venerdì 26 febbraio 2010

Slaughter


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Fur is dead.

Ma anche


È di domenica passata, ma anche talmente universale che non invecchia (Pierluigi Battista, Ma anche. Né angeli né demoni di fronte alla storia, Il Corriere della Sera, 21 febbraio 2010). Ci sarebbe molto da commentare, ma scelgo solo un breve passo per non dilungarmi troppo.
Qualche volta, nelle questioni importanti dell’esistenza di ciascuno di noi, il «ma anche» è una triste necessità, che solo superficialmente può essere spacciata per ipocrisia. Si può essere per principio (come chi scrive) contro l’eutanasia, «ma anche» sperare che un giorno, quando la propria vita sarà solo dolore per sé e per gli altri, qualche mano pietosa possa mettere fine a inutili sofferenze. È solo intollerabile e ipocrita «doppiezza»? Difficile stabilirlo.
Battista prosegue citando la rivoluzione, Franco Moretti, Jean Jacques Rousseau, Barak Obama e tanti altri. Ma sembra lasciare indietro il semplice buon senso. Che potrebbe essere sintetizzato più o meno come segue: chi non è del tutto tonto sa bene che la complessità non può essere ridotta drasticamente a divisioni manichee buono/cattivo, bianco/nero. E che i desideri sono mutevoli e che solo la morte interrompe lo scorrere della nostra esistenza non lineare e non pianificata secondo un foglio excel di un burocrate zelante.
Se il “ma anche” volesse sottolineare questo aspetto, banale e affatto sorprendente, ci sta bene. Ma il passo che ho riportato lascia emergere una fregatura. O una autorevole assenza: la distinzione tra il piano personale e quello legislativo, o pubblico. È assolutamente lecito che Battista (e chiunque altro) rivendichi l’incertezza, addirittura il rischio o la certezza di contraddirsi. Si ama qualcuno pur sapendo che ce ne stancheremo; si urla una idea consapevoli che potrem(m)o cambiarla e calpestarla. Niente da dire. Non è lecito però, anzi è vile e da prepotenti, imporre a qualcun altro la nostra visione. Soprattutto perché consapevoli di non essere detentori della Verità, ma di un parere cangiante. Ecco che l’esempio della eutanasia manca di un pezzo rilevante: Battista sta parlando per sé o per tutti? È contrario alla sua eutanasia o a una legge che permetta a tutti di decidere secondo le proprie idee? Non è difficile stabilire se sia intollerabile e ipocrita doppiezza: se parla per sé non abbiamo nulla da criticare. Se invece pretende di mantenere la doppiezza sul piano giuridico non va bene, anche perché una legge non può essere oscillante, ma deve scegliere da che parte stare. Se una legge è liberale, permettendo di scegliere e di cambiare idea, tutte le posizioni potrebbero essere rispettate. Se invece una legge vuole imporci una posizione, chi poi – dopo averla sostenuta – vuole percorrere una strada diversa è sì ipocrita e insopportabile.
(Prevengo analogie dissennate prima che vengano rivendicate: l’eutanasia è un esempio perfetto per la realizzazione di una legge liberale perché le scelte dell’agente ricadono sull’agente stesso e nessuno dovrebbe intromettersi – non si potrebbe dire di un omicidio o di una aggressione, perché le scelte dell’agente ricadono anche su colui che viene ucciso o aggredito. Piergluigi Battista, però, non sembra concordare, dal momento che definisce l’eutanasia una pratica selvaggia in Il ricatto della deriva, Il Corriere della Sera, 28 febbraio 2009. Ma potrebbe anche avere cambiato idea).

mercoledì 24 febbraio 2010

Esperimento con l’embrione

Paolo De Gregorio, blogger e storico commentatore qui su Bioetica, propone un esperimento mentale a tutti i sostenitori della sacralità dell’embrione («Esperimento concettuale con l’embrione», 22 febbraio 2010). Riporto il passo centrale:

Immaginate di trovarvi in un futuro ipotetico. Avete un figlio, piccolo, amatissimo, malato. Voi siete il suo tutore, colui, l’unico, che può decidere in sua vece se e in che modo sia legittimo intervenire. Ma la malattia che lo affligge lo porterà inesorabilmente alla morte certa, a seguito di atroci sofferenze. Il medico dell’ospedale di Futurlandia vi comunica la sorte che toccherà al vostro amatissimo e altrimenti sanissimo figliolo, ma aggiunge una chiosa: “esiste altresì una nuova cura, ben testata, dall’esito praticamente certo, oggi legale, che prevede la creazione di un embrione sano, in provetta; questa cura salverà vostro figlio praticamente al 100%, eliminando totalmente la malattia e le sofferenze annesse; l’embrione della provetta verrà tuttavia perso con certezza”. Insomma, eccovi servito il dilemma: lasciar morire vostro figlio tra mille sofferenze, o farlo vivere sacrificando un embrione che vivrà e morrà in provetta per vostra scelta.
In questo dilemma non esiste più la giustificazione che quella cura in quell’oggi di un domani ipotetico già esisterebbe, perché quello che ora dovete fare è decidere voi se uccidere un embrione: sarete voi a diventare un potenziale “dottor morte”, se accetterete di generare e poi far morire un embrione, una persona, solo per garantire la vita a vostro figlio. O lasciar morire vostro figlio. Ma soprattutto, in quest’ultimo caso, decidere voi per lui, per vostro figlio, per la sua morte, per rispondere alla vostra convinzione morale, al vostro dogma etico che l’embrione è una “persona umana”, a prescindere da quello che il vostro bambino avrebbe potuto pensare una volta adulto se fosse cresciuto.
Cosa farete, applicherete all’embrione le vostre convinzioni e lascerete morire vostro figlio soffrendo, decidendo tutto ciò al posto suo? O cederete alla proposta del medico, nonostante ogni giorno vi e ci ripetete che un embrione è una persona esattamente come ognuno di noi?
Chi risponderà “sì, sarei disposto a sacrificare quell’embrione pur di salvare mio figlio” dovrebbe cessare per sempre di continuare ad affermare che l’embrione è un essere umano esattamente come ognuno di noi. Chi dirà di no, lo dica, e noi elaboreremo liberamente il nostro giudizio morale su quella persona e sul suo credo.
Si attendono risposte.

martedì 23 febbraio 2010

Questa sì che è una idea!

