vi sbagliate; del resto, baciare le pile e sapere cosa è gradito agli uomini di questo mondo non sono mai state abilità mutuamente esclusive, anzi). C’è, per Agnoli, un prototipo e patrono di tutti coloro che coltivano «l’idea tipicamente ideologica della distruzione dell’avversario per l’edificazione di un “mondo nuovo”»: si tratta – non è una sorpresa – di Voltaire:
Un uomo che predica la libertà, la tolleranza, mentre di mestiere fa il calunniatore e il seminatore, brillante, di frasi fatte, di luoghi comuni, di miti demolitori. Scrive, parlando dei suoi avversari: “Dobbiamo screditare gli autori (che non la pensano come noi); dobbiamo abilmente infangare la loro condotta, trascinarli davanti al pubblico come persone viziose; dobbiamo presentare le loro azioni sotto una luce odiosa... Se ci mancano i fatti, dobbiamo farne supporre l’esistenza fingendo di tacere parte delle loro colpe. Tutto è permesso contro di essi... Deferiamoli al governo come nemici della religione e dell’autorità; incitiamo i magistrati a punirli”.
Qui però alla fine la sorpresa c’è lo stesso: Voltaire non è sempre stato all’altezza dei propri alti principi, è vero; ma è strano che li contraddicesse così esplicitamente, in uno scritto di cui aveva tranquillamente rivendicato la patermità in una lettera a un amico. Si tratta infatti dei Dialogues chrétiens, ou Préservatif contre l’Encyclopédie (1760); ecco il brano originale completo:
il faut décrier les auteurs, et alors l’ouvrage perd certainement son crédit; il faut adroitement empoisonner leur conduite; il faut les traduire devant le public comme des gens vicieux, en feignant de pleurer sur leurs vices; il faut présenter leurs actions sous un jour odieux, en feignant de les disculper; si les faits nous manquent, il faut en supposer, en feignant de taire une partie de leurs fautes. C’est par ces moyens-là que nous contribuerons à l’avancement de la religion et de la piété, et que nous préviendrons les maux et les scandales que les philosophes causeraient dans le monde s’ils y trouvaient quelque créance.
Chi conosce il francese si accorgerà subito di un fatto ancora più strano: il finale non corrisponde a quello riportato da Agnoli. Il significato del finale originale è infatti questo:
È con questi mezzi che contribuiremo all’avanzata della religione e della pietà, e preverremo i mali e gli scandali che i filosofi causerebbero al mondo se vi trovassero credito.
Ammettiamo pure, sebbene con qualche difficoltà, che a Voltaire stesse a cuore il progresso della religione e della pietà; ammettiamo anche, ancora più a fatica, che per qualche motivo ce l’avesse, così all’ingrosso, con i filosofi; quello che proprio non si riesce a capire è come l’avanzamento della pietà religiosa potesse dipendere per Voltaire dai mezzi infami che elencava all’inizio del brano. Non sorprende che nel passo riportato da Agnoli sia stata omessa la parte finale! Il mistero si chiarisce in un attimo. Le parole riportate sono effettivamente di Voltaire, che però le mette in bocca a un pastore protestante, che impersonifica qui lo zelo religioso più ributtante (più in là si vanta del supplizio di Michele Serveto, vittima dell’intolleranza dei calvinisti di Ginevra) assieme a un prete con cui si intrattiene abbastanza amabilmente (sarà quest’ultimo a pronunciare le parole attaccate alla fine del brano citato da Agnoli: «tout est permis contre eux; supposons leur des crimes, des blasphèmes; déférons les au gouvernement comme ennemis de la religion et de l’autorité; excitons les magistrats à les punir»). Nel pastore, in effetti, Voltaire mette in ridicolo un suo nemico, un certo Vernet, che aveva commesso l’errore di attaccarlo pubblicamente; Voltaire rispose con questo dialogo, ricco di allusioni al Vernet, e poi di nuovo, dopo che l’altro si era lamentato presso le autorità di Ginevra, con una satira ancora più devastante, Éloge de l’hypocrisie (1766). La citazione di Agnoli è insomma il frutto di una manipolazione testuale acrobatica e senza scrupoli: si attribuisce a Voltaire ciò che questi metteva in bocca ai propri nemici! Ma è lo stesso Agnoli l’autore di questa falsificazione? In realtà, la citazione viaggia in questa forma da qualche anno tra i blog cattolici più retrivi. La fonte originaria è il libro di un certo Pierre Gaxotte, La Révolution française, del 1928, ritradotto in italiano nel 1989; è di Gaxotte l’inciso «(che non la pensano come noi)» all’inizio del brano. Non sorprende che Gaxotte fosse un sostenitore del maresciallo Pétain; un po’ più sorprendente che sia riuscito più tardi ad essere eletto nell’Académie française – ma si sa, dopo la débâcle i francesi hanno perso tutta la loro lucidità intellettuale... Il peccato di Agnoli – e non è un peccato da poco – è stato di non controllare le fonti (eppure bastano due minuti su Google per trovare il brano originale di Voltaire), e di attingere a Gaxotte, o forse solo a qualche blog integralista. Curiosamente, non è la prima volta che questo brano compare sul Foglio: lo riportava in una lettera al direttore del 19 novembre 2004 Mattia Feltri (uno che, a occhio, per avere successo nel giornalismo non ha mai avuto bisogno di sobbarcarsi la fatica della verifica delle fonti...). Si lamenta Agnoli, nel suo pezzo, che sui giornali le accuse, «anche quelle senza fondamento», siano «presentate come verità assolute»; ma questo è precisamente quello che, consapevole o meno, ha fatto lui. Medico, imbavaglia te stesso.

