mercoledì 28 dicembre 2011

Ateismo e dintorni

Qualche giorno fa Massimo Pigliucci scriveva su “Rationally Speaking” (Massimo’s Picks, special Hitchens edition, december 25):

As you all know, Christopher Hitchens has recently passed away after a valiant (and very public) struggle against cancer. Most of the commentaries and obituaries were positive, and many of my fellow atheists and freethinkers seem to genuinely admire the man. I have always been puzzled by why, exactly, this is so.

Yes, he was an atheist. Yes, he wrote eloquently. But that's about it. He was also personally abusive (particularly, it appears, toward fellow writers), misogynist, obnoxiously in your face about his beliefs (or lack thereof), and spectacularly inconsistent (and incredibly often wrong) about his political positions.

So here is my admittedly contrarian collection of commentaries on Hitch, in the hope that we can come up with a more balanced view of the man and begin a thoughtful discussion about just how much good or bad he has done to atheism, freethought, and political discourse.
A seguire alcuni articoli con relativi link (che trovate qui).
Niente di strano fin qui, anzi qualcosa di buono: ovvero un esempio di come sarebbe sensato discutere di qualcuno o di una tesi. Ma qualcosa è andato storto, o meglio è andato tristemente nella direzione dlla dicotomia buono/cattivo. O meglio come spiega Pigliucci nel post del 27 dicembre (Jerry Coyne loses his cool, Dawkins his style):
This is not going to be a post about substance, only about form. Yes, I know, many in the atheist community don’t seem to think that the latter matters. If you are among them, don’t bother to read the rest of this.

As my readers might recall, a few days ago I published a special “Rationally Speaking Picks” with links to several articles critical of Christopher Hitchens, to balance out what I perceived to be a bit too much of a glorification of his persona upon his untimely death.

Apparently, that simple list managed to completely unhinge my colleague Jerry Coyne (as well as Richard Dawkins), in the process precisely making my point that some atheists suffer from hero worship and a selective dearth of critical thinking.

Jerry and I have a long history of mutual criticism, which goes back to our pre-public outreach days, covering a variety of issues in evolutionary biology (species concepts and speciation theory, the status of evolutionary theory, and the like). As readers of this (and his) blog know, we openly take issue with each other’s posts from time to time, and occasionally — and regrettably — the disagreement has gotten personal. It was for the latter reason that at some point I issued a formal apology to Jerry, which he rather ungraciously did not reciprocate.

But his latest post is a rant pure and simple, and has finally closed the book on Jerry Coyne, as far as I am concerned (and pretty much also closed the one on Dawkins too, more on him near the end). I will leave aside, as I said, the substantive content, partly because it is so preposterously an overreaction to what I wrote that it takes care of itself, partly because many of the questions that Jerry asks have actually been answered in the articles I linked to. Instead, here is a taste of what he writes about me:

“I respond briefly: Pigliucci is full of what comes out of the south end of a bull facing north.”

(I appreciate the colorful, if somewhat burlesque-style metaphor. As it turns out, however, his response is anything but brief.)

“Give me a fricking break, Dr.3 Pigliucci!”

(Jerry appears to have a complex of inferiority in my respects, at least as judged by his constant jeering of the fact that I have three PhD’s and he only one. What’s up with that, my friend?)
Il post continua e vale la pena leggerlo per intero. Non proprio un esempio di come discutere... O non ci si può permettere di criticare dio Hitch?
Sempre del 27 dicembre è un post su The goals of atheist activism.

martedì 27 dicembre 2011

lunedì 26 dicembre 2011

Marketing

sabato 24 dicembre 2011

Nel cervello delle donne


Il Corriere della Sera, La Lettura, p. 8.
Alessandra Tarquini lo ha letto a Pagina 3.

giovedì 22 dicembre 2011

The subtle line between conscientious objection and sabotage

The Washington Post recently reported the news of a dozen of nurses from a New Jersey hospital who claimed the right not to assist a patient before and after an abortion. Although conscience clauses are very common worldwide, they usually allow the health care personnel to refuse to perform abortions (or other morally controversial treatments) but not to refuse to assist a patient before and after the abortion. For this reason, the request put forward by the New Jersey nurses is particularly interesting. One of these nurses declared to the newspapers “I’m a nurse so I can help people, not help kill, and it just doesn’t seem right to me”. Now, it is hard to understand how someone who takes care of a woman who just had an abortion is somehow helping to kill. The care these nurses are refusing to provide involves feeding and washing the patient, maybe giving her pain killer drugs, but certainly not helping to kill, because the killing happens during the abortion, not before or after.
Francesca Minerva, Practical Ethics, december 5, 2011, continua qui.

martedì 20 dicembre 2011

Soldi per saltare la lista d’attesa

A capo della ginecologia e ostetricia dell'ospedale di Pieve di Cadore, chiedeva fino a 2.500 euro per ridurre i tempi d’attesa per avviare le procedure della procreazione medicalmente assistita. Dovrà rispondere di concussione aggravata e interruzione di pubblico servizio. Il video delle mazzette.

20 DIC - "Facendo leva sul sogno di completare la famiglia con il tanto agognato figlio", Carlo Cetera, primario dell'ospedale di Pieve di Cadore (BL), induceva le coppie a pagare sino a 2.500,00 euro per ogni singolo tentativo di procreazione medicalmente assistita (p.m.a.), "certo che l'angoscia legata ad una maternità sempre negata avrebbe convinto soprattutto le aspiranti mamme ad accettare la sua proposta: denaro in cambio di un rapido inserimento nella lista d'attesa pubblica".

Così la Guardia di Finanza annuncia l'arresto di Cetera (nel video a fondo pagina uno dei pagamenti ottenuti dal medico durante un incontro con una paziente in un bar. Il primario si trova nella parte sinistra dello schermo). "Accettando di pagare i tempi d'attesa - spiega la nota della GdF - si potevano ridurre anche a pochi mesi, in un settore in cui le statistiche dicono che ogni settimana di attesa riduce le possibilità di gravidanza in donne che spesso hanno già superato quota 40 anni".