L'asilo comunale? Solo per i bambini che provengono da famiglie che accettano «l'ispirazione cristiana della vita». Il regolamento è stato approvato a maggioranza dal consiglio comunale di Goito fra le proteste di tutta l'opposizione. Un esposto è già stato presentato all'Associazione nazionale dei Comuni italiani.

Il regolamento, all'articolo 1, pone come condizione per iscrivere il figlio all'asilo l'accettazione di una sorta di preambolo religioso: la provenienza da una famiglia cattolica o cristiana, escludendo di fatto molte famiglie di immigrati di diverso orientamento religioso. Resta da stabilire se nell'ispirazione cristiana siano comprese le coppie divorziate o i non credenti.
All'asilo comunale si accettano solo bimbi di famiglie cristiane, Gazzetta di Mantova, 23 febbraio 2010.

domenica 21 febbraio 2010

Il Foglio avvista l’ultimo giapponese, ma sbaglia persona

Si fa dell’ironia, sul Foglio di ieri, a proposito dell’ultimo libro di Carlo Flamigni («Flamigni, ultimo giapponese», 20 febbraio 2010, p. 3):

Il professor Carlo Flamigni, star nazionale della fecondazione in vitro, ha deciso di candidarsi al premio “ultimo giapponese nella giungla delle staminali embrionali”. In un libro di cui è annunciata la prossima uscita (“La questione dell’embrione”, Baldini Castoldi Dalai), Flamigni dedica molti sforzi a sostenere che quel filone di ricerca, ormai in evidenti difficoltà in tutto il mondo – soprattutto dopo le scoperte sulla riprogrammazione cellulare delle staminali somatiche – sia in realtà irrinunciabile. Il professore ne è talmente convinto che prova a ridimensionare […] il lavoro di Shinya Yamanaka. Il quale, nel 2007, nel suo laboratorio di Kyoto ha scoperto il principio su cui si basa la riprogrammazione delle staminali epiteliali in staminali pluripotenti indotte. Non è vero che Yamanaka non ha mai usato cellule embrionali, sostiene Flamigni. Ma non dice che sono state usate cellule di topo, e non umane, per ottenere quel risultato così importante.
Purtroppo per Il Foglio, le cose stanno diversamente. Andiamoci a rileggere un articolo che avevamo già citato qui su Bioetica qualche anno fa (Martin Fackler, «Risk Taking Is in His Genes», The New York Times, 11 dicembre 2007; corsivo mio):
In fact, restrictions are so tight that he says he cannot use human embryos at his laboratories here. Instead, research using human embryos is done at U.C. San Francisco, where he maintains a small two-person laboratory. He said he had never handled actual embryonic cells himself, and the American lab uses them only to verify that the reprogrammed adult cells are behaving as true stem cells.
“There is no way now to get around some use of embryos,” he said. “But my goal is to avoid using them.”
Il testo è molto chiaro, e non risultano smentite (il New York Times le avrebbe aggiunte in calce: è un giornale serio, quello). Se ci deve essere per forza un ultimo giapponese, in questa vicenda, allora è Shinya Yamanaka, che ha anche la nazionalità giusta, non Carlo Flamigni...

Ma a parte le inesattezze di fatto – chiamiamole così – è la logica generale del Foglio ad essere sbagliata. Se gli embrioni fossero esseri umani in tutto e per tutto, allora le sperimentazioni su di essi andrebbero proibite sempre, e non solo perché esse si sono rivelate «inutili» (ma abbiamo visto che in realtà sono state e sono indispensabili). E se si ammette che la sperimentazione è possibile se utile, allora ogni limitazione basata sui campi di studio che oggi ci sembrano più promettenti è assurda: la ricerca deve essere libera, perché nessuno può ipotecare il futuro e decidere che ciò che oggi non serve non servirà mai più.

venerdì 19 febbraio 2010

Ragazza madre, lavoratrice precaria e senza casa

La parte finale di una lettera che, forse, potrebbero scrivere molte altre donne.

In questo Paese si predica la proliferazione. Vedo continuamente servizi sul come «nascono pochi bambini » o «le persone non fanno più figli» o «i giovani restano a casa dei genitori troppo a lungo»: ogni volta, mi viene un malore al solo pensiero. Perché mai, e sottolineo mai, ho sentito un servizio del genere che dicesse la verità sul perché succede. Mantenere un bambino, in Italia, è diventato davvero difficile. Non posso permettermi nemmeno di andare dal dottore se sto male perché per me significherebbe perdere un giorno di lavoro e rischiare il posto. Per questo motivo un anno fa sono finita in ospedale con la broncopolmonite. L’assistenza sociale ha detto che l’unico aiuto che potrà dare sarà a mia figlia e non a me perché non ci sono i soldi necessari per inserirmi in una qualche struttura se resto senza alloggio. Sto rischiando di perdere la mia bambina per colpa… del Paese? Dell’economia? Dei soldi? E questo significherebbe non solo rovinare una madre, ma soprattutto rovinare un bambino. Non mi drogo, non ho nessun tipo di dipendenza o problema psicologico. Mia figlia è una bambina serena e io sono una buona madre. Se ritenessi di non fare abbastanza, abbasserei la testa e accetterei. Ma io torno a casa distrutta la sera. Io do tutta me stessa tutti i giorni. Sempre. Sono una madre disperata con una figlia meravigliosa, ho costruito una piccola famiglia felice. Sono una ragazza coraggiosa che ha bisogno di aiuto. Non voglio perdere la mia bambina e a quanto pare non posso farcela da sola. E non ho nessun altro a cui chiedere se non allo Stato.

