lunedì 30 giugno 2014

giovedì 26 giugno 2014

Che cos’è l’autonomia?

C’è una contraddizione nella richiesta di proteggere l’autonomia dei pazienti in ogni scelta terapeutica? È quanto pensa Ferdinando Cancelli, che dalle colonne dell’Osservatore RomanoAutonomia a senso unico», 26 giugno 2014, p. 5) così argomenta:

Ascoltando conferenze o dibattiti in tema di fine vita sempre più spesso capita di sentire parlare di autonomia. In genere di autonomia del paziente, molto raramente di autonomia del curante: la prima giustamente ricordata, la seconda a torto dimenticata. […]
Lo stesso atteggiamento […] si può vivere oggi in molte aule universitarie o durante incontri rivolti alla popolazione che vertano su temi bioetici sensibili, quali ad esempio la sospensione o la non messa in atto di mezzi di sostegno vitale. La discussione tende invariabilmente a mettere in evidenza l’autonomia del paziente, o meglio la sua autodeterminazione. Attraverso l’esercizio di quest’ultima, il paziente ha il diritto di chiedere, se in grado di esprimersi, la sospensione ad esempio dell’alimentazione clinicamente assistita – detta “artificiale” spesso con il non dichiarato intento di presentarla in modo già negativo a partire dall’aggettivazione – o dell’idratazione, e ciò magari anche se informato delle conseguenze potenzialmente letali di una tale scelta. Sempre più spesso si sente dire che il medico “deve” rispettare tale scelta.
Da tutto questo […] derivano alcune riflessioni. In primo luogo se è senza dubbio lecito che il paziente possa esercitare la propria autonomia chiedendo la sospensione di mezzi di sostegno vitale, possiamo affermare con altrettanta sicurezza che il medico debba accettare di mettere in pratica una tale richiesta? I soggetti morali in gioco sono due: possiamo accettare che l’autonomia di uno prevalga su quella dell’altro? Possiamo tranquillamente dire che la coscienza del medico deve essere forzata a fare ciò che non ritiene giusto? Secondariamente sorge un altro dubbio: se l’autonomia deve valere in modo assoluto, e se quindi un atto diventa lecito per il solo fatto di essere l’espressione della volontà di un paziente che lo chiede, con quale argomento potremo opporci alla richiesta di qualcuno che chiede gli vengano somministrati trattamenti evidentemente inutili dal punto di vista medico? In altre parole si ha l’impressione che l’accento venga messo su un’autonomia a senso unico: va bene concedere tutto a patto che ciò vada nel senso dell’abbreviare la vita, quanto al resto la discussione è semplicemente abolita.
Cancelli crede che sollevare queste questioni significhi porre «domande scomode» che finiscono sistematicamente ignorate (così scrive alla fine del suo intervento). Ma davvero i suoi argomenti possono provocare tanto imbarazzo? Vediamo.
Immaginiamo che, mentre sto seduto sull’autobus, si sieda dirimpetto a me una bellissima ragazza. Io la guardo rapito per un po’; poi, vinto dal desiderio di esternarle tutta la mia ammirazione, mi alzo, mi chino su di lei e le depongo un bacio gentile sulla fronte, mormorandole «Sei splendida!». Un mese dopo, io e la ragazza stiamo insieme – nell’aula di tribunale in cui mi ha trascinato con l’accusa di molestie sessuali. Il mio avvocato ha tentato una prima linea di difesa: «Quella del mio assistito non può essere considerata in nessun caso una violenza: un bacio tanto casto è oggettivamente la cosa più distante da una molestia! La querelante avrebbe dovuto essergliene grata, in quanto espressione di un moto sincero di ammirazione, e non cedere invece a una repulsione del tutto soggettiva». Questi argomenti non hanno commosso l’accusa, che replica: «Non esistono molestie oggettive o soggettive, quando si tratta di varcare la soglia più intima della sfera corporea altrui. In questi casi è l’altra persona che decide cosa è accettabile e cosa non lo è; è la sua scelta autonoma che va rispettata, non l’idea “oggettiva” di ciò che è bene per gli altri che il soggetto può avere. La querelante non aveva invitato in nessun modo l’accusato ad avvicinarsi, anzi l’aveva guardato in tralice, con una chiarissima espressione di rifiuto». Il mio avvocato risponde a sua volta: «È senza dubbio lecito che una donna possa esercitare la propria autonomia opponendo un rifiuto a certe avances; ma possiamo affermare con altrettanta sicurezza che un uomo debba accettare di accondiscendere a una tale richiesta? I soggetti morali in gioco sono due: possiamo accettare che l’autonomia di una prevalga su quella dell’altro? Possiamo tranquillamente dire che la coscienza dell’uomo deve essere forzata a fare ciò che non ritiene giusto? Secondariamente sorge un altro dubbio: se l’autonomia deve valere in modo assoluto, e se quindi un atto diventa lecito per il solo fatto di essere l’espressione della volontà di una donna che lo chiede, con quale argomento potremo opporci alla richiesta di una donna che chieda che un uomo la inviti a pranzo in un ristorante alla moda o le compri un vestito di marca?».
Ora, qual è l’ovvio problema di questo argomento? Il punto è che la ragazza non mi ha chiesto di fare qualcosa, ma piuttosto di non fare; fra la mia pretesa di baciarla e la sua volontà di non essere baciata non c’è nessuna simmetria. Fare e non fare possono essere talvolta indistinguibili da un punto di vista morale, ma la loro distinzione corrisponde comunque a un’intuizione profonda, che non è possibile contraddire senza stravolgere tutta la nostra vita sociale. Ed è proprio questo che rivendichiamo quando difendiamo la nostra autonomia (la parola stessa dovrebbe renderlo chiaro): di essere lasciati soli, di non subire gli atti altrui – in particolari quegli atti che, come baci o trattamenti sanitari, entrano nella sfera del nostro corpo. Ciò ovviamente non significa che non si possa pretendere mai nessuna prestazione da nessuno; se io e la ragazza fossimo attori, e il copione prevedesse il mio bacio, allora lei sarebbe effettivamente tenuta a lasciarsi baciare. Ma in questo caso c’è un contratto, che appunto può stabilire che si debbano compiere certe azioni, e stabilire una penalità per chi ci ripensa e si rifiuta. (Esistono altre eccezioni che non posso esaminare in questa sede, tranne una che vedremo tra un attimo.)
Torniamo al tema iniziale della sospensione di un trattamento sanitario. Come risponde chi la pensa come l’articolista dell’Osservatore Romano all’argomento che ho presentato? Il più delle volte si tenta di far passare quella che è in realtà un’astensione come se fosse invece un’azione: per esempio, nella sospensione della nutrizione artificiale si cerca maliziosamente di focalizzare lo sguardo sull’azione di rimuovere il tubo, passando sotto silenzio l’omissione ben più importante che l’ha preceduta: quella che consiste nel cessare di riempire la sacca che al tubo è collegata. Oppure si mette in rilievo l’azione umana – come l’atto di spegnere il ventilatore meccanico – che interrompe però un’altra azione di peso assai maggiore, sia pure automatica. In ogni caso, esistono delle azioni molto particolari che è sempre doveroso compiere: se ti invito a casa mia, ma per un impegno imprevisto sono costretto a congedarti anzitempo, tu non puoi protestare dicendo che ti voglio costringere a fare qualcosa contro la tua volontà; se mi chiedi di parcheggiare la tua macchina nel posto a me riservato ma la piazzi con la ruota sul mio piede, non puoi rispondere alla mia richiesta affannosa di spostarla immediatamente sostenendo che non sei un benefattore dell’umanità da cui si possano pretendere atti di cortesia a piacimento. Se mentre sto assumendo un farmaco ci ripenso e ti chiedo di chiudere il rubinetto e staccarmi la flebo non puoi negarmelo con la scusa che queste sono azioni e non omissioni. Chi ottiene il permesso di accedere alla sfera privata altrui ha sempre anche il dovere di abbandonare quella sfera privata a semplice richiesta, e l’azione che compie uscendo non è che la necessaria inversione di quella che ha compiuto entrando.