I finanzieri del Comando Provinciale di Belluno, hanno accertato che la "proposta indecente" veniva normalmente formulata dal medico o al termine del primo colloquio con la coppia o in un successivo incontro appositamente richiesto. Il primario, già nel corso della prima visita, si informava sulle disponibilità economiche dei suoi pazienti; avanzata la richiesta di denaro per "saltare la lista pubblica", si premurava di incassare il denaro personalmente fissando incontri nei luoghi più disparati, avvertendo le coppie che al telefono non dovevano mai parlare di soldi.
Belluno. Arrestato primario ginecologia: tangenti per saltare lista d’attesa per Pma, Quotidiano Sanità, 20 dicembre 2011.

lunedì 19 dicembre 2011

Mai nate

Venti anni fa Amartya Sen calcolava in 100 milioni il numero delle bambine scomparse nel mondo a causa di negligenza, infanticidi, aborti sesso-specifici. È un fatto innegabile che tutti noi abbiamo prestato a questo dramma ben poca attenzione. L’autrice cerca di capire il perché di questa distrazione, di ricostruire l’intreccio tra fattori sociali e culturali, politici ed economici che ha portato al genocidio di genere, di capire se il fenomeno è rimasto confinato a Cina e India o rischia di contagiare altre regioni. Esiste il rischio che le scelte individuali, sommandosi, determinino uno sbilanciamento complessivo del rapporto numerico tra i sessi? Il dibattito sulla selezione del sesso dei figli in Asia, ed eventualmente nel mondo, diventa inevitabilmente un dibattito sulla modernità. Il vero pericolo è il progresso tecnologico, l’arretratezza oppure l’incontro tra vecchio e nuovo? La modernità è parte del problema o rappresenta la cura? Provare a scalare queste domande, impervie e scivolose, è cruciale per capire cosa è successo e cosa potrebbe accadere. Prima di intraprendere questo percorso, però, è necessaria una sosta sul terreno della scienza. Perché per identificare le fluttuazioni del rapporto numerico tra i sessi causate dalla selezione “innaturale”, bisogna innanzitutto quantificare il rumore di fondo legato alle variazioni naturali. Questo significa muoversi nei labirinti della fisiologia della riproduzione e della biologia evoluzionistica.
Questa è la scheda di Mai nate di Anna Meldolesi (ci torneremo).
Su ibs.
Su Facebook.

sabato 17 dicembre 2011

Annullato il concorso


Le puntate precedenti sono qui. Oggi la notizia dell’annullamento su la Stampa.

Mommie dearest


(Hell's Angel, 1994 BBC television).

Mommie dearest. The pope beatifies Mother Teresa, a fanatic, a fundamentalist, and a fraud. Un articolo di Christopher Hitchens del 2003 che è sempre utile rileggere (Slate, continua qui).
I think it was Macaulay who said that the Roman Catholic Church deserved great credit for, and owed its longevity to, its ability to handle and contain fanaticism. This rather oblique compliment belongs to a more serious age. What is so striking about the "beatification" of the woman who styled herself "Mother" Teresa is the abject surrender, on the part of the church, to the forces of showbiz, superstition, and populism.
It's the sheer tawdriness that strikes the eye first of all. It used to be that a person could not even be nominated for "beatification," the first step to "sainthood," until five years after his or her death. This was to guard against local or popular enthusiasm in the promotion of dubious characters. The pope nominated MT a year after her death in 1997. It also used to be that an apparatus of inquiry was set in train, including the scrutiny of an advocatus diaboli or "devil's advocate," to test any extraordinary claims. The pope has abolished this office and has created more instant saints than all his predecessors combined as far back as the 16th century.
As for the "miracle" that had to be attested, what can one say? Surely any respectable Catholic cringes with shame at the obviousness of the fakery. A Bengali woman named Monica Besra claims that a beam of light emerged from a picture of MT, which she happened to have in her home, and relieved her of a cancerous tumor. Her physician, Dr. Ranjan Mustafi, says that she didn't have a cancerous tumor in the first place and that the tubercular cyst she did have was cured by a course of prescription medicine. Was he interviewed by the Vatican's investigators? No. (As it happens, I myself was interviewed by them but only in the most perfunctory way. The procedure still does demand a show of consultation with doubters, and a show of consultation was what, in this case, it got.)
According to an uncontradicted report in the Italian paper L'Eco di Bergamo, the Vatican's secretary of state sent a letter to senior cardinals in June, asking on behalf of the pope whether they favored making MT a saint right away. The pope's clear intention has been to speed the process up in order to perform the ceremony in his own lifetime. The response was in the negative, according to Father Brian Kolodiejchuk, the Canadian priest who has acted as postulator or advocate for the "canonization." But the damage, to such integrity as the process possesses, has already been done.

giovedì 15 dicembre 2011

I maligni della rete


Avevamo già parlato della lettera aperta e della petizione riguardo a un concorso universitario dallo svolgimento dubbio.
Oggi ricostruiamo i dettagli della vicenda fin qui. Il titolo fa riferimento a Caso Rizzello: il Preside chiede la nomina di una commissione per fare chiarezza, Radio Gold di ieri.
I maligni della rete hanno ragione.

Link alla Lettera aperta al Rettore dell’Università del Piemonte Orientale sottoscritta da circa 1200 accademici italiani.
Link alla tabella comparativa della produzione dei candidati su riviste scientifiche con procedura di peer review.
Contiene anche i link ai cv di tutti i candidati. Petizione e tabella sono stati inviati il 12 dicembre al Rettore dell’Unipm, al Ministro Profumo e alla Società Italiana degli Economisti.

Oggi del concorso parlano di nuovo La Stampa e soprattutto il Fatto Quotidiano, dove Michele Boldrin ha scritto una lettera aperta al Ministro Profumo.

Link a Secs in the cities (Forum di discussione & scambio di idee per concorsisti dei vari settori economico-matematico-statistici).
Link al pezzo de La Stampa del 6 dicembre.
Link al pezzo de La Stampa del 7 dicembre.
Link alla lettera di Roberto Mazzola a La Stampa e risposta di Miriam Massone.

Pezzo de Linkiesta sulla Petizione.

Link alla lettera di "dissociazione" del commissario prof. Damiano Silipo a NFA (inviata con lo stesso testo anche a La Stampa e Alessandria News).

Link ai pezzi sulla stampa locale (a volte terribili; tra questi Radio Gold de I maligni della rete):

Pezzo di Alessandria Oggi del 7 dicembre (Rizzello e le sorelle Spada).
Pezzo di Alessandria News del 7 dicembre.
Lettera di Rizzello ad Alessandria Oggi del 10 dicembre (annuncia querele, ma non le ha mai fatte).
Pezzo di Alessandria Oggi del 12 dicembre.
Pezzo di Alessandria Oggi del 14 dicembre (Il Senato accademico nomina una commissione per "fare chiarezza").
Pezzo di Radio Gold di oggi.

mercoledì 14 dicembre 2011

Chiedere scusa (2)


la Repubblica


la Stampa

Il Corriere della Sera (Firenze)


Samb Modou e Diop Mor sono morti ieri. I senegalesi. Certo, è fondamentale sottolinearne la nazionalità.
Di questo nessuno chiederà scusa ai lettori o alla propria coscienza (che strana azione chiedere scusa a se stessi), tantomeno a loro. E poi i senegalesi sono morti davvero, la notizia è salva.