L’epidurale altro diritto non garantito

Sister's coming

Il controllo del dolore è una conquista abbastanza recente. Basti pensare a un intervento chirurgico o a una banale estrazione dentale senza anestesia per capirne la portata. Per quanto la percezione del dolore sia soggettiva, esistono varie scale di misurazione che, con una certa approssimazione, tracciano una gerarchia dei dolori. Il fenomeno fisiologico più doloroso è il parto. L’analgesia epidurale permette di ridurre di molto la sofferenza e al contempo di lasciare che il parto sia vissuto dalla donna. Ma l’epidurale non è un diritto garantito in Italia. Non esistono dati ufficiale nazionali, ma si può inferire la situazione da alcuni dettagli. Come la presenza dell’anestesista dalle 8 alle 20, o peggio fino alle 14, escluso il sabato e la domenica. L’assenza di personale esperto negli ospedali, e magari l’idea che le donne “hanno sempre partorito con dolore”, fanno sì che una altissima percentuale di donne non possa usufruire dell’epidurale. Chi vuole e può va in clinica. Per queste ragioni un gruppo di donne ha fondato l’Associazione Italiana Parto in Analgesia, www.aipa-italia.it, e promuove una petizione affinché l’epidurale possa essere davvero un diritto. È superfluo ribadire che quando si parla di diritto non si vuole imporre a nessuno una determinata scelta: chi vorrà partorire con dolore potrà sceglierlo. Ma sarebbe doveroso da parte di un Paese civile garantire alle donne che lo desiderano un parto in analgesia.

DNews, 19 febbraio 2010.

giovedì 18 febbraio 2010

A rene donato non si guarda in...

Nei mesi scorsi tre persone, due in Lombardia e una in Piemonte, si sono offerte di donare un rene a uno sconosciuto che ne avesse bisogno. A quanto affermano le agenzie di stampa, «il Centro nazionale trapianti ha riunito ieri i rappresentanti delle tre reti interregionali dei trapianti per verificare la possibilità legale di questa modalità utilizzata già in altri paesi ma ancora mai in Italia. La legge nazionale regola infatti la donazione da vivente fra consanguinei o persone con legame affettivo, oltre a vietare ogni forma di vendita» (Ansa, 17 febbraio 2010, 18:20). E oggi si annuncia che «il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, chiederà al Comitato nazionale di Bioetica (CNB) un parere urgente sull’offerta di donazione di organi da parte dei donatori cosiddetti samaritani» (Ansa, 18 febbraio, 12:14).

Tanta prudenza è sorprendente. La donazione di rene da vivente è regolata in Italia dalla legge 26 giugno 1967, n. 458 (G.U. 27 giugno 1967, n. 160), che all’art. 1 recita:

In deroga al divieto di cui all’articolo 5 del Codice civile, è ammesso disporre a titolo gratuito del rene al fine del trapianto tra persone viventi.
La deroga è consentita ai genitori, ai figli, ai fratelli germani o non germani del paziente che siano maggiorenni, purché siano rispettate le modalità previste dalla presente legge.
Solo nel caso che il paziente non abbia i consanguinei di cui al precedente comma o nessuno di essi sia idoneo o disponibile, la deroga può essere consentita anche per altri parenti e per donatori estranei [corsivo mio].
Questa possibilità è stata estesa dalla legge 16 dicembre 1999, n. 483, al trapianto parziale di fegato, con le stesse modalità della 458/67.
È vero che esistono delle «Linee guida per il trapianto renale da donatore vivente e da cadavere» (G.U. 21 giugno 2002, n. 144), frutto di un accordo fra il Ministro della Salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, che nella parte relativa alla donazione da vivente, all’art. 6, sembrano più restrittive:
Sul donatore viene effettuato anche un accertamento che verifichi le motivazioni della donazione, la conoscenza di potenziali fattori di rischio e delle reali possibilità del trapianto in termini di sopravvivenza dell’organo e del paziente, l’esistenza di un legame affettivo con il ricevente (in assenza di consanguineità o di legame di legge) e la reale disponibilità di un consenso libero ed informato.
Fatto abbastanza stupefacente, nella parte introduttiva del provvedimento la legge 458/67 non viene nominata; eppure essa è sicuramente ancora in vigore, tant’è vero che la si considera espressamente tale nel decreto Milleproroghe approvato dal Senato il 12 febbraio scorso! Come che sia, un provvedimento amministrativo, quale sono queste linee guida, non può modificare una norma di legge; la situazione legislativa è dunque chiara. Ne prendeva atto lo stesso CNB, seppure a malincuore, quando il 17 ottobre 1997 consegnava un parere sul «problema bioetico del trapianto di rene da vivente non consanguineo», in cui auspicava una revisione della normativa vigente, limitando il prelievo da vivente non consanguineo a chi si trovi a essere «“affettivamente vicino” al ricevente (ad esempio il coniuge, il convivente stabile o un amico)» (fortunatamente neppure i pareri del CNB possono modificare le leggi esistenti).