lunedì 21 giugno 2010

Affetti e diritti a Palazzo Ducale

Venerdì 25 giugno 2010 / Sala del Minor Consiglio, ore 17.45

AFFETTI E DIRITTI

Chiara LALLI, autrice di “Buoni genitori. Storie di mamme e di papà gay”, Il Saggiatore, 2009, docente di Epistemologia delle scienze umane, Università di Cassino

Vittorio LINGIARDI, autore di “Citizen gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale”, Il Saggiatore, 2007, psichiatra e psicoanalista, professore ordinario, Università la «Sapienza» di Roma

Ivan SCALFAROTTO, vice presidente del Partito Democratico

Nicla VASSALLO, professore ordinario di Filosofia Teoretica, Università di Genova

venerdì 18 giugno 2010

Doppi incarichi

Abituati come siamo che nessuno molla nemmeno la tessera scaduta della palestra, le dimissioni di Mara Carfagna dal consiglio regionale campano sembrano eroiche.
Ma cosa è cambiato in due mesi? Non è che ci volesse molto a capirlo che se fai il ministro non puoi fare anche il consigliere.
A questo si aggiunge la perplessità per i commenti entusiasitici sotto al suo post e una delle frasi nel post stesso.
Se c’è una cosa di cui sono felice, dopo avere scritto e spedito la lettera di dimissioni, è che al mio posto, in Consiglio, siederà da domani una donna.
Ci si sarebbe aspettati di leggere un’altra donna, altrimenti sorgono dei sospetti.
Ormai avventuratami nel suo blog leggo uno dei più recenti: Grazie Polizia per limpegno di prevenzione e lotta contro violenza e discriminazione.
Scrive il ministro per le pari opportunità:
La prima risposta alle violenze commesse contro gli omosessuali, i gravissimi episodi che la cronaca ha registrato nelle scorse settimane, dev’essere ed è quella della sicurezza. Sicurezza che il governo vuole garantire a tutti i cittadini, senza alcuna distinzione.
Peccato che dimentichi che non è vero che tutti i cittadini abbiano lo stesso trattamento, che tralasci il fatto che sicurezza è il nuovo tormentone e che non significa nulla se non se ne chiarisce il significato. Sarebbe troppo banale concordare che nessuno debba essere assalito e picchiato. Sarebbe però doveroso aggiungere che combattere il razzismo, per esempio, passa necessariamente attraverso leggi che eliminano qualunque differenza di trattamento giuridico (pensiamo al divieto di contrarre matrimoni misti). Ecco, arriviamo al punto: le distinzioni in Italia ci sono eccome, perché se sei omosessuale non ti puoi sposare e non hai gli stessi diritti familiari degli eterosessuali.
Mantenere queste discriminazioni giuridiche significa alimentare quella schifezza che per capirci chiamiamo omofobia. Purtroppo il ministro, insieme a tanti altri, è una perfetta rappresentante della omofobia, magari più educata di altri, più perbene, ma altrettanto discriminatoria, violenta e razzista.
La sua recente dichiarazione sui matrimoni gay, moralistica e condiscendente, la trovate qui sotto.