Neuroetica e tribunali: profili di responsabilità morale, giuridica e sociale nella prospettiva delle neuroscienze

Il Convegno discute le implicazioni tecnico-scientifiche, etiche, giuridiche, filosofiche e sociali dell’applicazione delle neuroscienze alla prassi ed alla teoria del diritto, a partire dai recenti casi giudiziari in Italia, in cui test di genetica comportamentale e di neuroimaging funzionale hanno condotto a diagnosi di infermità mentale degli imputati. Particolare attenzione verrà dedicata alla comparazione tra contesto statunitense ed europeo ed alle eventuali influenze che le neuroscienze potrebbero esercitare sul concetto di responsabilità in senso morale, giuridico e sociale.
Negli ultimi vent’anni, i tribunali di tutto il mondo hanno evidenziato un incremento dell’impiego di teorie e tecnologie neuroscientifiche nei procedimenti giudiziari civili e penali. Muovendo dalla prospettiva delineata dalla neuroetica, disciplina di intersezione tra bioetica e neuroscienze, il Convegno discute le implicazioni di carattere etico-filosofico, tecnico-scientifico, giuridico e sociale del tema. I nuovi modelli neuroscientifici del comportamento criminale e l’uso delle neurotecnologie come prove processuali nelle perizie tecniche (dalla behavioural genetics al neuroimaging) rendono controversa la nozione di responsabilità penale negli ordinamenti dei vari Stati e pongono nuovi interrogativi sulle misure per il possibile recupero del soggetto criminale ed, in generale, per la comprensione dei fenomeni sociali. Queste tecniche hanno dato luogo allo studio di basi organiche della nostra nozione ordinaria di responsabilità morale, nozione fondata sui concetti filosofici di coscienza, autodeterminazione e libero arbitrio, che orienta la categoria della responsabilità giuridica all’interno dei sistemi normativi occidentali. Il Convegno si propone di discutere il rapporto tra neuroscienze e scienze forensi, con particolare riferimento al problema dell’utilizzo delle nuove tecniche di neurogenetica e di neuroimmagini funzionali (soprattutto PET e fMRI) a scopo investigativo e probatorio all’interno del processo civile e penale, nonché di  comprendere l’impatto che tali tecniche avranno sulla teoria del diritto. Il Convegno, in ultimo, si interroga sulle possibili conseguenze delle acquisizioni neuroscientifiche sul complesso della società. Oggetto della discussione sarà anche l’analisi comparata tra casistica statunitense ed italiana, al fine di valutare il modo in cui l’utilizzo degli strumenti e delle conoscenze in oggetto è in grado di produrre declinazioni giuridiche differenti nei diversi ordinamenti.
15 dicembre, dalle 9.15 alle 17.30, CNR, Piazzale Aldo Moro 7, Aula Marconi.
Il programma completo è qui.
La registrazione (Radio Radicale).

domenica 11 dicembre 2011

Chiedere scusa

Un giorno scrivo che quelli del quinto piano hanno picchiato e derubato Mario (me lo ha detto Mario).
Il giorno dopo alcuni cittadini vanno da quelli del quinto piano e alzano un casino: qualche porta divelta, paura, schiaffi.
Poi si viene a sapere che Mario si è inventato tutto.
Allora chiedo scusa: ai lettori e a me stessa.
Ma non dovrei chiedere scusa prima di tutto a quelli del quinto piano?
Perché bisogna scusarsi con le persone giuste, altrimenti rischia di non valere.
E poi, temo, le scuse sarebbero state necessarie anche prima che la verità emergesse (il corsivo è mio; ad ora il titolo di cui ci si scusa è ancora online).

Ieri, nel titolo dell’articolo che raccontava lo «stupro» delle Vallette abbiamo scritto: «Mette in fuga i due rom che violentano sua sorella». Un titolo che non lasciava spazio ad altre possibilità, né sui fatti né soprattutto sulla provenienza etnica degli «stupratori». Probabilmente non avremmo mai scritto: mette in fuga due «torinesi», due «astigiani», due «romani», due «finlandesi». Ma sui «rom» siamo scivolati in un titolo razzista. Senza volerlo, certo, ma pur sempre razzista. Un titolo di cui oggi, a verità emersa, vogliamo chiedere scusa. Ai nostri lettori e soprattutto a noi stessi.
(Il titolo sbagliato, la Stampa, 11 dicembre 2011).

Giuliano Ferrara ha ragione

Ha ragione quando conclude il suo pezzo sulla vicenda della 16enne, la gravidanza, il tribunale e poi l’aborto così (Adesso i cattolici che “capiscono” l’aborto non parlino di amore, Il Giornale di oggi):

Anche gli uomini di chiesa si sentono costretti a sociologizzare il problema, a dirsi come il direttore del giornale cattolico chiamato a commentare la storia, «amareggiati» per un aborto che non si può accettare, ma pieni di comprensione per le ansie dei genitori e per la situazione in cui si è trovata la ragazzina. La comprensione per chi può decidere da forte dell’esistenza dei deboli è solo l’altra faccia della spietatezza verso la vittima di una inversione e trasvalutazione di tutti i valori della vita e dell’amore. Non mi stiano più a disturbare, questi cattolici comprendenti, con il tema loro caro dell’amore e della solidarietà. Si tengano quelle parole falsamente religiose, e ci lascino una laica e sacra pietà.
Ha ragione a reclamare la coerenza: se l’aborto è l’uccisione di un innocente, il peggiore degli omicidi perché compiuto sul più debole, se è moralmente inammissibile (premessa che sembra essere comune alle gerarchie cattoliche e a Giuliano Ferrara), allora non si può essere teneri. Un omicidio è un omicidio, non si può tentennare. Unico neo: anche Ferrara si rifiuta di trarre le conclusioni coerenti con la premessa, rifiutandosi di appellare le donne con il termine che meriterebbero: assassine.
(Sulla vicenda ho scritto qui).

Study: Atheists distrusted as much as rapists

“People find atheists very suspect,” Shariff said. “They don’t fear God so we should distrust them; they do not have the same moral obligations of others. This is a common refrain against atheists. People fear them as a group.”

Shariff, who studies atheism and religion, said the findings provide a clue to combating anti-atheism prejudice.

“If you manage to offer credible counteroffers of these stereotypes, this can do a lot to undermine people’s existing prejudice,” he said. “If you realize there are all these atheists you’ve been interacting with all your life and they haven’t raped your children that is going to do a lot do dispel these stereotypes.”
The Washington Post di ieri.

sabato 10 dicembre 2011

Lettera aperta al rettore dell’Università del Piemonte Orientale e petizione

Oggetto: Procedura di valutazione comparativa per un posto di ricercatore nel settore scientifico-disciplinare SECS-P/01 (Economia Politica) presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale ‘Amedeo Avogadro’, con bando pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale numero 97 del 7 dicembre 2010.