Le prese di posizione odierne non sono tuttavia molto incoraggianti. La stessa Roccella dichiara, con la solita esibizione di spietatezza (Enrico Negrotti, «Reni in dono, ma la legge non lo prevede», Avvenire, 18 febbraio, inserto «È vita», p. 3; dal titolo e dal testo si vede che il giornale della CEI ignora la legge vigente, ma nel suo caso l’ignoranza ha cessato da tempo di sorprenderci):
Siamo molto cauti, perché sono possibili strumentalizzazioni di tutti i tipi. La nostra idea in ogni caso è che il corpo non è un bene a disposizione, e quindi non può neanche essere un bene da regalare. Valuteremo questi casi specifici, ma la questione è complessa.
Il sottosegretario non rinuncia per l’occasione a una delle sue consuete uscite stralunate: come riporta la succitata agenzia Ansa di oggi, «Personalmente sono molto cauta – ha concluso Roccella – perché credo che il corpo sia la persona». Non chiedetemi cosa voglia dire (suppongo che la Roccella conservi religiosamente tutte le unghie che si taglia, parte integrante della propria persona...).
Fa eco alla Roccella, sempre dalle colonne di Avvenire, il professor Francesco D’Agostino, non a caso presidente del CNB all’epoca del parere sul trapianto da vivente:
«Poiché il trapianto di rene da vivente implica una grave lesione al corpo del donatore e poiché esiste il dovere etico di tutelare la salute di ogni vivente, sono contrario alla possibilità di donatori samaritani». Tale lesione è giustificata nella donazione a un parente stretto, ma «non in casi diversi».
Dopo aver teorizzato l’espropriazione brutale del corpo altrui, D’Agostino prosegue, secondo la tecnica argomentativa che gli è propria, con il dubbio gettato sulla libertà del volere dell’espropriato:
Occorre inoltre investigare le motivazioni di chi intende donare il proprio organo, che possono essere sbagliate: «Ad esempio da una sorta di narcisismo o autoesaltazione del soggetto, non dunque pienamente consapevole della scelta fatta».
Ricordiamo i termini della vicenda: quelle tre persone si sono dette pronte a donare i loro organi senza condizioni, senza conoscere nemmeno chi beneficerà del loro atto. Ipotizzare a priori «strumentalizzazioni» o forme di «narcisismo» è un insulto a sangue freddo che colpisce chi meno di tutti lo merita. L’arroganza dell’integralismo non arretra evidentemente di fronte a nulla, pur di non deflettere dal proprio principio supremo: che l’uomo non è padrone del proprio corpo. Che dei malati possano essere sottratti grazie a quei donatori a una esistenza di tormenti o addirittura a una morte dolorosa è evidentemente per Roccella e D’Agostino irrilevante: l’ideologia trionfa sulla vita.

È con una certa gratitudine che si trovano – ancora su Avvenire – parole diverse, e da una fonte che non ti aspetteresti. Afferma il vescovo Elio Sgreccia, presidente onorario della Pontificia Accademia per la vita: «Dal punto di vista bioetico, se è considerata lecita e meritoria la donazione di organi tra viventi quando si tratta di un fratello, un figlio o un coniuge, altrettanto si deve ritenere se la donazione avviene per una persona verso la quale non ci sono vincoli di parentela».
Ma la riconoscenza maggiore va naturalmente ai tre anonimi aspiranti donatori:
Voglio donare un rene, non voglio sapere a chi. Mi basta essere certa che si tratta di una persona che ne ha bisogno. Diceva così il fax ricevuto qualche tempo fa dal primario di un grande ospedale del nord-ovest. La mittente è una giovane donna che in cambio chiede solo l’anonimato e la cui identità è protetta dai sanitari che già sono in contatto con lei. «La solidarietà è un bene raro, lo voglio fare per questo», ha spiegato nel primo incontro con i medici, aggiungendo di non essere spinta a questo gesto da motivi religiosi ma solo umanitari e di solidarietà: «La vita è stata buona con me. Adesso voglio contribuire a fare del bene anche agli altri». Dello stesso tenore sarebbero le motivazioni degli altri due «samaritani» che hanno espresso simili intenzioni nell’arco di pochi mesi (Ansa, 17 febbraio, 20:52).

Anonimato

Il test per l’Hiv è anonimo nel nostro Paese solo in poco più di un caso su tre: nei restanti, viene richiesta la ricetta medica o un documento di identità. È il dato che emerge da un’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità e della Consulta delle Associazioni per la Lotta all’AIDS sull’accesso ai test in Italia. Nei centri diagnostico-clinici pubblici intervistati è garantita la gratuità nel 76,2% dei casi, ma l’anonimato appena nel 37% e il colloquio di counselling pre e post Test, giudicato «prezioso» per l’approccio psicologico del paziente, nel 44,5% dei casi.
Test Aids: in Italia anonimato assicurato solo per un test su tre, Il Corriere della Sera, 17 febbraio 2010.

Questo non è un plagio

Deve andare di moda il vezzo alla René Magritte di Ceci n’est pas une pipe nella sessantesima edizione di Sanremo.
Sanremo sarà pur sempre Sanremo e farà parte del mondo e lo devi conoscere e così via (ma perché poi?), ma vederlo richiede davvero fegato e quest’anno non c’è nemmeno la Gialappa. Uno dei rarissimi aspetti positivi è il blog di Ernesto Assante e Gino Castaldo (che sta in piedi da solo senza costringerti a vedere la tv). Tra le chicche la libera ispirazione dello stacco di Sabiu a Hoppípolla su cui Antonella Clerici danza come avesse ingoiato R2-D2. Il confronto tra la Sabiu settima e Hoppípolla cancella ogni dubbio.
Sabiu lo dichiara (solo una volta preso nel sacco?), come scrivono Assante e Castaldo: Non è un plagio, ma è proprio ‘Hoppipolla’. Volevamo portare un po’ di musica diversa sul palco. (Rockol ha chiesto direttamente a Sabiu).
Magari dirlo sarebbe stato un gesto nobile. Non dico tanto, ma dirlo.

lunedì 15 febbraio 2010

Dieci volte sì agli OGM

Dario Bressanini dà dieci risposte a Carlo Petrini, che sull’Espresso aveva detto dieci volte no agli OGM:

«I prodotti Gm non hanno legami storici o culturali con un territorio. L’Italia basa buona parte della sua economia agroalimentare sull’identità e sulla varietà dei prodotti locali: introdurre prodotti senza storia indebolirebbe un sistema che ha anche un importante indotto turistico».