I pentimenti di Mara Carfagna


Chi si era illuso cosa ha da dire oggi?

Veltroni (e il) clown

Clown
Marco Romanelli si prende l’onere di leggere l’ultima (non in senso assoluto) opera di Walter Veltroni. Gli va prima di tutto riconosciuta la temerarietà per avere intrapreso una simile avventura. E poi credo che sia l’unica cosa a poter essere letta al riguardo. Comincia così.
La vena creativa dell’on. Veltroni è, sia detto senza nessuna ironia, francamente impressionante: dopo i commoventi racconti di Senza Patricio, dopo il successo internazionale di La scoperta dell’alba, a soli quattro mesi dall’uscita del poderoso romanzo generazionale Noi, ecco apparire Quando cade l’acrobata entrano i clown, presentato poche settimane fa dall’autore al teatro Eliseo di Roma (in platea Giovanna Melandri, Maurizio Costanzo, Serena Dandini) e poi riproposto in un tour promozionale culminato nella memorabile serata di Sesto Fiorentino alla presenza del vicesindaco Baccelli e del proposto mons. Arturo Pollastri.

Come si legge in una nota finale, il libro non è nato per iniziativa della fertile mente dell’autore, ma è stato commissionato da Stefano Valanzuolo, direttore di Ravello Festival, il quale ha chiesto a Veltroni “di scrivere un monologo sulla tragedia dello stadio Heysel che sarà rappresentato, con una musica appositamente composta, nell’edizione estiva del 2010”.

Si tratta dunque di un testo, per così dire, preterintenzionale, anche se qualcuno ha osservato che potrebbe pure essere rubricato come colposo, stante l’entusiasmo e il coinvolgimento con cui l’autore ha accettato la proposta del Valanzuolo. Tuttavia, ci sembra che il giudizio di colposità sia troppo severo: il calcio, si sa, è in cima agli interessi degli italiani, e segnatamente dei politici, e non è solo Veltroni a viverlo con tanta partecipazione.
Continua qui su Micromega.

giovedì 17 giugno 2010

Comunicazione di servizio

Da oggi sono presenti in calce a ogni post di Bioetica i pulsanti per condividerlo sui principali social network (o servizi consimili). Se non trovate il vostro network preferito vi preghiamo di farcelo sapere, come pure vi preghiamo di segnalarci ogni problema che doveste incontrare con la nuova funzione. Grazie!