Se domande come quelle di Ferdinando Cancelli finiscono così spesso nel cestino, in conclusione, non è perché sono scomode, ma perché ignorano – o sembrano ignorare – le basi elementari di una democrazia liberale.

mercoledì 25 giugno 2014

I pro-life e la retorica della “vita nascente” contro l’interruzione volontaria di gravidanza


“Nel 1999 Don Oreste Benzi diede inizio alla preghiera per la vita nascente davanti agli ospedali, nel giorno e nell’ora in cui si pratica l’aborto legale, da Rimini si è diffusa in diverse città, a cadenza settimanale o mensile”. Così si legge nel sito della Comunità Papa Giovanni XXIII. Ogni martedì, come stamattina, il gruppo di preghiera si ritrova davanti alla Clinica di Ostetricia del Sant’Orsola di Bologna. Prega, è lì apposta. Prega per ottenere un risultato: convincere le donne a non interrompere la gravidanza, perché l’aborto è il più atroce dei crimini.

Per loro non è che un atto dovuto, perché “Con questa preghiera si vuole essere presenti sul luogo dove si esegue una condanna a morte di cui tutta la società è corresponsabile, per chiedere perdono pubblicamente e per supplicare il Padre perché cessi questa strage di innocenti, uccisi perché danno fastidio. Si vuole essere vicini alle mamme, anche loro vittime dell’aborto, in quanto lasciate sole, indotte da condizionamenti e pressioni esterne, illuse che l’aborto sia un atto liberatorio e non informate della ferita incancellabile che procura per offrire loro aiuto perché salvino il loro bambino e anche se stesse”.

La logica è la stessa di quelli che aggrediscono i medici, che arrivano pure a ucciderli: in fondo è legittima difesa, o qualcosa che le somiglia molto. Cosa fareste avendo la possibilità di fermare un serial killer? Il peggiore dei serial killer, poi, uno che se la prende con gli individui più deboli e indifesi? La violenza appare giustificabile quando il fine è tanto superiore.

Il sito della Comunità offre un’ottima visuale del mondo pro-life: sostituisce il “bambino prenatale” a “embrione” e “feto”, ci mette in guardia dalle conseguenze psicologiche dell’aborto (“elaborazione del lutto”), promuove l’adozione degli embrioni congelati, suggerisce di fare obiezione di coscienza sulle spese abortive (“Siamo costretti a finanziare coi nostri soldi la soppressione di 320 bambini tutti i giorni”).