FATTO: se questi ragionamenti fossero stati fatti nei secoli scorsi in Italia non si sarebbe potuto importare pomodori, patate, mais, zucchine, melanzane, per non parlare del recente Kiwi, e così via. Il patrimonio agroalimentare italiano è ricco proprio perché è stato in grado di adattare al proprio territorio prodotti di altri paesi. Il già citato grano Senatore Cappelli è una varietà tunisina, senza “legami storici o culturali con un territorio”.

In più esistono molti ogm completamente italiani, sviluppati dalla ricerca pubblica italiana. Pomodoro, melanzana, melo... Lasciamo liberi gli agricoltori di scegliere.
Da leggere tutto.

Riassunto breve (di un orrore)

Sala riunioni
Il numero degli sfollati ancora in hotel, oltre 16.000, dopo dieci mesi, parla chiaramente. Coloro che restano vengono accolti nei campi tenda, preparati velocemente. Restano in città, ma chiusi nell'ovattata atmosfera creata da chi tende a non farli pensare. E li blinda davanti al televisore. E li distrae con spettacoli di clown ed animatori. Pochi restano liberi, nella città fantasma. Quelli che hanno percepito. Quelli che vogliono vedere. E capire. E che tentano di organizzare una forma di resistenza al sopruso che si sta perpetrando. Ma sono tenuti sotto controllo. E neutralizzati. Viene loro impedito di comunicare con i concittadini nelle tende. L'operazione di comando e controllo è efficacissima. Si ottiene che gli Aquilani, sulla costa e nei campi, ricevano la medesima informazione, falsata, che passa nell'Italia intera: a L'Aquila si sta lavorando, tutto procede al meglio.
E non è finita qua: Miss Kappa.

martedì 9 febbraio 2010

Buoni genitori a Pavia

Eluana, la vita non è solo respiro

Una rosa per Eluana Englaro
È passato un anno dalla morte di Eluana Englaro. Diciotto anni dall’incidente mortale. Due morti diverse, spesso coincidenti: quella della coscienza, la morte mentale o biografica; quella che ti fa smettere di pensare e capire e sentire. E quella del corpo, assoluta e totale. Due morti diverse se si accoglie la premessa che la vita biologica è una condizione necessaria ma non sufficiente per la vita personale. Due morti diverse: una fortuita e accidentale; l’altra voluta, rivendicata come libertà e diritto di scegliere. E il volere la morte è qualcosa che non si perdona. Perché la vita è sacra e sono tutti bravi a dirti che non te ne puoi liberare, salvo poi magari ripensarci qualora si sia direttamente coinvolti. Perché la vita è sacra e il tuo volere non conta nulla.

Continua su Giornalettismo, 9 febbraio 2010.

venerdì 5 febbraio 2010

La libertà d’opinione può far male


La libertà d’opinione è un diritto fondamentale. Cosa si può definire opinione e cosa invece solo pregiudizio o ridicola affermazione? È un diritto fondamentale anche dire idiozie, ma è bene soffermarsi sugli effetti e sugli anticorpi (perlopiù assenti nelle tante persone che le ascoltano come fossero un oracolo).
È una abitudine diffusa chiedere al primo che capita cosa ne pensa del nucleare o del buco nell’ozono. Intervistatore e intervistato sono quasi sempre a digiuno degli argomenti di cui blaterano, ma non è un buon motivo per tirarsi indietro!
Ai diritti GLBTQ va particolarmente male. Lorella Cuccarini, presunta icona gay, si dichiara contraria al matrimonio gay perché lei è cattolica – dimenticando che l’Italia è uno Stato laico e non il corpo della testa vaticana e che esiste il matrimonio civile che non dovrebbe discriminare nessun cittadino. Le proteste non sono abbastanza forti per contrastare l’effetto sui tanti che ne sanno ancor meno o che non se ne curano. Tanto più che il Circolo Mario Mieli la ospita giustificandone le posizioni.
Ma Lorella è in buona compagnia: Sabrina Ferilli è d’accordo nel condannare matrimonio e adozioni se non sei eterosessuale; e Lucetta Scaraffia afferma che è forse meglio nascere in seguito a uno stupro che da una coppia gay. Ovviamente senza alcuna spiegazione o argomentazione. È così perché loro pensano così. Poco importa che sia insensato, crudele e lesivo di diritti già zoppicanti.

(Dnews, 5 febbraio 2010)

Lucetta, di nuovo


Scrive Lucetta Scaraffia sul Riformista di ieri («Il no al matrimonio tra omosessuali non è omofobia», 4 febbraio 2010, p. 17):

Il matrimonio infatti non appartiene al novero dei diritti che devono essere garantiti a tutti, ma è una istituzione che prevede la creazione di una famiglia, e quindi nasce dal legame fra una donna e un uomo che possono procreare. Se proprio lo vogliamo considerare un diritto, si tratta di un diritto che come molti altri – per esempio il diritto di voto, per usufruire del quale bisogna avere compiuto diciotto anni – richiede delle condizioni per accedervi. E non potersi sposare fra persone dello stesso sesso non può certo essere considerata una discriminazione o una mancanza di rispetto: è solo la constatazione che mancano dei requisiti richiesti per il matrimonio. Anche se questo, in una società che nella propria cultura ha ormai separato sessualità e riproduzione, non è sempre facile da capire.
Devo ancora incontrare un omofobo – pardon: una persona contraria al matrimonio tra omosessuali – che mi sappia spiegare in modo semplice e logico perché, in base ad argomenti come quelli offerti qui dalla Scaraffia, non si debba essere anche contrari al matrimonio tra un uomo e una donna che abbia superato i cinquant’anni, e che sia dunque senza alcun dubbio non più capace di procreare. Forse bisognerebbe istituire un premio in denaro: 1000, 2000 euro a chi trova la soluzione... Magari può concorrere anche la professoressa Scaraffia, che nel gennaio del 2009, a 60 anni suonati, confidava a Panorama di voler sposare in chiesa Ernesto Galli della Loggia (e vabbè che questi era già civilmente suo marito). Non risulta che i due abbiano avuto figli assieme.