Roma, 9 dicembre 2011

Ill.mo Prof. Garbarino,

Siamo un gruppo di ricercatori e professori, animati dalla convinzione che le attuali procedure pubbliche di selezione del personale accademico, nel nostro Paese, debbano rispettare i più rigorosi standard di trasparenza e qualità, evitando ogni potenziale conflitto di interesse tra valutato e valutatore.

Per tale ragione, desideriamo portare alla Sua conoscenza le forti perplessità che nutriamo rispetto alla vicenda concorsuale in oggetto, sulla base delle notizie di stampa fin qui circolate e delle informazioni disponibili in merito.
La lettera prosegue qui.
Alla fine della pagina si può sottoscrivere la petizione (richiesta di tutelare la trasparenza del concorso da ricercatore nel SSD SECS-P/01 presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale).

domenica 4 dicembre 2011

Far finta di dormire


Te l’avevan detto che finivi male
Francesco Guccini, Piccola storia ignobile

I’ve been running through these promises
to you that I made and I could not keep
Leonard Cohen, I’m your man


È senza dubbio ripugnante obbligare qualcuno a compiere un gesto che non vuole compiere. Ma il significato di «obbligare» dipende dal contesto: quando un gesto obbligato deriva da una nostra precedente libera scelta, possiamo ancora usare lo stesso verbo?
Sembra difficile, senza che il significato genuino del verbo obbligare sia disgiunto dalla parola, dal suono o dalla traccia nera su un foglio bianco.

La possibilità di fare obiezione di coscienza in campo sanitario delinea scenari preoccupanti, soprattutto per quanto riguarda l’interruzione volontaria di gravidanza. Sia quando la possibilità concessa dalla legge è applicata correttamente, sia e a maggior ragione quando è applicata in modo disinvolto. D’altra parte la legge non stabilisce un tetto massimo – e come potrebbe farlo? – ma si limita a distinguere l’obiezione del singolo da quella della struttura. Quando va bene, perché non sempre è così e spesso poi la distinzione viene ignorata e si finisce con l’attribuire una coscienza anche alle strutture.
Che cosa faremmo se tutti i medici decidessero di essere obiettori di coscienza? Come garantiremmo le scelte dei pazienti?

Ci ritroveremmo forse a dover obbligare alcuni medici? E secondo quali criteri? Di certo non si può pensare di risolvere la questione aggrappandosi all’improbabilità di un simile scenario, all’idea che i medici sono persone e che le persone sono diverse e quindi sarebbe inverosimile che tutti i medici scegliessero di essere obiettori. È solo l’ennesimo tentativo di eludere queste domande. È solo un modo per non vedere che, in scala ridotta, succede già perché in alcuni ospedali tutti i medici sono obiettori.

Abolire la possibilità di fare per legge obiezione di coscienza sarebbe un gesto troppo brutale? Forse. Ma sarebbe ingiusto e illegittimo? Forse no, se il dominio su cui si vuole esercitarla è disegnato dalle nostre scelte e non è un dovere che vale per tutti.

Possiamo provare a rispondere prima a un’altra domanda: quali alternative abbiamo? Perché dovremmo almeno smettere di fare finta che non ci sia un conflitto desolante. «È sempre possibile svegliare uno che dorme, ma non c’è rumore che possa svegliare chi finge di dormire» scrive Jonathan Safran Foer. [1]
Quali alternative abbiamo per evitare che quanti si rivolgono a un medico non vengano schiacciati dalla sua visione del mondo? Per evitare che ciò che la legge concede a una persona venga corroso e annientato dalla coscienza altrui?

È senza dubbio ripugnante sgretolare le richieste che hanno a che fare con la nostra libertà di scegliere riguardo alla nostra esistenza, quando queste richieste non costituiscono una violazione di un diritto di qualcun altro in senso forte.
Il conflitto [2] tra la richiesta del paziente e quella del medico non sarà forse sanabile, ma per non rimanere sospeso in uno spazio senza significato, deve essere risolto attribuendo un peso a ciascuna richiesta. Il paternalismo sceglie di assegnare più peso alla scelta del medico. Quale peso vogliamo scegliere noi?

Ho raccontato solo alcune delle storie che si potrebbero raccontare sulla difficoltà di abortire o di esaudire una richiesta medica, che non è mai una richiesta solo medica, e temo di non essere stata esaustiva nemmeno sulla tipologia delle storie – ammesso che abbia senso parlare di una tipologia di storia. Queste storie meritano una risposta. Meritano la nostra veglia.

Conoscere quanto accade nei corridoi degli ospedali rende difficile continuare a pensare che si possa continuare a dormire. Certo, si può sempre fare finta.

NOTE

[1] Jonathan Safran Foer, Se niente importa, op.cit.
[2] Il conflitto è ben espresso da Sean Murphy: «Il tentativo di raggiungere un “equilibrio praticabile e rispettoso” tra gli interessi confliggenti di pazienti e operatori sanitari è lodevole, ma tralascia di considerare la natura del conflitto. Nei casi di obiezione di coscienza, i pazienti hanno interesse a ottenere un particolare prodotto o servizio, mentre gli operatori sanitari perseguono l’interesse di vivere e lavorare secondo le convinzioni della loro coscienza. Con sufficiente immaginazione e volontà politica, si potrebbe trovare il modo di conciliare gli interessi di entrambi. Ma i loro interessi non possono essere equilibrati, perché non sono misurabili; riguardano benefici radicalmente diversi». (Service or Servitude: Reflections on Freedom of Conscience for Health Care Workers). La soluzione auspicata da Murphy – dialogo, pianificazione, bilanciamento di interessi, immaginazione e volontà politica – potrebbe essere condivisibile; tuttavia la sua posizione sembra sbilanciata dalla parte degli operatori sanitari quando afferma che, in fondo, chi si vede rifiutare da un farmacista la contraccezione d’emergenza può sempre andare a cercare un’altra farmacia. O forse più che essere sbilanciata sembra non considerare un possibile scenario: che succede se anche il secondo, il terzo, il quarto farmacista rifiutano di vendere il farmaco? Che succede se tutti i farmacisti rifiutano?

Estratto pubblicato su Micromega, 3 dicembre 2011.

sabato 3 dicembre 2011

Dieci considerazioni su Travaglio (e Magri)

Il commento di Marco Travaglio riguardo al suicidio assistito di Lucio Magri offre numerosi spunti di riflessione. Li elenchiamo senza ulteriori introduzioni.