Nomen omen

Il nome che si porta è infatti molto più importante di quanto si possa pensare e secondo la scienza averne uno musicale ed elegante non solo aiuta a sentirsi più sicuri ma predispone positivamente le persone nei nostri confronti.
Dopo aver letto questo articolo ti viene voglia di strappare la carta di identità e di andare a picchiare quelli dell'anagrafe. Poi capisci che è meglio considerarlo un numero da commedia. Lasciamo stare l'abuso della povera scienza, tanto ormai ci sono le scienze turistiche e culinarie.
Non consideriamo l'involontaria ironia del nome del tipo - David Figlio della Northwestern University, in Illinois - che ha ideato e dimostrato (Sara Ficocelli su la Repubblica usa questo termine, dimostrato)
analizzando le scelte di battesimo di 3000 famiglie, ciò che tutti sospettavano: più facile dubitare della virtù di una Jessica che di una Geltrude, scontato considerare più moderno un Alex che un Salvatore. Poco importa cosa facciano e pensino davvero queste persone, il nostro cervello trasmette e riceve impulsi e impressioni appena il nome viene pronunciato.
Certo Suellen richiama l'anonima alcolisti e Noemi disponibilità forse eccessiva (chissà Nathan Falco).
Ma la chicca deve ancora avvenire. Chi intervista Ficocelli per rinforzare questa trovata? Alessandro Meluzzi. Già, quello lì. Quello che dice che Dio e la natura e Freud hanno detto così e quindi è così. Quello a cui non affideresti un gatto pulcioso (un paio di volte abbiamo commentato le sue prodezze).
Il modo in cui ci chiamiamo è un simbolo, uno specchio [...] e rappresenta il nostro biglietto di presentazione di fronte al resto del mondo. Il suono che ha e il significato che rievoca influiscono direttamente sul comportamento degli altri nei nostri confronti, e questo ha effetti a sua volta sui nostri circuiti neuroendocrini: a seconda dei casi viene favorita la produzione di ossitocina, dopamina o endorfine. Possiamo insomma dire che il nome che ci viene dato influisce sul nostro sviluppo.
I genitori di Meluzzi devono essersi sbagliati, oppure il nostro Alessandro è una specie di cigno nero? Quanto a Sara non saprei cosa dire. Le consiglierei di scegliere in modo diverso chi intervistare e di evitare parole che non conosce, come dimostrare. Ah, e poi almeno un cenno alle credenze romane di cui all'oggetto avrebbe calzato a pennello.

domenica 13 giugno 2010

Forse sono ubriachi

Oppure è precisamente la ragione per cui in Italia i diritti se la passano tanto male.
Arcigay oggi consegnerà il Pegaso d'Oro "attribuito ad una personalità del mondo dello spettacolo che si è contraddistinta per il sostegno della dignità delle persone omosessuali, bisessuali e transgender e la vicinanza alla comunità gay italiana".
Fin qui tutto bene.
Ma se leggiamo solo alcune delle dichiarazione di Iva Zanicchi (tra quelle rilasciate dopo avere saputo del premio) ci prende un colpo.
«Pensi che difficilmente vado a ritirare i premi che mi vengono conferiti, ma a questo, proprio non posso rinunciare perché mi riempie di gioia. Sapevo di essere amata come artista e come donna dai gay e credo che tutto sia nato da quando nella fiction televisiva "Caterina e le sue figlie", ho recitato la parte della mamma di un figlio diverso».
Un figlio diverso? Manco mia nonna avrebbe parlato così. Diverso? Ma per favore.
Poi dopo la banale e ricorrente ammissione che ha molti amici gay (io vorrei tanto parlarci con 'sti amici) che quasi sempre è il preambolo di una bordata razzista e stupida precisa:
[Domanda: cosa ne pensa del riconoscimento delle coppie di fatto? E delle adozioni da parte delle coppie gay?]:
«Ecco, qui bisogna distinguere bene. Riconosco le coppie di fatto, anche se fondamentalmente rimango sempre per la famiglia. Però, mi sembra anche giusto che le coppie omosessuali abbiano il diritto di assistersi vicendevolmente. Se due uomini o due donne si sono voluti bene per una vita perché non devono avere il diritto di aiutarsi fino alla fine dei loro giorni? Perché non possono lasciare l'eredità al compagno che hanno amato per una vita? Per quanto riguarda le adozioni, invece no. Su questo, sono proprio contraria. La famiglia è un bene inattaccabile e i bambini che crescono, hanno bisogno di vedere entrambe le figure dei genitori, sia quella femminile che quella maschile».
Ecco, distinguiamo bene. Della Zanicchi non ci interessa molto, è solo una ennesima bocca parlante scollegata dal sistema nervoso centrale. Ma Arcigay che le consegna un premio come personalità del mondo dello spettacolo che si è contraddistinta per il sostegno della dignità delle persone omosessuali, bisessuali e transgender e la vicinanza alla comunità gay italiana lascia emergere molti dubbi su cosa intendano per sostegno, dignità e vicinanza (anche forse per persone).
Io non posso che pensare che Arcigay se ne frega dei diritti dei cittadini (e non specifico intenzionalmente le preferenze sessuali, sto parlando di persone), oppure ha le idee talmente confuse da pensare che alla BP andrebbe il premio Ambiente 2010. E il bello è che simili dichiarazione di Zanicchi sono sul sito Arcigay, mica bisogna andarsele a cercare chissà dove.
Se questi sono quelli che devono proteggere i diritti di qualcuno, dio ci scampi da quanti vogliono affossarli.