mercoledì 3 febbraio 2010

Ancora Lucetta

Figli di gay meglio di figli di una violenza? Non so se è meglio. Questa più o meno una delle affermazioni di Lucetta Scaraffia (qui).
Ci si sorprende ancora, nonostante ne abbia già dette tante di perfide idozie. Perfide idiozie in un involucro sciocco. Il paragone con uno stupro è ridicolo, oltre ad essere sbagliate le sue conclusioni.
Sottoscrivo Mark.

martedì 2 febbraio 2010

Concezione verginale da sesso orale?

Sta girando in questi giorni nella blogosfera di lingua inglese una storia apparentemente incredibile (il centro recente di questa diffusione sembra essere «True Story: How To Get Pregnant via Oral Sex», Standard Madness, 25 gennaio 2010; la storia ha preso le ali dopo essere stata riproposta il 1 febbraio da Discover, «NCBI ROFL: That’s one miraculous conception», che riporta gran parte della fonte originale, risalente in realtà al lontano 1988).
Una ragazza quindicenne del Lesotho viene ricoverata in ospedale dopo che il suo ex fidanzato ha accoltellato lei e il suo attuale boyfriend. La donna presenta due fori allo stomaco, che vengono prontamente medicati. Nove mesi dopo, la stessa ragazza torna in ospedale, questa volta per una gravidanza giunta ormai a termine. Il parto però, come scoprono presto i medici, si presenta complicato: la donna, infatti, è priva di vagina. Dopo il parto cesareo e la nascita di un bambino di 2,8 kilogrammi giunge inevitabilmente il momento di porre alcune domande. Con l’aiuto di un’infermiera e di un po’ di tatto la storia emerge gradualmente: la ragazza sapeva di essere priva di vagina e, dopo qualche tentativo assai insoddisfacente di portare a termine un rapporto di tipo tradizionale, aveva ripiegato sulla pratica del sesso orale. Ed è proprio nell’atto di compiere quest’ultimo che l’aveva colta il suo ex; ne era seguito l’accoltellamento. Una volta chiarita la dinamica dell’avventuroso concepimento, ha luogo il tradizionale scambio di bestiame e la donna va a vivere col padre del bambino. I medici intanto concludono che la fecondazione sarebbe stata causata dal seme dell’uomo, scivolato attraverso il foro dello stomaco fino a raggiungere gli organi riproduttivi.

Cosa pensare di questa storia? Diciamo subito che i fatti sono riportati in una comunicazione scientifica autentica, apparsa su una rivista peer-reviewed: Douwe A.A. Verkuyl, «Oral conception. Impregnation via the proximal gastrointestinal tract in a patient with an aplastic distal vagina. Case report», British Journal of Obstetrics and Gynaecology (ora BJOG: An International Journal of Obstetrics & Gynaecology) 95 (1988), pp. 933-34. L’articolo è accessibile solo agli abbonati, ma una copia è disponibile qui (o qui). Il tono generale dell’articolo, a parte alcuni passi comprensibilmente coloriti, è inappuntabilmente scientifico.
Questa però non è una prova conclusiva di autenticità. Non è chiaro se la rivista abbia effettuato dei controlli, resi peraltro difficili dalla lontananza geografica; si può supporre che abbiano contato le credenziali professionali di Verkuyl, all’epoca primario di ostetricia e ginecologia degli United Bulawayo Hospitals di Bulawayo, Zimbabwe, e autore di almeno altri due studi scientifici (da allora il curriculum dell’autore si è arricchito, e conta ora 38 titoli, molti dei quali in riviste di primo piano).
Dall’altro lato, però, ci viene chiesto di credere a una serie inaudita di improbabilità concatenate. Abbiamo a che fare, nell’ordine, con una malformazione di per sé rara; con spermatozoi che riescono a sopravvivere nell’ambiente acido dello stomaco per più di alcuni secondi (anche se l’autore propone alcuni possibili meccanismi per questa circostanza); con un accoltellamento che si verifica proprio attorno ai giorni dell’ovulazione; con una ferita che interessa con precisione lo stomaco. Come se non bastasse, l’autore ritiene, per certe ragioni, che l’evento si sia verificato proprio intorno alla prima ovulazione della ragazza!
In breve: su un piatto della bilancia abbiamo la probabilità abissalmente bassa di una concezione che possiamo ben definire miracolosa; sull’altro, la probabilità che un professionista metta a repentaglio la propria reputazione per ordire uno scherzo ai danni di una prestigiosa rivista. Il David Hume del saggio sui miracoli non avrebbe avuto molti dubbi nel giudicare... (Esistono anche due altre possibilità: 1) che Verkuyl non abbia riportato il caso di prima mano e che sia stato a sua volta vittima di un inganno; ma questo equivale di nuovo a mettere in questione la professionalità dell’autore, che andrebbe contro la prassi propria di un case study e che comunque non cita nessun altro nell’articolo; il fatto, a prima vista un po’ sospetto, che il Lesotho sia abbastanza distante dallo Zimbabwe può facilmente spiegarsi in altro modo; 2) che esista un’altra spiegazione per l’accaduto; ma questo – visto anche che la paziente era stata sottoposta in seguito a un tentativo di ricostruzione della vagina, descritto con dovizia di particolari nell’articolo, e che non ci si poteva dunque ingannare sul suo stato – sembra equivalere a un altro miracolo.)