1) Le prime righe sono “io non farei”, “io non direi”. Quando finalmente leggiamo “Ma qui mi fermo” è troppo tardi. Per l’ennesima volta siamo di fronte alla regola, suggerita e poi ritirata, che gli altri dovrebbero comportarsi come ci comporteremmo noi. Pareri, certo, ma dal sapore profondamente paternalistico e moralistico.

2) L’ipocrisia del suicidio assistito e il vero nome: omicidio del consenziente. Potremmo discutere di nomi e termini, ma se siamo disposti ad arretrare e a domandarci se possiamo disporre della nostra vita, ci accorgeremmo che i due concetti si sovrappongono. L’omicidio è moralmente condannato perché, tra le altre ragioni, viola la volontà di chi è ucciso. Se a “omicidio” aggiungiamo “consenziente” questa condanna vacilla. Inoltre parliamo di suicidio assistito quando ci muoviamo in campo sanitario. La malattia terminale non è una bacchetta magica per giustificare alcunché, ma una delle condizioni in cui si può discutere se è lecito o no domandare di essere aiutato a morire. Il problema è eventualmente il coinvolgimento del medico e la sua volontà, non che non ho una malattia terminale.

3) Eutanasia, Mario Monicelli o Eluana Englaro: “non c’entrano nulla perché Magri non era un malato terminale, né tantomeno in coma vegetativo irreversibile tenuto artificialmente in vita da una macchina”. Come dicevo prima non ci sono solo le malattie terminali da considerare. Piergiorgio Welby non era un malato terminale. Ci sono molte condizioni cliniche croniche che alcuni non tollerano e non vogliono più vivere e che non possono essere considerate malattie terminale. Ce ne freghiamo di queste persone oppure vogliamo perdere un po’ di tempo a pensarci? Inoltre Travaglio sembra verosimilmente riferirsi a Eluana Englaro come “in coma vegetativo irreversibile tenuto artificialmente in vita da una macchina”. Giusto per precisione, qualora fosse rivolta a lei questa descrizione: Eluana Englaro era in una condizione che si chiama stato vegetativo persistente e permanente e non era attaccata a nessuna macchina. Aveva un sondino nasogastrico per la nutrizione e l’idratazione artificiale.

4) Suicidio assistito dal punto di vista logico: qui la logica salta del tutto. “Chi vuole sopprimere la “sua” vita deve farlo da solo; se ne incarica un altro, la vita non è più sua, ma di quellaltro” (il corsivo è mio). Quindi anche quando vado dal medico per farmi togliere le tonsille la mia vita non è più mia perché chiedo al medico di asportarle? O vale solo per la richiesta di morire? La morte fa parte della nostra esistenza e fa parte anche dell’esistenza del medico (come persona, ovviamente, ma qui prima di tutto come operatore sanitario). Quando Welby ha chiesto - ha “incaricato” - un medico ha forse regalato la sua vita al medico? E poi: se il medico è d’accordo come ne uscirebbe Travaglio? A nessuno piace crepare e sembra facile, stando seduto sul divano di casa comodamente, condannare la richiesta di persone in condizioni che è necessario conoscere prima di giudicare.

5) Suicidio assistito dal punto di vista giuridico: speravo di non ritrovarmi quella espressione terribile che finisce con il “punto” - scritto a lettere e poi seguito dal punto come segno di punteggiatura. Ma via è un dettaglio. Ciò che manca in questo punto di vista è il contesto sanitario. Insinuare l’analogia tra il boia e il medico è una mossa sporca e fuori tema. Inoltre si dimentica la volontà dell’individuo, che in campo sanitario (e in molti altri campi) distingue un atto di abuso da un atto lecito. Non dimentichiamo che la tecnologia medica oggi ci permette di ottenere risultati fino a qualche anno fa impensabili, ma ci mette anche di fronte a condizioni moralmente complesse. Le tecniche di rianimazione, per esempio, hanno l’effetto di far sopravvivere il nostro corpo anche con il nostro cervello distrutto - Eluana Englaro qualche tempo fa sarebbe morta - o le tecniche di respirazione e di nutrizione permettono di prolungare la nostra vita, ma a volte in condizioni che riteniamo inaccettabili. Dovremmo essere autorizzati a interrompere trattamenti o tecnologie di sopravvivenza e dovremmo essere assistiti - oppure il medico dovrebbe abbandonare i pazienti al loro destino? Dovrebbe girarsi dall’altra parte, dicendo loro di organizzarsi per proprio conto? A nessuno piace crepare e a nessun medico piace accompagnare alla morte i pazienti, ma l’alternativa al coinvolgimento dei medici (coinvolgimento difficile, emotivamente faticoso, giuridicamente scivoloso, un coinvolgimento che necessita di un dibattito serio e non ipocrita) è fare finta di niente. Ultima considerazione: perché non riferirsi - o almeno considerare - l’articolo 580 del Codice Penale, istigazione o aiuto al suicidio?

Le altre 5 su Giornalettismo.

giovedì 1 dicembre 2011

Le fonti, Langone, le fonti!

Evito in genere di leggere Camillo Langone, giornalista cattolico della redazione del Foglio e collaboratore di fogli consimili, da quando rivendicò di fronte a un omosessuale «il diritto a essere omofobo, a provare schifo dinanzi a due omosessuali, a sentirmi a disagio per il fatto che si parli con questa pacatezza di omosessualità» (a Otto e Mezzo, su La7, il 24 maggio 2006). Perché mettere a rischio la digestione con un personaggio del genere? Oggi però devo sospendere momentaneamente questa basilare regola igienica, viste le polemiche scatenate da un articolo di Langone apparso ieri su LiberoTogliete i libri alle donne e torneranno a far figli», 30 novembre 2011, p. 17). L’articolo non delude le aspettative suscitate dal titolo: dopo l’usuale allarme sulle culle vuote e sull’invasione straniera, conclude affermando che

