giovedì 12 marzo 2015

Da dove viene il nuovo attacco alla legge sull’aborto



Quattrocentoquarantuno voti favorevoli, 205 contrari e 52 astenuti: così è finito il voto al parlamento europeo sulla Relazione sui progressi concernenti la parità tra donne e uomini nell’Unione europea, cioè la cosiddetta risoluzione Tarabella dal nome del suo relatore, l’eurodeputato belga Marc Tarabella.

Nei giorni passati la risoluzione aveva sollevato in Italia proteste e petizioni. Perché? Per aver nominato l’aborto ai punti 44 e 45, dove il documento

osserva che vari studi dimostrano che i tassi di aborto sono simili nei paesi in cui la procedura è legale e in quelli in cui è vietata, dove i tassi sono persino più alti (Organizzazione mondiale per la sanità, 2014); insiste sul fatto che le donne debbano avere il controllo della loro salute e dei loro diritti sessuali e riproduttivi, segnatamente attraverso un accesso agevole alla contraccezione e all’aborto; sostiene pertanto le misure e le azioni volte a migliorare l’accesso delle donne ai servizi di salute sessuale e riproduttiva e a meglio informarle sui loro diritti e sui servizi disponibili; invita gli stati membri e la Commissione a porre in atto misure e azioni per sensibilizzare gli uomini sulle loro responsabilità in materia sessuale e riproduttiva.
È incredibile come tutto il resto fosse scomparso davanti a due occorrenze della parola “aborto”: le questioni di genere, la parità, la differenza di retribuzione, la povertà e l’esclusione sociale, l’uguaglianza in senso pieno, le mutilazioni genitali, l’accesso alle cure, gli stereotipi di genere.

Ed è incredibile come quello che c’è scritto sull’aborto sia stato deformato e presentato come una specie di incitazione all’interruzione di gravidanza, mentre è, da un lato, la constatazione quasi scontata della inefficacia e della pericolosità delle restrizioni, e dall’altro un invito a garantire a tutte l’accesso alle scelte riproduttive (aborto compreso). Non dimentichiamo nemmeno che in genere la garanzia dei servizi e dei diritti è direttamente proporzionale ai mezzi che si hanno, perciò le persone più escluse tendono a essere quelle più fragili e meno informate.

Internazionale, 12 marzo 2015.

martedì 10 marzo 2015

La fecondazione assistita ha ancora troppi limiti in Italia

Sono nati i primi bambini italiani concepiti grazie alla cosiddetta fecondazione eterologa, una delle tecniche di fecondazione assistita. O meglio, i primi da donatrice italiana, perché, in questi anni, chi aveva bisogno di un gamete andava nei paesi dove l’eterologa non era illegale oppure ricorreva a una donazione “fai da te”. E questo accadeva solo nel caso di gameti maschili, poiché per quelli femminili c’è bisogno di ricorrere a un centro specializzato: il prelievo degli ovociti è tecnicamente molto più complicato di quello di spermatozoi.

Il divieto risale al 2004 e alla legge 40 sulle tecniche riproduttive, ed era forse il più bizzarro tra i tanti presenti nella legge: perché dovrebbe essere vietato ricorrere a un gamete altrui? E perché sarebbe immorale?

Internazionale, 10 marzo 2015.

lunedì 9 marzo 2015

Nati i primi bambini in Italia dopo l'ok della Consulta all'eterologa

Due gemelli, un maschio e una femmina. Sono i primi bambini italiani nati da fecondazione assistita eterologa, con donazione di ovociti da parte di donatrice volontaria italiana. Un evento reso possibile dalla sentenza del 9 aprile scorso che dichiarato legittima questa tecnica.

I bambini sono nati all’Alma Res Fertility di Roma, diretto da Pasquale Bilotta, dove sin dal mese di giugno “sono state ottenute le prime gravidanze eterologhe”, spiega Bilotta all’Adnkronos Salute. Nei primi mesi del 2014 i genitori dei gemellini appena nati si sono rivolti a Bilotta dopo un lungo periodo di infertilità, durato circa 15 anni. “La fertilità della donna era risultata del tutto compromessa oltre che dall’età, 47 anni, anche da una riserva ovarica (produzione di ovociti) drasticamente ed irrimediabilmente danneggiata da una patologia a carico delle ovaie, l’endometriosi, responsabile del 45% dei casi di infertilità femminile”, spiega Bilotta. 
AdnKronos.

domenica 8 marzo 2015

Il mio mestiere è partorire tuo figlio


Per maternità surrogata (surrogacy) s’intende la pratica di portare avanti una gravidanza per qualcun altro. Non sarà quindi la gestante a crescere il bambino, che potrebbe essere figlio biologico di entrambi i genitori che lo alleveranno, di uno solo o di nessuno (in questi ultimi due casi si fa ricorso a un donatore e/o a una donatrice di gameti).