giovedì 10 giugno 2010

Tanto peggio per i casi particolari

Olimpia Tarzia, neoconsigliere regionale del Lazio, risponde alla Repubblica sulla decisione dell’Asl Roma D di avviare la somministrazione della RU-486 all’ospedale Grassi di Ostia («“Ci vuole più cautela non è mica un’aspirina”», 9 giugno 2010, p. 3):
«Non vedo l’urgenza di introdurre una tecnica abortiva non meno traumatica di quella tradizionale, tanto più che la donna la vive in diretta».
Nel caso di Ostia però la donna soffre di una patologia che le avrebbe reso impraticabile l’aborto chirurgico.
«Le leggi non si fanno su casi particolari […]».
Non so se fa più senso il pervertimento che la Tarzia compie di un principio giuridico che nella realtà, ovviamente, significa tutt’altro, o la sua palese indifferenza per il diritto alla salute della donna ricoverata al Grassi.

lunedì 7 giugno 2010

Miss Padania

Come si partecipa a Miss Padania? Bisogna essere del tutto prive di molte caratteristiche, ma bisogna anche leggersi e rispettare il regolamento che è decisamente bizzarro. L’articolo 5 è il più bello di tutti.
Art.5 Per partecipare al Concorso le candidate dovranno essere in possesso dei seguenti requisiti:
avere la cittadinanza italiana ed essere residenti da almeno dieci anni consecutivi in Padania (Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Veneto, Trentino A.A, Friuli V.G., Emilia-Romagna, Marche, Umbria, Toscana);
essere dello stesso sesso registrato sul certificato di nascita;
non essere mai state coinvolte in fatti contrari alla morale;
età compresa tra i 17 e i 28 anni (il giorno della Finale);
non aver mai partecipato a servizi fotografici e film ritenuti sconvenienti a insindacabile giudizio dell’Organizzazione del Concorso o di organo incaricato dalla stessa;
non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei Movimenti che promuovono la Padania;
La mancanza anche di uno solo dei requisiti richiesti, comporta la inammissibilità o, anche se ammesse, la immediata esclusione;
Non possono inoltre partecipare all’edizione 2009 le partecipanti alla Finale di Miss Padania precedente.
Confesso che alcuni requisiti risultano proprio di difficile comprensione. Gli altri sono al limite della ripugnanza.
Concediamo pure la Padania e la residenza (almeno di capisce cosa si intende, pur nella irrimediabile stupidità dei confini, padani o di altro genere).
E concediamo che non può diventare Miss Padania uno che prima si chiamava Mario e che adesso si fa chiamare Maria. Che orrore! Non è ammissibile per i celoduristi una situazione del genere, non ci si fa tagliare l’uccello per poi pretendere lo scettro.
La questione si fa complicata quando si accenna ai fatti contrari alla morale: quale morale? Quella padana? Come si verifica che la candidata abbia in effetti avuto una esistenza irreprensibile? Lo stesso problema si pone poco dopo alla voce servizi fotografici e film ritenuti sconvenienti a insindacabile giudizio e dichiarazioni non in linea con gli ideali dei Movimenti che promuovono la Padania. Forse avrebbero fatto prima ad adottare la regola dei loro compari (nella rivisitazione guzzantiana): facciamo come cazzo ci pare. Fine del discorso. Tu prova a iscriverti, e noi decidiamo.
Non voglio sapere chi è diventata Miss Padania e non voglio sapere altro.