gli studi più recenti denunciano lo stretto legame tra scolarizzazione femminile e declino demografico. La Harvard Kennedy School of Government ha messo nero su bianco che «le donne con più educazione e più competenze sono più facilmente nubili rispetto a donne che non dispongono di quella educazione e di quelle competenze». […]
Il vero fattore fertilizzante è, quindi, la bassa scolarizzazione e se vogliamo riaprire qualche reparto maternità bisognerà risolversi a chiudere qualche facoltà.
Così dicono i numeri: non prendetevela con me.
L’indignazione, come ci si poteva aspettare (e come in particolare si aspettava sicuramente Langone) è stata enorme – per adesso soprattutto su social networks e blog, dove i tempi di reazione sono più rapidi; ma forse, più che indignarsi, sarebbe produttivo andare a cercare la fonte di queste affermazioni. Cosa ha davvero messo «nero su bianco» la Harvard Kennedy School of Government?
Langone non specifica – figuriamoci! – fonti più precise, ma una rapida ricerca ci rivela che si sta rifacendo a un commento apparso sul Sole 24 Ore dell’8 agosto 2010 («Se i continenti si dividono sulla moglie che lavora»). L’articolo informa brevemente su uno studio compiuto da Ina Ganguli, Ricardo Hausmann e Martina Viarengo, tre studiosi appunto della Harvard Kennedy School of Government, che hanno indagato la relazione fra livello di scolarizzazione delle donne e legami di coppia. Il Sole riassume una delle tendenze chiave individuate dallo studio con le stesse identiche parole usate da Langone: «le donne con più educazione e più competenze, utili a una professione all’infuori delle mura domestiche, sono più facilmente nubili, rispetto a donne che invece non dispongano di quelle competenze». Tutto bene, allora? Dobbiamo lasciar perdere Langone e prendercela con Harvard? Da qualche parte, però, una campanella di allarme sta squillando. Perché il titolo dell’articolo del Sole è «Se i continenti si dividono sulla moglie che lavora»? E perché a un certo punto lo stesso articolo attacca a parlare di «donne latinoamericane»? Di quali donne si occupa, esattamente, lo studio di Harvard? Ce n’è abbastanza per andare a controllare la fonte originale; ma Langone a quanto pare non l’ha fatto. Magari non ha avvertito nessuna incongruenza; ma non sarebbe comunque obbligatorio per un giornalista rifarsi alle fonti originali? E se non l’ha fatto lui, perché non ci ha pensato Libero? – ok, ok, non ridete, ritiro subito l’ultima domanda...

Il Sole ha un comodo link allo studio originale (I. Ganguli, R. Hausmann and M. Viarengo, «“Schooling Can’t Buy Me Love”: Marriage, Work, and the Gender Education Gap in Latin America», HKS Faculty Research Working Paper Series RWP10-032, June 2010, file pdf). A p. 6 troviamo la conferma di quello che già sospettavamo: lo studio ha preso in esame 43 paesi – di cui 10 latino-americani – e ha determinato che in 27 di questi paesi (9 dei quali latino-americani) effettivamente le donne meno istruite tra 30 e 55 anni di età hanno maggiori probabilità di sposarsi delle donne più istruite; ma nei rimanenti 16 paesi è vero il contrario: qui sono le donne più istruite a sposarsi più facilmente (i dati dovrebbero risalire al 2005 o agli anni immediatamente precedenti). Questo ci dice una prima cosa: che non c’è nessuna «legge di natura» che stabilisca che una donna istruita è meno propensa a sposarsi (ma anche se ci fosse, nessuno ovviamente sarebbe autorizzato a trarne le conclusioni di Langone); devono entrare in gioco fattori culturali e/o sociali propri di certi paesi, in linea di principio modificabili.
Qualche indicazione su quali siano questi fattori ce la dà l’elenco dei paesi, che trovate nel grafico qui sotto (fate clic sull’immagine per ingrandirla), in cui le nazioni si trovano tanto più in basso quanto più la probabilità di essere sposate delle donne istruite sopravanza quella delle donne meno istruite.

Come notano gli autori (p. 7), tra i paesi più ricchi sono Regno Unito, Canada, Paesi Bassi e USA (in ordine crescente) quelli in cui le donne istruite si sposano di più delle meno istruite, mentre «gli otto paesi [del campione] in cui più degli altri le donne istruite hanno meno probabilità di essere sposate sono cattolici» («The top eight countries where skilled women are less likely to be married are Catholic»). Ma lasciamo pure da parte quella che potrebbe essere solo una coincidenza.
Si potrebbe obiettare a questo punto che in questo gruppo di otto nazioni quella in cui è più marcato lo svantaggio delle donne istruite è, dopo Spagna e Bolivia, proprio l’Italia. Dato che difficilmente il nostro paese potrebbe trasformare in breve tempo le proprie strutture socio-culturali per assomigliare a Paesi Bassi e USA, ecco che la raccomandazione di Langone – meno libri alle donne – avrebbe, pur nel suo estremismo paradossale, una certa ragion d’essere. Senonché il nostro studio contiene una seconda classifica: quella dei paesi in cui sono gli uomini istruiti ad avere meno probabilità di essere sposati rispetto agli uomini meno istruiti... E indovinate qual è, dopo Ruanda e Cambogia, la disgraziata nazione che guida questa classifica? Bravi: è proprio l’Italia. Per cui la ricetta di Langone, per risultare massimamente efficace, dovrebbe essere: meno libri per tutti. E chissà, magari non sarebbe neanche sbagliata: di braccia rubate all’agricoltura, come si suol dire, se ne trovano parecchie fra i nostri intellettuali e giornalisti...

HIV +



Keith Haring, John Holmes e Gill Scott Heron hanno una cosa in comune: sono morti di Aids come milioni di altre persone dall’inizio dell’epidemia. Oggi, grazie ai farmaci, se contrai l’Hiv puoi condurre una vita quasi “normale”, ma la colpevolizzazione e la discriminazione sono ancora molto diffusi.

“All’inizio stava solo perdendo peso, si sentiva solo un po’ acciaccato, Max disse a Ellen, e non chiamò il suo medico per prendere un appuntamento, secondo Greg, perché stava cercando di continuare a lavorare più o meno allo stesso ritmo di sempre, ma smise di fumare, Tanya sottolineò, cosa che suggerisce che fosse spaventato, ma anche che volesse, anche più di quanto potesse rendersi conto, essere in salute, o più in salute, o forse solo recuperare qualche chilo, disse Orson”.
Quella paura che non basta a spaventarti, perché “ammalarsi gravemente era qualcosa che accadeva agli altri, una allucinazione normale, fece notare a Paolo, se uno ha 38 anni e non s’è mai preso una malattia grave”.
E poi non è detto che quel malessere sia qualcosa di grave. In fondo “le persone ancora si beccano malattie banali, di quelle brutte, perché ipotizzare che debba essere proprio quella”.