In altre parole: sparisce la diversità ontologica e concettuale degli stadi dello sviluppo umano e la volontà della donna; si sponsorizza l’infondata correlazione tra interruzione di gravidanza e devastazione psicologica, si critica la contraccezione (solo quella “naturale” è ammessa); si suggerisce l’unica alternativa all’aborto: l’adozione. Con l’aborto finalmente tornato illegale, tutte le donne sarebbero finalmente libere di essere madri. Che poi si è madri fin dal concepimento. Forse perfino da prima.

Wired.

martedì 24 giugno 2014

Obiezione di coscienza e aborto, la svolta del Lazio sui consultori

Nel decreto sul riordino dei consultori familiari della Regione Lazio c’è un allegato sorprendente: le Linee di indirizzo regionali per le attività dei Consultori Familiari. Le funzioni dei Consultori riguardano due aree: “prevenzione e promozione, sostegno e cura”. Tra le attività previste c’è anche l’assistenza alle donne che chiedono di interrompere volontariamente una gravidanza.

Sappiamo dall’ultima relazione annuale attuativa della legge 194 che la media nazionale di ginecologi obiettori è del 69,3%, anche se la realtà nelle singole regioni è ancora più sbilanciata, con percentuali che arrivano quasi al 90% di obiettori, strutture che non garantiscono mai il servizio di IVG, ancor meno sono gli ospedali che garantiscono gli aborti tardivi (cioè quelli dopo il primo trimestre), lunghe liste di attesa.

A questo si aggiunge uno scenario spesso nebuloso: alcuni medici si rifiutano di prescrivere la contraccezione d’emergenza, pur non esistendo alcuna legge specifica che permetta loro di farlo. Altri rifiutano la certificazione, non vogliono eseguire la visita di controllo o altre pratiche mediche giudicate contrarie alla loro morale, alla loro personale visione del mondo.

Le Linee di indirizzo regionali ribadiscono l’ovvio sulla contraccezione: non si può invocare l’obiezione di coscienza come pretesto per negare la prescrizione, sia ordinaria sia d’emergenza (che, ricordiamo, ha effetti contraccettivi e non abortivi). D’altra parte non c’è – come nel caso dell’IVG – una legge che permetta agli operatori sanitari di invocare la propria coscienza. “Il personale operante nel Consultorio è tenuto alla prescrizione di contraccettivi ormonali, sia routinaria che in fase post-coitale, nonché all’applicazione di sistemi contraccettivi meccanici, vedi I.U.D. (Intra Uterine Devices).

Pagina99.

giovedì 12 giugno 2014

Interrogazione su Stamina


Al Ministro della giustizia.

Premesso che, per quanto risulta all’interrogante:

è notizia di questi giorni che il dottor Mario Andolina, responsabile scientifico di “Stamina foundation”, indagato dalla Procura di Torino nell’ambito dell’inchiesta sulla nota vicenda “Stamina” è stato nominato con ordinanza del Tribunale di Pesaro, in data 3 giugno 2014, “ausiliario” del giudice per eseguire infusioni di materiale che non è stato documentato né validato dal punto di vista medico negli “Spedali civili” di Brescia;

è di tutta evidenza che l’iniziativa del Tribunale di Pesaro desta non solo oggettiva preoccupazione per la palese incoerenza rispetto alle iniziative già avviate da altri organi giurisdizionali, dalle istituzioni sanitarie preposte e dalla comunità scientifica anche internazionale, che, in ragione dei profili di competenza, sulla vicenda da tempo sono impegnati per garantire il diritto alle cure costituzionalmente protetto (art. 32 della Costituzione) nel rispetto di percorsi tecnico-scientifico validati da sperimentazione clinica, ma genera ulteriore motivo di incertezza soprattutto nei pazienti e nelle famiglie coinvolte;

è altrettanto evidente che la nomina di una persona sottoposta ad indagine per gravi reati connessi all’uso del “metodo Stamina” quale “ausiliario” del giudice non sembra garantire i necessari requisiti di moralità ed imparzialità che costituiscono il presupposto imprescindibile per lo svolgimento delle funzioni delegate dal Tribunale di Pesaro;

è notizia del 5 giugno 2014 (Ansa) che il comitato di presidenza del CSM ha disposto la trasmissione alla prima commissione e alla procura generale della Cassazione di un fascicolo relativo alla vicenda “Stamina”;

considerato che ad oggi, vengono ancora proposti ricorsi con carattere d’urgenza ex art. 700 del codice di procedura civile dai familiari dei malati per accedere al preteso trattamento Stamina; e i medesimi ricorsi vengono sovente decisi con l'adozione di ordinanze di accoglimento che, ritualmente per il carattere d’urgenza, non presentano un approfondimento istruttorio di carattere tecnico-scientifico;

la magistratura sul tema del diritto alla salute è tenuta ad applicare l’art. 32 della Costituzione nel quadro di un sistema di garanzie che prenda in considerazione i pazienti, da tutelare sul piano della salute, ponendoli al riparo da “cure” non documentate secondo il metodo clinico-scientifico, ma accompagnate unicamente da millantata efficacia;