Ne esistono due modelli: quello commerciale, che prevede un compenso per la donna che porta avanti la gravidanza ed è legale in alcuni Stati degli Usa e in Canada, e quello altruistico, che in genere prevede un rimborso spese ed è permesso in Paesi come la Gran Bretagna, l’Australia e la Nuova Zelanda. In Italia non era vietato fino a qualche anno fa e nel 1993 fece molto discutere il caso di Novella Esposito, la cui madre si era offerta di portare avanti la gravidanza al posto della figlia che aveva subito l’asportazione dell’utero. Nessuno dei tentativi ebbe successo.

La discussione morale, come prevedibile, è molto accesa: si può scegliere di usare il proprio corpo per una cosa del genere? È una pratica intrinsecamente immorale? E, in caso di controversia, che strumenti abbiamo per cercare di risolverla? Che cosa succede se la gestante o gli aspiranti genitori cambiano idea?

Il caso forse più spinoso di tutti riguarda la decisione di interrompere la gravidanza in caso di grave anomalia fetale. Una scelta difficilissima già quando la donna incinta è e sarà anche la madre del nascituro, e che in caso di surrogacy si complica ulteriormente: chi sarà a decidere, la donna che porta avanti la gravidanza oppure quelli che saranno i genitori del nascituro? Si può acconsentire in anticipo all’aborto e si possono esaurire tutti i possibili scenari controversi? Chi può essere coinvolto nella decisione?

Ruth Walker e Liezl van Zyl (lectures dell’Università di Waikato, Nuova Zelanda) hanno cercato di rispondere in un articolo su «Bioethics», Surrogate Motherhood and Abortion for Fetal Abnormality. Sia il modello commerciale sia quello altruistico — scrivono — non sembrano riuscire a offrire risposte soddisfacenti a queste domande. Walker e van Zyl propongono allora una terza via: considerare la surrogacy come una professione, come fare l’infermiere o l’insegnante.

Prima di procedere però dobbiamo anticipare due possibili obiezioni: la prima riguarda l’analogia che non significa identità, perciò non si sta dicendo che portare avanti la gravidanza per qualcun altro sia come insegnare inglese ma si vogliono suggerire delle somiglianze; la seconda riguarda le condizioni per discutere davvero di maternità surrogata e non di schiavitù o sfruttamento. Ovvero della possibilità che una donna scelga liberamente di offrirsi come surrogata per un’estranea, per un’amica o una sorella.

La Lettura, Il Corriere della Sera, 1 marzo 2015.

venerdì 6 marzo 2015

Usiamo la ragione contro il buio di Stamina


In questi ultimi anni Stamina ha animato feroci discussioni e ha forzato – facendola arretrare – la linea difensiva che le istituzioni e la politica dovrebbero tenere salda contro i ciarlatani.

Ora il clima è raffreddato, anche se non del tutto sedato. Il presunto trattamento Stamina – tenuto intenzionalmente nel mistero, privo di dati sperimentali e dei requisiti per accedere a una sperimentazione, assente dalle riviste scientifiche – era stato presentato da Davide Vannoni (laureato in lettere) come rimedio per molte malattie neurovegetative incurabili.

C’erano tutti gli elementi per un perfetto complotto: un eroe, incompreso e avversato, che vuole salvare l’umanità ma è ostacolato dagli interessi delle case farmaceutiche. Forse anche il crollo è un frammento dell’epica del prode isolato e in lotta contro tutti: Vannoni, imputato per accuse gravissime tra cui associazione a delinquere finalizzata alla truffa, ha chiesto il patteggiamento. Un misero e deludente terzo atto.

Stamina è un ottimo pretesto per analizzare come si dovrebbero avvicinare le questioni, sia in una discussione sia (e soprattutto) quando bisogna decidere di una legge o di dove investire risorse limitate come quelle sanitarie.

Tutto quello che è successo con Stamina dimostra per l’ennesima volta perché sia necessario usare strumenti razionali e non lasciarsi trascinare dalla corrente delle emozioni: la paura, il terrore, il disgusto o la ripugnanza sono infatti bussole insoddisfacenti e inaffidabili. Insieme ai “secondo me è così” e ai “io non lo farei mai!”.

Internazionale, 6 marzo 2015.