Ma esiste forse un modo per risolvere il caso, senza ricorrere a principi generali. Nel 1989 la stessa rivista (vol. 96, p. 501) pubblicava una lettera del dottor D.A. Hicks, a proposito dell’articolo di Verkuyl. Il testo non mi è accessibile (e sarò grato a chiunque me lo vorrà inviare), ma da alcuni accenni trovati altrove appare che Hicks avesse fatto notare le somiglianze del caso con un altro avvenuto durante la guerra civile americana, narrato da un certo L.G. Capers («Notes from the Diary of a Field and Hospital Surgeon, C.S.A.», The American Medical Weekly 1, 1874, pp. 233-34). Ecco la storia.
Siamo nel 1863. Una brigata dell’esercito confederato sta sostenendo l’urto dell’esercito nordista presso un villaggio, non lontano da un’abitazione la cui padrona di casa, assieme alle due giovani figlie, serve da infermiera. Nel corso dello scontro un soldato del sud cade improvvisamente, colpito da una palla vagante; quasi nello stesso istante, si ode un grido provenire dalla direzione della casa. Il chirurgo, autore dell’articolo, soccorre subito il giovane ferito. Il proiettile ha colpito la tibia e, rimbalzando, ha trapassato lo scroto portando via con sé il testicolo sinistro. Il medico ha appena finito di medicare la ferita, quando ecco giunge la padrona di casa: pochi minuti prima una delle sue figlie è rimasta gravemente ferita, trapassata al ventre da una pallottola che è rimasta nella cavità addominale. Nonostante la gravità delle lesioni, la ragazza riesce a sopravvivere e a riprendersi.
Il chirurgo, ripassando dallo stesso villaggio otto mesi dopo l’accaduto, trova la giovane in ottime condizioni, salvo per un inspiegabile ingrossamento del ventre. Un mese dopo, con grande costernazione della famiglia, nasce un bel bambino. La giovane protesta la propria virtù, ma il chirurgo non le crede, nonostante il fatto che durante il travaglio le abbia trovato l’imene ancora intatto.
Passano tre settimane, e il chirurgo viene chiamato dalla nonna del bambino: c’è qualcosa che non va nei genitali del neonato. Nello scroto è presente un corpo estraneo; e grande è la meraviglia del medico quando, estrattolo, si rende conto che si tratta di una pallottola, deformata per aver urtato contro qualche materiale solido. Lentamente la verità si fa strada nella mente del medico: una stessa pallottola, passando per lo scroto del soldato, aveva trascinato con sé il seme, per depositarlo nell’utero della ragazza, che era rimasta in questo modo incinta. Si rintraccia il giovane che, inizialmente scettico, acconsente a rendere visita alla ragazza; dopo qualche tempo, convinto o meno che sia dell’accaduto, la sposa.

Questa storia è, ovviamente, una bufala, come è dimostrato sul sito Snopes.comSon of a Gun»). A parte la somma improbabilità degli eventi, il ritrovamento del proiettile nello scroto del neonato è una chiara impossibilità medica; inoltre, in una «Editor’s Note» apparsa poco tempo dopo sullo stesso volume dello stesso giornale (pp. 263-64), si prendono le distanze dal racconto. Nonostante ciò la storia ha continuato a circolare, venendo presentata talvolta come un resoconto di un caso realmente accaduto.
Le analogie generali con i fatti del Lesotho sono evidenti; ma esistono almeno due collegamenti più specifici. Il primo è l’insistenza che si fa in entrambi i racconti sulla somiglianza del bambino con il padre: «I may mention having received a letter during the past year, reporting a happy married state and three children, but neither resembling, to the same marked degree, as the first – our hero – Pater familias!» (1874); «the son looked very much like the legal father», «The fact that the son resembled the father excludes an even more miraculous conception» (1988). Si potrebbe sostenere che si tratta di un espediente – a dire il vero più retorico che scientifico – per assicurare il lettore della realtà di quella peculiare paternità, e che come tale sia suscettibile di sviluppi paralleli ma autonomi. Più interessante un’altra coincidenza sospetta (segnalata già da qualche commentatore). Quand’è che le due ragazze partoriscono? «Just two hundred and seventy-eight days from the date of the receipt of the wound» l’americana; l’africana «Precisely 278 days later», anche se il termine di riferimento sembra essere qui non l’incidente ma le prime dimissioni dall’ospedale, 10 giorni dopo la ferita.
Dobbiamo chiederci a questo punto cosa ci sia di particolare in questa cifra. Fin da Aristotele la durata media della gravidanza umana è ritenuta ammontare a 280 giorni. Nella seconda metà del XIX secolo si era diffusa per qualche tempo la media alternativa di 278 (cfr. James Matthews Duncan, Fecundity, fertility, sterility, and allied topics, Edinburgh, Black, 1866, p. 337), ma ai giorni nostri si è tornati alla vecchia media di 280 (278 giorni sembra essere la gravidanza media delle donne giapponesi; per le africane la durata sembra ancora inferiore, mentre per le primipare è leggermente superiore), che casomai dovrebbe essere riveduta all’insù. Ecco spiegata la notazione dell’autore del 1874 («Just 278 days»), che avrà usato per la sua finzione la media ritenuta esatta all’epoca. Ma come spiegare la coincidenza con il resoconto del 1988? La si potrebbe addebitare all’ennesimo caso: in fondo, si potrebbe dire, la durata media di una gravidanza è più o meno quella, giorno più giorno meno. È vero che in questo caso ai 278 giorni vanno sommati, come abbiamo visto, i 10 del primo ricovero; ma 288 giorni sono ancora una durata nella media. Qui, però, il proverbiale asino fa un capitombolo. Quando si dice che una gravidanza dura in media 280 giorni, si intende che il computo inizia dall’ultima mestruazione. La fecondazione vera e propria si verifica in realtà in media 14 giorni dopo, intorno al momento dell’ovulazione (la cosa era ancora relativamente oscura nel XIX secolo). Ma nel caso in esame la ferita corrisponderebbe proprio alla fecondazione; la gravidanza quindi sarebbe equivalente a una di 278 + 10 + 14 = 302 giorni, che non è impossibile ma è assai inusuale (e molto pericolosa per la madre). Anche ammettendo che lo sperma sia sopravvissuto per qualche tempo nel corpo della donna, il totale si può abbassare non più di 4-5 giorni. Avremmo insomma altre due ulteriori improbabilità da aggiungere alla nostra già cospicua lista: una gravidanza di durata anomala, e un autore che comunica una cifra «casualmente» analoga (e arbitraria: qui 278 giorni sono solo il periodo intercorso tra un ricovero e l’altro) a quella presente nell’unico resoconto analogo presente (abusivamente) nella storia della medicina.