è doveroso rammentare, riprendendo quanto citato in un’ordinanza di rigetto del Tribunale di Torino del marzo 2014 (RG 588/2014), che cosa ebbe a scrivere, nel gennaio 1998, la prestigiosa rivista medica britannica “The Lancet” che, a proposito delle ordinanze dei giudici rispetto alla “cura di Bella” in una nota redazionale dal lapidario titolo «More clinical judgment, fewer “clinical” judges» osservava che: “È una anomalia che [in Italia] la magistratura abbia il potere di ignorare, sulla base di modesti pareri medici, le precise direttive [dell’Autorità Sanitaria] in materia di farmaci; o peggio, che le decisioni dei giudici comportino il sostegno ufficiale ad una cura non sperimentata”;

si chiede di sapere:

se il Ministro in indirizzo sia a conoscenza dei fatti descritti e se questi corrispondano al vero;

se non ritenga opportuno attivare i propri poteri ispettivi al fine di verificare la correttezza delle procedure adottate dagli uffici del Tribunale di Pesaro;

quali iniziative urgenti nell’ambito di proprie specifiche competenze intenda assumere al fine di evitare il ripetersi di iniziative come quella avviata dal Tribunale di Pesaro ed a garanzia dell’imprescindibile moralità ed imparzialità degli ausiliari del giudice.

mercoledì 11 giugno 2014

Il diritto di avere un figlio

La sentenza n. 162/2014, con cui la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’art. 4, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, che vietava la cosiddetta fecondazione eterologa, è stata finalmente depositata e il suo testo reso noto. Esaminamo dunque insieme i punti fondamentali della sentenza.

Secondo la Corte, la scelta della coppia «di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà che […] è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare». Ancora, «la determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali, e ciò anche quando sia esercitata mediante la scelta di ricorrere a questo scopo alla tecnica di PMA di tipo eterologo, perché anch’essa attiene a questa sfera». La Corte ricorda insomma che esiste un vero e proprio diritto a diventare genitori, diritto che in prima istanza è negativo, e che in questo caso consiste dunque nella protezione dall’interferenza dello Stato e di chiunque altro nel libero accordo tra genitori e medici disposti a fornire loro i servizi della procreazione assistita. Ovviamente, come nota ripetutamente la Corte, questo diritto – come moltissimi altri – non è assoluto, ma va contemperato con la tutela di «altri interessi di rango costituzionale», nella ricerca di «un ragionevole bilanciamento tra gli stessi».
Il fatto che con la fecondazione artificiale di tipo eterologo i figli siano solo parzialmente (o anche per nulla) figli genetici della coppia, non muta sostanzialmente le cose, in quanto «il progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico, è favorevolmente considerato dall’ordinamento giuridico, in applicazione di principi costituzionali, come dimostra la regolamentazione dell’istituto dell’adozione». La sentenza prosegue, con una mossa argomentativa particolarmente felice: «La considerazione che quest’ultimo mira prevalentemente a garantire una famiglia ai minori […] rende, comunque, evidente che il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa». Provo a parafrasare: è vero che nell’adozione, a differenza che nella fecondazione eterologa, si vuole dare una famiglia al bambino e non un bambino alla famiglia; ma poiché appunto all’adottato si dà una famiglia, vuol dire che la famiglia prescinde dal legame genetico; se gli adottanti sono pur sempre genitori e l’adottato pur sempre figlio, ecco allora che il diritto alla filiazione può benissimo essere soddisfatto con un figlio geneticamente non proprio.

La Corte, nel seguito, afferma che la «disciplina in esame incide, inoltre, sul diritto alla salute, che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, va inteso “nel significato, proprio dell’art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica” […] e “la cui tutela deve essere di grado pari a quello della salute fisica” […]. Peraltro, questa nozione corrisponde a quella sancita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo la quale “Il possesso del migliore stato di sanità possibile costituisce un diritto fondamentale di ogni essere umano” (Atto di costituzione dell’OMS, firmato a New York il 22 luglio 1946) […] è, infatti, certo che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner, mediante il ricorso alla PMA di tipo eterologo, possa incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia, nell’accezione che al relativo diritto deve essere data, secondo quanto sopra esposto». Questa è, in un certo senso, l’altra faccia dello stesso diritto alla filiazione di cui parlavamo sopra; diritto che, se insoddisfatto, conduce per la Corte a una perdita di salute psichica. Qui, forse, insito nel ragionamento della Corte, si potrebbe intravvedere il pericolo di una «medicalizzazione» dei diritti, per cui ogni diritto negato – all’istruzione, al lavoro, al giusto processo, etc. – si trasformerebbe in elemento stressante e quindi in problema potenzialmente sanitario (cosa che, naturalmente, di fatto spesso finisce per essere, ma non in via principale). Certamente la dimensione medica della questione è più che ovvia, ma solo per il fatto che, secondo la parte rimasta in piedi della legge, all’eterologa si potrà ricorrere solo in presenza del problema medico della sterilità e dell’infertilità, e perché la fecondazione eterologa, che a questo problema vuole ovviare, è una tecnica a carattere squisitamente medico. Poco male, comunque, perché anche partendo da questa seconda prospettiva le conclusioni non sarebbero differenti da quelle tratte dalla Corte: «In coerenza con questa nozione di diritto alla salute, deve essere, quindi, ribadito che, “per giurisprudenza costante, gli atti dispositivi del proprio corpo, quando rivolti alla tutela della salute, devono ritenersi leciti”»; «Un intervento sul merito delle scelte terapeutiche, in relazione alla loro appropriatezza, non può nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica del legislatore, ma deve tenere conto anche degli indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi a ciò deputati».
Un punto importante è che, ponendo l’accento sull’aspetto sanitario, il diritto alla filiazione acquista ora anche la natura di diritto positivo, cioè implica un dovere di intervento attivo da parte di qualcuno – in questo caso, lo Stato e i medici, stante l’esistenza riconosciuta nel nostro paese di un diritto alla salute che viene declinato in gran parte proprio come diritto positivo a ricevere cure mediche. (Non meriterebbe di essere confutato lo sciocco sofisma che nega all’eterologa la qualità di terapia, in quanto incapace di curare la sterilità o l’infertilità; con questo ‘ragionamento’ non costituirebbe terapia neppure la dialisi o l’applicazione di un pacemaker.)