domenica 6 giugno 2010

Contento lui


Tommaso Debenedetti è una nostra vecchia conoscenza. Ha deciso di spiegare le sue ragioni in una intervista concessa a El País “Me gusta ser el campeón italiano de la mentira”.
“Mi idea era ser un periodista cultural serio y honrado, pero eso en Italia es imposible”, explica. “La información en este país está basada en la falsificación. Todo cuela mientras sea favorable a la línea editorial, mientras el que habla sea uno de los nuestros. Yo, simplemente, me presté a ese juego para poder publicar y lo jugué hasta el final para denunciar ese estado de cosas”.
St’uomo è uno spasso.

sabato 5 giugno 2010

Rolling on the floor laughing

Da un blog creazionista trovato per caso (i refusi sono tutti dell’autrice):
Ho detto che i neodarwiniani interpretano in maniera distorta i risultati degli studi sulla genetica. Ad esempio, gli studi sulla genetica ci dicono che il il 90 o 94% del dna umano è praticamente identico al dna dello scimpanzé. Ebbene, i darwiniani spacciano quel 94% come la prova definitiva del fatto che l’uomo discende dalla scimmia. Invece non prova assolutamente niente, dal momento che ci sono delle somigliaze sorprendenti non solo fra uomo e scimmia, ma anche fra uomo e verme e fra uomo e mosca!!!! Infatti, il 60% del dna umano è simile al il dna della mosca.

venerdì 4 giugno 2010

L’Italia premoderna che odia Saviano

È perfetto l’articolo di Massimo Gramellini sulla Stampa di ieri («Saviano purché francescano», 3 giugno 2010, p. 1):
Fino a quando lo affermavano politici prevenuti e intellettuali invidiosi, si poteva sorvolare. Ma ora che persino un punto di riferimento per le masse come il centravanti milanista (e napoletano) Borriello accusa Saviano di «aver lucrato sulla mia città», la questione si fa maledettamente seria. È giusto che uno scrittore possa acquisire fama e denaro parlando di camorra, come un centravanti facendo dei gol? Nel suo ultimo disco il musicista partenopeo Daniele Sepe – meno conosciuto di Borriello perché non si è mai fidanzato con Belen – rinfaccia a Saviano: «Hai fatto fortuna, ma chi ti paga è il capo dei burattinai», come se fosse la berlusconiana Mondadori ad aver arricchito il suo autore e non viceversa. Eppure basta bighellonare fra i blog che commentano le parole di Borriello per accorgersi che tanti la pensano come lui e paragonano Saviano a «uno che fa beneficenza e va a dirlo in giro».
In questo Paese cattolico e contadino, che pensa al denaro di continuo ma non smette di considerarlo lo sterco del demonio, è passato il principio che argomenti nobili come la legalità e la giustizia sociale vanno maneggiati in incognito e senza percepire compensi di mercato. Briatore può farsi docce di champagne su tutti gli yacht che vuole: è coerente col personaggio. Ma Santoro non deve guadagnare come Letterman né Saviano come Grisham, perché da chi sferza il malcostume gli italiani pretendono voto di povertà. A noi gli eroi piacciono scalzi e sfigati, per poterli compatire e sentirci più buoni. Così dopo votiamo i miliardari con maggiore serenità.
In effetti, gli attacchi a Saviano – come quelli analoghi rivolti in passato ad altri protagonisti della lotta alle mafie – rivelano prima di ogni altra cosa il carattere arcaico, premoderno, di una parte dell’Italia contemporanea: un paese con un senso dell’onore tribale («ha danneggiato l’immagine dell’Italia all’estero!»), in cui l’apparire conta tutto e la sostanza nulla; un paese in cui lo scambio di mercato è a priori visto come immorale – il che non impedisce poi di ammirare chi effettivamente si sia arricchito in modo illecito; un paese in cui chi combatte il crimine organizzato dà fastidio perché fa spiccare per contrasto chi non vuole praticare nemmeno le virtù civiche più modeste. Un paese del Terzo Mondo, misteriosamente finito in mezzo al Primo.

giovedì 3 giugno 2010

La Pillola Abortiva


Servizio di Isabella Angius Valerio, regia di Valerio Angelini.