Iniziava così un articolo di Susan Sontag sul “New Yorker”. Era il 24 novembre del 1986. The way we live now. Da pochi anni si era diffusa una malattia spaventosa e carica di condanne moraliste. Una malattia che avrebbe cambiato il nostro modo di guardare il mondo.
Nel giugno 1981 il Morbidity and Mortality Weekly Report (“al contempo il migliore e peggiore nome mai inventato per una pubblicazione”, commenta Amy Davidson molti anni dopo sempre sul “New Yorker”) annuncia che 5 uomini si sono ammalati in modo inconsueto. Quel giugno di 30 anni fa il report descriveva “una polmonite da Pneumocystis carinii (ora P. jiroveci) in 5 uomini omosessuali di Los Angeles, California, USA, documentando per la prima volta quella che sarebbe stata poi conosciuta come sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS). L’editoriale introduttivo suggeriva che la patologia potesse essere collegata al comportamento sessuale degli uomini. Un mese più tardi, il MMWR segnalò ulteriori diagnosi di polmonite da P. carinii, di altre infezioni opportunistiche (OIs) e di sarcoma di Kaposi (KS) in uomini omosessuali a New York City e in California. Questi articoli furono i primi segnali di quella che diventò una delle peggiori pandemia della storia, con oltre 60 milioni di infezioni, 30 milioni di morti, e nessun accenno di una fine” (Reflections on 30 Years of AIDS, Emerging Infectious Diseases, Vol. 17, No. 6, June 2011). Era il debutto dell’Aids.
Come viviamo oggi, a molti anni di distanza dal report e dalla descrizione di Sontag?

IL GIORNO X
Non ho mai amato gli anniversari perché in molti casi sembrano essere una scusa per relegare una questione in un ambito con confini netti e precisi (il giorno x), evitando di pensarci il resto del tempo. Una riserva da cui non si può fuggire.
Non mi sono nemmeno mai piaciuti perché somigliano a una pianificazione della contentezza, a un obbligo di festeggiare - nel caso in cui sia l’anniversario di qualcosa di positivo.
Però non mi piace nemmeno che - una volta stabiliti - passino nel silenzio e nella indifferenza. Magari si può protestare e eliminare il giorno x, ma fare finta che non esista è la scelta peggiore.
E poi ci possono essere molti modi per ricordare. Un anniversario può essere usato per un buon fine, per esempio cercando di rompere quegli angusti confini temporali. Cercare di prolungare quel giorno x per quanti più giorni possibile.

Sono passati 30 anni dai primi casi di Aids. Questo trentennale è passato quasi sotto silenzio sulla stampa italiana. E se la ricorrenza è indubbiamente dolorosa, non è un buon motivo per fregarsene e poi si può anche metterla in modo diverso: 30 anni fa - o anche 20 anni fa - vivere con l’Hiv era molto più disagevole di oggi. La scoperta dell’infezione era spesso una ineluttabile condanna a morte.
Almeno dal punto di vista medico lo scenario è molto cambiato. Si sarebbe potuto ricordare, infatti, che è anche il quindicesimo anniversario della terapia antiretrovirale.
Oggi i farmaci, se presi regolarmente e dopo una diagnosi tempestiva, permettono di condurre una vita che potremmo definire normale, se questo aggettivo non fosse tanto connotato moralisticamente. E questo è un dettaglio positivo. Naturalmente il contesto in cui si vive è fondamentale e la differenza tra paesi è profonda.
Quello che non è molto cambiato è la percezione dell’Hiv - o meglio (e questo potrebbe essere un primo passo?) la percezione rispetto alle persone che hanno l’Hiv. Non è cambiata l’educazione. Quel poco che si muove in Italia si muove sulla prevenzione rispetto alla trasmissione - ma non è abbastanza. Né sulle modalità di trasmissione - basta consultare i sondaggi sulle informazioni sessuali per capirlo - né in un panorama meno angusto, in cui si considera l’esistenza di una persona con l’Hiv nella sua interezza: rapporti sociali, lavoro, genitorialità.
Non siamo un Paese ridicolo che ha deciso di bloccare l’albo di Lupo Alberto perché vi si nominava il luciferino preservativo? Che si nasconde nella ipocrita visione che chi contrae l’Hiv è un reietto che in fondo se l’è cercata e quindi deve scontare la pena senza infettare gli altri né pretendere di non essere discriminato? Abbiamo addosso quella visione manzoniana degli untori, una visione ingenua e carica di moralismo. Di ignoranza.
Tutto quel mondo che può renderti la malattia più leggera o può caricarla di una sofferenza assurda e evitabile - e forse per questo ancora più intollerabile.
Fate una prova con voi stessi: come reagireste se sapeste che il cuoco del vostro ristorante preferito ha l’Hiv? O la tipa che fa ginnastica proprio vicino a voi? O la maestra di vostro figlio?
Non barate e non fatevi questa domanda se avete una conoscenza abbastanza approfondita - e quindi fate parte di una microscopica minoranza.
Questa cosa si chiama stigma ed è brutta anche la parola, figuriamoci trovarsi a subirlo. E tu devi già ricordarti di prendere i farmaci, devi pensare se dirlo e come (questioni fortemente legate alla percezione altrui: la malattia come punizione per qualcosa), devi reimpostare la tua vita e imparare a conviverci. E devi bure beccarti le occhiate di traverso, e le discriminazioni e la disattenzione. E, ancora una volta, la vergogna è la migliore alleata della violazione dei propri diritti. Eppure non c’è nulla di vergognoso nell’avere una patologia.

GLI INSOSPETTABILI
Trentenni rampanti e quarantenni giovanili; mariti e padri; persone convinte della fedeltà del proprio partner; mogli e fidanzate. Lontani dal luogo comune del malato di Aids, eppure infetti.
Il 5 gennaio 2010 una ragazza invia una lettera al Corriere della Sera: Io, 21, anni, bocconiana, sieropositiva. Non chiudete gli occhi sull’Aids. “Ho 21 anni e vivo a Milano, studio all’università Bocconi, [...] appaio come una ragazza «normale». Eppure c’è un però, sono sieropositiva, e l’ho scoperto qualche mese dopo aver compiuto i miei 18 anni. [...] Due milanesi al giorno si infettano, e questi non sono ragazzini di 16 anni, ma sono padri di famiglia, che tradiscono le proprie mogli e che le infettano, e che rovinano la vita dei loro familiari”.
I ragazzini però non stanno messi meglio quanto a precauzioni. Il sondaggio “Sei maturo per il sesso sicuro?”, condotto lo scorso giugno dalla Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo) su 1.130 maturandi, disegna un panorama poco rassicurante.
Solo 1 su 3 porterà in vacanza i preservativi anche se il 64% pensa che avrà rapporti sessuali occasionali. Il 32% ha rapporti prima dei 15 anni, nella metà dei casi in estate. Il 42% degli intervistati ha già avuto da 2 a 5 partner, il 10% da 6 a 10 e il 9% più di 10. In pochi usano regolarmente i contraccettivi: il 19% non li usa perché non li ama, il 23% li dimentica e solo il 16% delle donne prende la pillola.
Un altro sintomo è: incontro un tipo, mi piace, facciamo l’amore, le prime volte gli faccio mettere un preservativo perché sono una tipa attenta alla salute, poi dopo un paio di mesi che ci frequentiamo non ci faccio più caso, perché poi fare l’amore senza preservativo è meglio e ormai ti conosco. Chi non c’è mai caduto?