Per il resto la sentenza dimostra come il tanto paventato «vuoto normativo», che si sarebbe venuto a creare in seguito a una dichiarazione di illegittimità costituzionale, in realtà non esiste; le norme necessarie sono infatti in parte già contenute in ciò che resta della legge 40, in parte desumibili da altre norme «mediante gli ordinari strumenti interpretativi». Rimane fuori la questione del numero delle donazioni (che per ogni singolo donatore non può superare un limite ragionevole), per cui la Corte invoca «un aggiornamento delle Linee guida», cui si potrà provvedere senza problemi e speditamente. Sembra rimanere anche fuori la questione, assai più delicata, del diritto delle persone nate in seguito all’applicazione della fecondazione eterologa a conoscere i propri genitori genetici. Qui la Corte fa riferimento alle norme analoghe esistenti per i figli adottivi, ma non mi è chiaro se il ricorso agli «ordinari strumenti interpretativi» possa valere anche in questo caso. La norma in questione, ad ogni modo, è l’art. 28 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (e successive modifiche), «Diritto del minore ad una famiglia», che recita nei commi rilevanti:

4. Le informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici possono essere fornite ai genitori adottivi, quali esercenti la responsabilità genitoriale, su autorizzazione del tribunale per i minorenni, solo se sussistono gravi e comprovati motivi. Il tribunale accerta che l’informazione sia preceduta e accompagnata da adeguata preparazione e assistenza del minore. Le informazioni possono essere fornite anche al responsabile di una struttura ospedaliera o di un presidio sanitario, ove ricorrano i presupposti della necessità e della urgenza e vi sia grave pericolo per la salute del minore.
5. L’adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L’istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza.
7. L’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 [«La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata»].
Se trasponessimo questa norma al caso dell’eterologa, l’esito sembrerebbe scontato: se il donatore non vuole essere nominato, la sua identità dovrà rimanere ignota anche al figlio biologico. Ho la sensazione che la Corte, in modo purtroppo un po’ ellittico, voglia suggerire proprio questa strada: si noti come il §. 12 della sentenza si chiuda con il ricordo dell’invito che la Corte stessa rivolgeva al legislatore «a cautelare in termini rigorosi il […] diritto all’anonimato» in occasione della recente sentenza n. 278 del 2013, che ha sì dichiarato incostituzionale proprio il comma 7 della legge 184/1983, ma solo «nella parte in cui non prevede […] la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata […] – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione» (corsivo mio). Il diritto all’anonimato ha – come ricordava in quell’occasione la Corte – una precisa e fondamentale finalità: «quella di assicurare, da un lato, che il parto avvenisse nelle condizioni ottimali tanto per la madre che per il figlio, e, dall’altro lato, di “distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi”». Ovviamente nel caso della donazione di gameti non si correrebbero rischi paragonabili all’abbandono in luoghi malsani o addirittura dell’infanticidio; eppure l’analogia – a mio parere – in una certa misura tiene. È un fatto empirico ben accertato che là dove l’anonimato è stato proibito ai donatori di gameti, le donazioni siano precipitosamente diminuite, e con esse le nascite. Si arriva così al paradosso che per garantire un diritto ai figli, quegli stessi figli non possano più nascere. È proprio questo che si dimentica sistematicamente quando si parla (o straparla) di eterologa: i ragazzi che lamentano – o che ci vengono detti lamentare – la mancata conoscenza del genitore biologico, come se qualcuno avesse loro sottratto questa vitale informazione, non sembrano rendersi conto che è stata proprio nella maggior parte dei casi questa assenza di informazione ad avere reso possibile la loro nascita; che non si dà il caso in cui avrebbero potuto contemporaneamente conoscere il nome del loro genitore biologico ed essere nati. Non so se è questo il ragionamento implicito compiuto dai giudici; ma potrebbe esserlo. Rimane poi il fatto che la rinuncia totale all’anonimato, e il conseguente calo drastico delle nascite, riprodurrebbero quel turismo procreativo che la Corte esplicitamente condanna, là dove denuncia l’ultimo «elemento di irrazionalità della censurata disciplina», che determina «un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica delle stesse, che assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale, negato solo a quelle prive delle risorse finanziarie necessarie per potere fare ricorso a tale tecnica recandosi in altri Paesi».