Tutto, naturalmente, è possibile; ma la sensazione è che il dottor Verkuyl abbia voluto indirizzare ai suoi lettori una poderosa, ancorché in tralice, strizzata d’occhio.

Aggiornamento 3/2/2010: nei commenti un lettore propone un’affascinante ipotesi alternativa.

Il 2010 quaranta anni fa

Sono nuovamente ospite del blog Estropico, con un post sulle predizioni di un romanzo di fantascienza di quarantatré anni fa.

È l’arte più difficile; è, per dirla tutta, un’arte impossibile. Ma prevedere il futuro – di questo sto parlando – è anche un’arte indispensabile: non possiamo rinunciare del tutto ad anticipare, sia pure per vaghi accenni, in quale direzione stiamo andando, cosa ci aspetta dietro la prossima collina.
I metodi non mancano: modelli matematici, curve esponenziali e logistiche, scenari; ma nel migliore dei casi sono ovviamente solo delle euristiche, tecniche empiriche che possono farci avvicinare alla verità ma non possono dimostrarla rigorosamente. Fra i tanti, un sistema accessibile e non privo di efficacia è quello di esaminare le previsioni fatte in passato, cercando di imparare dai successi e – soprattutto – dagli errori di chi ci ha preceduto. Siamo nel 2010; nulla di meglio, allora, che esaminare un romanzo di fantascienza di qualche tempo fa ambientato in quest’anno. Non il ben noto 2010: Odyssey Two di Arthur C. Clarke, ma Stand on Zanzibar (Tutti a Zanzibar nell’edizione italiana della Nord, che è del 1977) dello scrittore britannico John Brunner (1934-1995), scritto nel 1967 e pubblicato nel 1968. Il libro si presta al nostro scopo: grazie a una tecnica narrativa particolare, che Brunner aveva preso in prestito dai romanzi di John Dos Passos, e che utilizza titoli di notiziari, spot pubblicitari, canzoni, slogan governativi, conversazioni casuali, citazioni di libri, nonché una folta schiera di personaggi e molteplici fili narrativi, ci ritroviamo in mano un affresco inusualmente dettagliato. Non ne riassumo la trama, che è secondaria rispetto ai nostri scopi, e passo direttamente all’esame delle predizioni. […]

(Continua su Estropico.)

lunedì 1 febbraio 2010

Ma perché facciamo guerra all’Islam?

Riccardo Chiaberge intervista l’islamista Olivier Roy sul divieto del velo integrale («Due estremismi in un burqa», Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2010, p. 15). Alcune delle riflessioni di Roy meritano di essere riportate:

«Il burqa è rifiutato dall’opinione pubblica, non c’è dubbio, ma su quale base giuridica lo si può vietare, se non per ragioni di sicurezza in luoghi specifici (poste, stazioni, eccetera)? Tanto più che le donne in burqa, spesso convertite di fresco, portano questo abito volontariamente, in modo ostentato, per provare la loro fede. Come si può considerare segno di schiavismo o di subordinazione un atto di fede, anche se ci appare esibizionistico? È il paradosso del burqa, che dà una maggiore visibilità proprio a ciò che vuole nascondere: la donna devota! Alla stessa stregua, come ai tempi della Rivoluzione francese, dovremmo proibire gli ordini contemplativi cattolici, dove uomini e donne credenti si rinchiudono per libera scelta in nome della fede?» […]
«Ma perché facciamo guerra all’Islam? – si domanda Roy, capovolgendo il luogo comune secondo cui è l’Islam radicale, semmai, a farci la guerra. – Per una parte della sinistra, l’Islam va combattuto in nome della laicità, dei diritti dell’uomo e della parità tra i sessi. Ma sempre di più lo si fa in nome dell’identità cristiana. Perfino intellettuali come Max Gallo, un ex-gauchiste che adesso va in chiesa, anche se non crede in Dio, al solo scopo di sostenere la civiltà europea, proprio come la vecchia Action française di Maurras (che peraltro la Chiesa condannò nel 1926). La sinistra è in un’impasse. Non ha saputo concepire un discorso di libertà sul problema religioso. Chiede solo di proibire il velo. E finisce così per allinearsi alla destra cristiana. Ma come conciliare il matrimonio gay e l’identità cristiana dell’Europa? C’è anche una sinistra terzomondista, specialmente in Inghilterra, che simpatizza con l’Islam in quanto strumento di riscatto degli oppressi, ma in tal modo giustifica i fondamentalisti». […]
Hanno ragione allora quelli che vorrebbero arginare “l’invasione” musulmana, vietando la costruzione di nuove moschee, vivaio di futuri terroristi? «Assurdo. L’immigrazione avverrà con o senza moschee. E la libertà religiosa è uno dei fondamenti della cultura politica europea. Si facciano dei minareti in stile svizzero, delle moschee all’occidentale, moderne. Ma non si chieda agli immigrati di convertirsi o di rinnegare la loro fede».