IL DENTISTA
Nel forum della LILA, la Lega italiana lotta all’Aids, un utente racconta di un colloquio svoltosi con un amico-collega.

amico: come stai?
io: sto bene.
amico: la salute come va?
io: bene.
amico: bene?
io: cosa sai?
amico: lo so.
io: allora sto male.
amico: perché non me lo hai detto?
io: perché non avevo molta fiducia nella tua capacità di comprendere questa situazione.
amico: comprendo benissimo.
io: questa malattia ha dei risvolti sociali non indifferenti in termini di discriminazione.
amico: sciocchezze.
(silenzio)
amico: lo hai detto al nostro amico dentista che sei sieropositivo?
(silenzio)
io: gli ho detto che ho l’epatite e le precauzioni che con me deve prendere per l’epatite sono le stesse per l’hiv.
(silenzio)
io: e comunque un medico deve conoscere e applicare le regole sulla profilassi a prescindere dalla comunicazione del paziente.
(silenzio).

Come si legge nella sezione Info Aids della Lila, infatti, la decisione di informare o meno il medico di famiglia o il nostro dentista spetta a noi. “Non tutti i medici di base sono aggiornati rispetto all’evoluzione continua dei dati riguardanti questa infezione; se però hai con lui o con lei un buon rapporto di fiducia, il suo supporto potrebbe esserti di aiuto. Anche verso gli altri specialisti, ad esempio i dentisti, non ti devi in nessun modo sentire in obbligo di comunicare la tua condizione. Per legge hanno l’obbligo di adottare norme igieniche generali che proteggono i medici e gli operatori sanitari dal rischio di contrarre infezioni, a prescindere dalla conoscenza dello stato sierologico di chi hanno davanti.
Queste norme sono importanti perché proteggono sia loro che te stesso dal rischio di contrarre nuove infezioni.”
Già non avere bisogno di ricordarlo potrebbe essere un vantaggio. La prossima volta che andate dal dentista fate caso a come è vestito.

IL SILENZIO
Scrive marcomilano il primo giugno scorso.
“Gironzolando qua e là su questo forum, noto che il consiglio unanime di tutti gli iscritti è quello di PORTARSI QUESTO ENORME SEGRETO FIN DENTRO LA TOMBA... Le ragioni sono ovvie e più o meno condivisibili...
discriminazione, ignoranza, paura, volontà di non dare dispiaceri ai cari...
beh... io mi porto questo flagello solo da un mese e voi, seppur gentili, disponibili, discreti, ma pur sempre a me sconosciuti, siete le uniche persone ad esserne a conoscenza...
finora ho quindi seguito il consiglio...ma mi sento di scoppiare! Vorrei poter gridare al mondo che ho l’HIV e che non me ne vergogno...che lo ereditato inconsapevolmente da un atto d'amore... che ho comunque la voglia e la forza per affrontarlo... ma anche che mi sentirei più forte con la comprensione di chi mi sta vicino...
Sono già stanco di mentire... di inventarmi balle quando sparisco per andare in ospedale... di nascondere la mia preoccupazione...”.
In molti consigliano di tacere o almeno di procedere con molta calma, di non cedere alla tentazione di sfogarsi.
Y38 per esempio scrive: “Non dirlo a nessuno! Lo stigma sociale è così grande (e così pure il dispiacere e la preoccupazione che puoi dare a quelli che ti vogliono bene davvero) che vale la pena tenersi per sé questo stato”.
Qual è l’effetto dell’essere costretti a tacere? È facile fare una prova “per difetto”: scegliamo qualcosa che ci preoccupa o ci angoscia e immaginiamo di non poterlo dire a nessuno, di non poter chiedere aiuto o consigli, di non poter manifestare la paura o la rabbia. Che effetto fa?

QUANDO DIRLO?
Nel forum di Anlaids, è Gioia a domandarlo (il 25 ottobre 2007, “Quando dirlo ad un uomo”). Le risposte sono varie: subito, dipende dal rapporto, mai.
La risposta di Gioia, il 17 marzo 2008, descrive il dilemma: “su questo siamo d’accordo ma come fai a sapere a priori se una persona la frequenterai 1 - 10 -100 - 1000 volte o tutta la vita? Si certo è che a priori si capisce se uno ti piace e può nascere qualcosa oppure no, ma in genere se decidi di uscire con qualcuno (almeno parlo per me) vuol dire che ti piace e una volta visto non sai come andrà a finire. Il problema è molto più profondo, perché, indipendentemente da come tu lo dica, dicendolo subito si rompe la magia perché questa è sempre una notizia che raggela! E se non lo dici subito, poi ti dovrai giustificare in mille modi, ma c’è che si potrebbe arrabbiare... Secondo me questa problematica è alla base di ogni rapporto! Per quanto ci si possa presentare come rassegnati, comunque decisi a vivere la propria vita fino in fondo, è un gran caos. Anche perché va bene voler essere corretti fin da subito, ma non si può dire una cosa così personale a tutto il mondo! E inoltre ogni volta che lo si dice è un pò come riviverlo!
Io ci ho provato due volte ed è stata una tragedia. Alla fine mi sono trovata a dover consolare l’altra persona perché sono rimasti tutti scioccati. Che stress! Da allora non l’ho più detto, ma ho nemmeno frequentato quasi nessuno per più di una/due volte! Il mio stato psicologico non mi permette di lasciarmi andare, e nemmeno questo è giusto!”.

Lo scenario sarebbe diverso se ci fosse una maggiore informazione sull’Hiv? È verosimile pensare che sì, perché la discriminazione si fonda essenzialmente sulla ignoranza. E l’ignoranza confonde i confini e sovrappone la prudenza all’isterico terrore. L’ignoranza ci rende temerari, indifferenti ai rischi, e allo stesso tempo ingiusti verso chi vive una condizione patologica. Vogliamo relegare gli infetti in un ghetto rassicurante (per noi) e immaginare che l’Hiv sia come un tratto somatico facilmente rilevabile. Così possiamo scartare i pezzi difettosi. Nello spazio di poche pagine non possiamo che accennare alle complesse questioni che riguardano l’Hiv e l’Aids, che comprendono questioni mediche, scientifiche, di salute e di opinione pubbliche. Però il primo passo è davvero banale: se avessi l’Hiv come vorrei essere trattato? Ah, ma tanto non può mica succedere a me.

Su Il Mucchio Selvaggio di settembre.