È sulla questione dell’anonimato dei donatori che si giocherà l’ultima partita. Gli avversari dell’eterologa tenteranno con ogni mezzo di introdurre una disciplina draconiana, che in larga parte neutralizzi la decisione della Corte; già oggi su Avvenire Francesco Ognibene falsifica o fraintende gravemente su questo punto la lettera della sentenza («“Eterologa solo per gli sterili. E ora il legislatore sia saggio”», 11 giugno 2014, p. 11), arrivando a scrivere che «nessun anonimato è possibile per i donatori di gameti, alla cui identità i genitori e il figlio dell’eterologa avranno il diritto di accedere». Ognibene è seguito da Alberto Gambino, che in un’intervista (Viviana Daloiso, «“Il vuoto normativo resta. Donatori, niente anonimato”», ibidem) sostiene analogamente che «Rispetto al diritto del figlio nato da eterologa di conoscere le sue origini genetiche la Corte conferma il suo orientamento positivo, cristallizzando la responsabilità del donatore e il diritto del figlio a ricostruire la sua identità biologica. Il riferimento degli ermellini anzi è proprio alla normativa già vigente per i figli adottati. Nessun diritto all’anonimato, dunque». Gambino afferma anche che «Il vuoto normativo […] viene in parte ammesso dalla stessa Consulta e per garantire la piena operatività dei centri ora servirà che qualcuno lo colmi, o il ministro o il legislatore». In realtà, come scrivevo poco tempo fa, l’eterologa tornerà a essere del tutto lecita al momento della pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale; i centri non hanno bisogno d’altro per operare. Un eventuale, improvvido decreto del governo che cedendo alle pretese di qualche alleato vietasse loro di procedere, riprodurrebbe di fatto la normativa appena cassata e sarebbe pertanto manifestamente incostituzionale (a meno di prevedere una sospensiva con scadenza estremamente ravvicinata); il Presidente della Repubblica lo rispedirebbe certamente al mittente.

lunedì 9 giugno 2014

Che cosa è l’eutanasia (una volta per tutte)

“Choc” è il termine più ricorrente accanto a “eutanasia”. Cosa ci sia da sconvolgersi non è del tutto chiaro. Può però essere un’occasione per chiarire i termini e i concetti spesso usati con troppa disinvoltura.

Il 4 giugno Il Fatto Quotidiano titolava “Eutanasia, neurologo Gemelli: “I miei pazienti possono scegliere di morire”. I titolisti, si sa, puntano in alto, ma anche nel testo tornano manifestazioni di sorpresa per quanto è lecito e possibile da molti anni e non è eutanasia (propriamente intesa). “A parlare non è un medico svizzero”. “È perfettamente consapevole che le sue parole rischiano di rialzare un putiferio intorno a un tema”. “Ma poi Sabatelli fa un passo in più: poiché nessuno può immaginare cosa significhi vivere con un tubo in gola e una macchina che pompa aria nei polmoni, per quanto un medico si sforzi di descriverne la condizione, “il piano terapeutico deve essere flessibile”.”

Ovviamente la risposta di Mario Sabatelli, neurologo e responsabile del Centro malattie del motoneurone (SLA) del Policlinico Gemelli, non è rivoluzionaria, provocatoria, scioccante o da “medico svizzero”. Sabatelli risponde tenendo conto delle leggi esistenti e della buona pratica medica: “Che quello che è proporzionato oggi, può essere sproporzionato tra sei mesi, quando la malattia sarà drammaticamente avanzata. E allora un paziente ha tutto il diritto di dire: ok, basta. Nessuno dietro a una scrivania può decidere per me, che sono a letto tracheostomizzato.”

L’intervista completa è qui, e chi ha la pazienza di ascoltarla non ci troverà nulla di scioccante (dal minuto 6 Sabatelli risponde alla domanda sul rifiuto alla trachestomia; la sua risposta può valere anche per tutti gli altri trattamenti e uno dei passaggi cruciali è il seguente: “dipende dalle scelte esistenziali […] della persona che decide di vivere in questa maniera; quindi si passa dal piano strettamente medico (efficacia, appropriatezza) a un piano di scelta di valori”). Le parti più importanti sono, poi, quelle sulla SLA, sulle condizioni di vita delle persone affette da una patologia oggi incurabile, sulle carenze “logistiche” e sullo stato della ricerca.

Wired.

giovedì 5 giugno 2014

Ancora tu


Qualche agenzia sulle ultime vicende che riguardano Stamina e la nomina di Marino Andolina.