A proposito di campagne antiabortiste

Sono ben più di campagne in effetti.
“Ninety percent of pro-life legislation happens at the states,” said Daniel S. McConchie, vice president for government affairs at Americans United for Life, which opposes abortion. “While Congress is the main focus of attention for so many people in the country, state legislatures have greatest impact on daily lives, and life-related legislation is no exception.”
Opponents of Abortion Advance Cause at State Level, june 2, 2010, The New York Times. Da leggere tutto.

Aborto e coercizione

A leggere il titolo, Aborto: coercizione negli USA (di Marco Tosatti, la Stampa, 3 giungo 2010), si pensa “interessante, leggiamo”.
Il sottotitolo è uguale alle prime tre righe del pezzo. Ma suvvia, questi sono dettagli.
L'Elliot Institute, un'organizzazione dell'Illinois che si dedica all'aiuto psicologico delle donne che hanno abortito, afferma che "probabilmente la maggior parte degli aborti negli Stati Uniti è indesiderato o è forzato in un modo o in altro." Il gruppo cita studi che dimostrano che molte donne si decidono ad abortire perché messe sotto pressione dalle loro famiglie o dai fidanzati, mentre altre avvertono la pressione esercitata dai loro datori di lavoro a interrompere la loro gravidanza. E l'lliott Institute sottolinea un altro dato molto preoccupante: l'omicidio è la maggior causa di morte fra le donne incinte.

L'Elliott Institute ha reso pubblici questi risultati mentre un abortista del Michigan ha ammesso di aver impedito coercitivamente di andarsene a una donna che voleva lasciare la sua sala operatoria dopo che aveva iniziato la procedura di aborto. Il dr. Abraham Alberto Hodari ha detto che anche se Caitlin Bruce gli disse che lei aveva cambiato idea sulla volontà di abortire dopo aver visto l'immagine dell'ecografia del bambino non ancora nato, egli non poteva interrompere la procedura in modo sicuro.
Fine del pezzo. E il lavoro comincia ora, perché dopo la lettura non ho le idee più chiare, anzi. Che significa “probabilmente”? Voglio dire, con quale probabilità? Quali sono questi studi citati e quali i campioni? Niente.
Allora andiamo a cercarci l’Elliott Institute per vedere le ricerche in merito, e inciampiamo in un labirinto di materiale (che Tosatti non avrà avuto voglia di leggersi). Rimandiamo la lettura, ma ciò che colpisce sono le parole che sovrastano il sito e che sono anche il nome di una campagna: Abortion is the unchoice. Unwanted. Unsafe. Unfair. Non solo non è una scelta, ma è la non scelta per eccellenza, cioè sembra non possa mai essere una scelta, ma necessariamente una forzatura, qualcosa di non voluto davvero, di ingiusto e di non sicuro (in che senso? per la salute fisica? o psichica?).
Daremo conto più avanti del materiale presente nel sito. Sembra superfluo dichiarare di concordare sulla condanna di eventuali coercizioni o forzature, o sulla condanna del medico che ignora il cambiamento di idea della donna. Ciò che viene in mente però è che le campagne contro la possibilità di abortire sono già molto aspre e forse sarebbe meglio non creare equivoci. A meno che non si tratti di un equivoco ma di una posizione precisa: abortire non può mai essere una scelta. Abortire non può che danneggiare la donna. Abortire è ingiusto.
Seguiranno dettagli dopo la lettura del materiale.