Stamina: Cattaneo, auspico intervento Csm o Ministero
(ANSA) – ROMA, 5 GIU – “Mi domando – rileva Elena Cattaneo – se magistrati che ordinano di trasfondere preparati di cui essi non conoscono il contenuto, i cui consulenti tecnici spesso sono i medesimi che hanno ritrattato le diagnosi sui pazienti quando interrogati dalla procura di Torino, non possano essere oggetto di un intervento di approfondimento del Consiglio Superiore della Magistratura o del Ministro della Giustizia”. A proposito di quello che definisce “l’impazzimento giudiziario di questi mesi”, la senatrice annuncia la sua intenzione di “utilizzare ogni strumento parlamentare perché Parlamento e governo siano interessati il prima possibile delle ragioni di una contraddittorietà difficilmente comprensibile ai cittadini”. (ANSA). BG 05-GIU-14 16:39 NNNN

STAMINA: CATTANEO, SU ‘IMPAZZIMENTO’ GIUDIZIARIO INTERVENGA CSM = ‘ORDINANZA PESARO SCIENTIFICAMENTE BIZZARRA, NO STAMINALI MESENCHIMALI IN INFUSIONI’ Milano, 5 giu. (Adnkronos Salute) – Un ordine “scientificamente bizzarro”, specchio di un “‘impazzimento’ giudiziario” sul quale sarebbe auspicabile “un intervento di approfondimento del Consiglio superiore della magistratura o del ministro della Giustizia”. Così la scienziata e senatrice a vita Elena Cattaneo definisce il provvedimento del giudice di Pesaro che nomina Marino Andolina, vicepresidente di Stamina Foundation, ‘commissario ad acta’ per la ripresa delle infusioni sul piccolo Federico Mezzina, affetto da morbo di Krabbe, agli Spedali Civili di Brescia. “Sarà mia cura, quale senatrice della Repubblica - annuncia l’esperta di staminali – utilizzare ogni strumento parlamentare perché Parlamento e Governo siano interessati il prima possibile delle ragioni di una contraddittorietà difficilmente comprensibile ai cittadini”. “Non ho ancora avuto modo di leggere gli atti della magistratura di Pesaro che si sono risolti nell’individuare un medico per realizzare un’attività in cui l’autorità inquirente di Torino ha rinvenuto profili idonei a concretare gravi ipotesi di responsabilità penale”, premette Cattaneo in una nota. “Tuttavia sottolineo che, da ogni prova pubblica disponibile e dagli esami compiuti in passato dagli organi competenti sui pretesi preparati" di Stamina Foundation, “Fondazione non medica – puntualizza la scienziata-senatrice – il contenuto delle iniezioni proposte da Stamina non è definibile come ‘preparato di cellule staminali mesenchimali’ (o loro derivati). Pertanto l’ordine del giudice, se fosse formulato nel senso di ordinare di iniettare ‘cellule mesenchimali’ (o loro derivati) nel paziente, non contenendo quei preparati quelle specifiche cellule, appare quantomeno scientificamente bizzarro”. (segue) (Red-Opa/Opr/Adnkronos) 05-GIU-14 16:42 NNNN

STAMINA: CATTANEO, SU ‘IMPAZZIMENTO’ GIUDIZIARIO INTERVENGA CSM (2) = (Adnkronos Salute) – “Chiunque ritenga in scienza e in coscienza che la pratica proposta da Stamina almeno porti al trasferimento di cellule staminali mesenchimali (e loro derivati) nel paziente – incalza Cattaneo – avrebbe il dovere di dimostrarlo, oltre che alla comunità scientifica, quantomeno di fronte al giudice. Diversamente starebbe iniettando materiale biologico differente da quanto ordinato dalla magistratura, esponendo in tal senso i pazienti a ulteriori conseguenze non prevedibili e, di tutta evidenza, estranee alla buona pratica medica”. “In generale – prosegue – mi domando se magistrati che ordinano di trasfondere preparati di cui essi non conoscono il contenuto, i cui consulenti tecnici spesso sono i medesimi che hanno ritrattato le diagnosi sui pazienti quando interrogati dalla procura di Torino, non possano essere oggetto di un intervento di approfondimento del Consiglio superiore della magistratura o del ministro della Giustizia”. La scienziata e senatrice a vita conclude ribadendo che “Stamina non ha niente a che fare con staminali, scienza, medicina, compassione e etica.
È solamente un grave e pericolosissimo inganno ai malati. Nessuno è deceduto per non avere avuto iniezioni di una soluzione fisiologica. Purtroppo alcune malattie complesse sono oggi letali, nonostante esista una ricerca attiva in tutte le direzioni affinché un giorno non lo siano più”. (Red-Opa/Opr/Adnkronos) 05-GIU-14 16:43 NNNN

Aggiornamento

== Stamina: Csm, atti a Procura generale e a Prima commissione =
(AGI) – Roma, 5 giu. – La Prima commissione del Csm e la Procura generale della Cassazione si occuperanno del caso Stamina. Il comitato di presidenza di palazzo dei Marescialli, infatti, ha oggi disposto la trasmissione di un fascicolo relativo alle vicende su Stamina sia alla Prima commissione, che si occupa di questioni riguardanti i magistrati, sia alla Procura generale della Suprema Corte, titolare assieme al ministro, dell’azione disciplinare. Al centro del fascicolo, che sarà all’attenzione della Prima commissione del Csm e della Procura generale della Cassazione, stando a quanto si apprende, ci sarà proprio la decisione del Tribunale di Pesaro relativa alla nomina di Marino Andolina come ‘commissario ad acta’ per eseguire alcune infusioni presso gli Spedali civili di Brescia.

Tre genitori per un bebè, la nuova genetica e l’ordine naturale inesistente

Tre genitori per un embrione: ovvero, usare il DNA di 3 individui per evitare la trasmissione di patologie genetiche incurabili. Le patologie dei mitocondri – organelli che si trovano nelle cellule, dotati di un proprio genoma – passano dalla madre al figlio e i mitocondri di un’altra donna andrebbero a sostituire quelli materni responsabili della trasmissione. Potremmo chiamarla una donazione genetica o mitocondriale.

Se ne parla da un po’ di tempo e martedì è stato pubblicato un report della “Human Fertilisation and Embryology Authority” (Hfea) commissionato dal governo inglese. La ricerca procede bene e verosimilmente potrebbe essere utilizzata nel giro di un paio d’anni. Ma non mancano gli ostacoli morali e normativi. Gli ostacoli morali sono uguali ovunque, quelli normativi dipendono dai singoli paesi. In Gran Bretagna il no verrebbe dal divieto di modificare il dna. In Italia, lo scorso febbraio, lo scenario era il seguente: “La tecnica, l’unica che può evitare la trasmissione della malattia che è incurabile e spesso letale, in Italia non sarebbe applicabile per la legge 40”.

Pagina99.

martedì 3 giugno 2014

«Poverina», «da lesbica», «Penso che sia noto a tutti»

È lunedì pomeriggio, fa caldo, sono più pigra del solito. Vengo coinvolta in un’avvincente discussione che parte da un avvincente pensiero di Mario Adinolfi.
Qualcuno deve aver cominciato a parlare di genitorialità e qualcun altro ha citato il mio vecchio libro Buoni genitori. A quel punto Adinolfi ha risposto usando un incontrovertibile argomento.


Qualcun altro gli ha risposto con un argomento che non se la passa molto meglio.



Su “poverina” non mi soffermo: la terza elementare è finita da un po’ e se non riesci a dire null’altro puoi anche parlare da solo. Sul suo libretto tutto quello che c’era da dire l’ha scritto Giuseppe Regalzi. (Però che ingrato, Mario, e pensare che avevo anche caldeggiato che il suo capitolo di VLM, rimosso da Facebook qualche giorno fa, gli fosse immediatamente restituito).
Ma su “da lesbica sì.

Non tanto per smentire o confermare un orientamento sessuale, ma per sottolineare che è come dirmi “culona” perché non riesci a dire altro (che l’intento fosse difensivo è irrilevante, l’argomento è comunque fragile). È come dire “faccia di velluto” o “cesso” (aggiungete a piacere gli epiteti che vi danno maggiore soddisfazione animalesca mentre ne pronunciate lentamente ogni sillaba).

Che “da lesbica” sarei – anzi, non potrei che essere – una voce parziale somiglia a un argomento (sballato, ma ci somiglia), la cui faccia speculare (altrettanto sballata) sarebbe che da non lesbica sarei intrinsecamente imparziale? E il sottofondo è: se non sei lesbica che cazzo scrivi a fare di lesbiche?

L’idea sottostante è che i neri devono difendere i diritti dei neri, le donne quelli delle donne, e così via. In un circolo soffocante e claustrofobico. In un panorama in cui la discriminazione e l’uguaglianza – che sono le due vere questioni sottostanti – spariscono e sono ingoiate da litigi di cortile. Chi strilla di più, chi insulta meglio, chi ha più pazienza di far finta di discutere buttando parole a caso. “Lesbica!”, “Frocio!”, “Cicciona!”, “Quattrocchi!”.

Lo avevo scritto anche nell’introduzione di Buoni genitori: infartuati che curano infartuati, zoppi che aggiustano ossa rotte, muti che fanno i logopedisti, glabri che mettono a punto il perfetto trapianto di capelli e villosi che studiano l’epilazione definitiva.

L’implicazione vale però solo quando vi fa comodo, ovviamente. Vale soprattutto nel dominio degli orientamenti sessuali: perché mai dovresti interessarti di adozione o matrimonio per tutti se non ti interessa personalmente (ovvero se non sei lesbica o gay)? Mi era successo anche scrivendo di tecniche riproduttive: dovevo essere per forza sterile, altrimenti perché mai? Che te ne frega?

Non c’è solo un ingrediente pornografico e – ancora una volta – da scuola elementare, ma una idea completamente fuori fuoco di come si affrontano le discussioni. Una visione da ubriachi che cercano la chiave persa nel luogo dove c’è più luce e non dove l’hanno verosimilmente lasciata cadere inavvertitamente.

Cercate di offrire argomenti e non descrizioni, presunte o vere, di cosce troppo grasse, colli troppo corti, preferenze sessuali x o y, gusti alimentari. Cercate di ricordarvi che non c’è più la mamma che corre in vostro soccorso quando avete fatto o detto qualche scemenza. Poi, per carità, avete il diritto di dire scemenze, anche più volte al giorno, anche per tutta la vita.

PS
Ho chiesto, per curiosità, da dove venisse l’informazione sul mio orientamento sessuale e ho ricevuto la più bella risposta possibile: Penso che sia noto a tutti”. Meglio di Philip Roth.