sabato 6 gennaio 2007

Pensare ad Ashley, 1

Il caso era già noto, ma è tornato improvvisamente di attualità nel momento in cui, pochi giorni fa, i genitori di Ashley hanno aperto un sito web in cui raccontano le loro esperienze.
Ashley ha nove anni, ma la sua mente non si è mai sviluppata: a causa di un’encefalopatia di origine sconosciuta, non è in grado di tenere sollevata la testa, di cambiare posizione mentre dorme, di tenere in mano un giocattolo, mettersi a sedere, parlare, camminare, o alimentarsi autonomamente (viene nutrita tramite un sondino). Rimane ferma là dove la si pone — in genere sopra un cuscino, ed è per questo che i genitori la chiamano l’«angelo del cuscino»; non è chiaro se riconosca o meno le persone, ma è consapevole della loro presenza e dell’ambiente che la circonda, ama la musica, e risponde con sorrisi e vocalizzazioni alle cure e ai gesti di affetto. I genitori dichiarano di non poter concepire una vita senza di lei, e la ritengono un membro della famiglia a tutti gli effetti e una benedizione. Non esistono speranze di miglioramento: mentalmente, avrà sempre tre mesi di età.
Il fisico di Ashley, invece, è quasi del tutto normale; e all’età di sei anni e mezzo ha cominciato a dare i primi segni di una precoce pubertà. A questo punto i genitori, dopo aver ricevuto l’assenso dei 40 membri del comitato etico del Seattle Children’s Hospital, hanno deciso di sottoporre la bambina a una serie di trattamenti medici: ad Ashley è stato rimosso l’utero (ma non le ovaie), le ghiandole mammarie (ma non i capezzoli), in modo che i seni non si sviluppino, e l’appendice. Dopo l’operazione, e per due anni e mezzo, la bambina è stata sottoposta a una terapia ormonale ad alte dosi di estrogeni, che ne limiterà la crescita in altezza (del 20%, secondo le stime) e ponderale (del 40%), senza effetti dannosi per la salute.
Le motivazioni addotte per questa serie di interventi sono le seguenti:

  1. la rimozione dell’utero eviterà l’insorgere del ciclo mestruale e dei connessi disturbi, nonché di future forme tumorali, e azzererà le probabilità di una gravidanza (possibile anche in queste circostanze: non mancano tristissimi precedenti) e di alcune possibili complicanze legate alla successiva terapia farmacologica;
  2. l’asportazione delle ghiandole mammarie impedirà il disagio fisico causato da seni voluminosi (comuni in entrambe le famiglie dei genitori, nelle quali esiste oltretutto una storia di fibrocisti e cancro al seno): in particolare, sarà possibile continuare senza disagi ad assicurare Ashley con cinghie o fasce ogni volta che sarà necessario; l’operazione – nelle intenzioni – dovrebbe anche rendere Ashley fisicamente meno appetibile agli occhi di un eventuale malintenzionato;
  3. limitare la crescita della bambina consentirà ai genitori di sollevarla più facilmente, per evitarle piaghe da decubito e per consentirle di sperimentare una più grande varietà di ambienti; inoltre le permetterà di continuare a girare in passeggino, e non sulla sedia a rotelle (che Ashley non gradisce).
La bambina si è mostrata finora incapace di fronteggiare livelli anche bassi di disagio fisico, come quelli causati dal solletico di un capello; figuriamoci una piaga da decubito. Ashley non sarebbe mai stata in grado, per converso, di apprezzare soggettivamente una statura e una femminilità normali.

Come giudicare questo caso enormemente complesso? Esiste un livello di giudizio razionale, in cui si valuta il rapporto costo/benefici per la bambina dei vari interventi: era possibile attendere ancora prima di procedere all’isterectomia? Quali erano le alternative a disposizione? E quali i rischi dei vari trattamenti intrapresi? Questo naturalmente è campo per gli specialisti; ci conforta il fatto che la decisione è stata evidentemente ponderata a lungo e con accuratezza – anche se questo non la rende immune dalla critica, è ovvio (la relazione completa si legge in Daniel F. Gunther e Douglas S. Diekema, «Attenuating Growth in Children With Profound Developmental Disability: A New Approach to an Old Dilemma», Archives of pediatrics and adolescent medicine 160, 2006, pp. 1013-17).
Fa parte di questo livello di discorso anche la valutazione dei benefici per chi si prende cura della bambina, in primo luogo i genitori. Questi ultimi respingono recisamente di essersi lasciati guidare da questo tipo di considerazioni, e si capisce anche perché; ma credo che, a parità di risultati per il paziente, non ci sia nulla di immorale nel decidere anche in base a questo aspetto della vicenda.
Qualcuno ha obiettato che la medicina potrebbe un giorno curare l’encefalopatia di Ashley, e che in vista di questa possibilità non si sarebbero dovuti quindi intraprendere interventi irreversibili; ma è un’obiezione molto debole. Sarebbe irresponsabile richiamarsi a una speranza senza nessuna base concreta per condannare un essere umano a soffrire per decenni, e quasi certamente per il resto della sua vita.
All’estremo opposto, da alcune reazioni espresse a mezza voce, pare che alcuni riterrebbero qui preferibile – se solo fosse permessa – l’eutanasia infantile. Ma ne mancano tutti i presupposti: Ashley non soffre particolarmente della propria condizione, soprattutto adesso. E anche se non è chiaro se nel suo caso si possa parlare di vita personale (intesa come coscienza di sé), lo stesso si potrebbe dire di ogni infante di tre mesi.
Più razionalmente, alcuni hanno messo in rilievo che un’organizzazione sanitaria più equa di quella americana avrebbe potuto ovviare ad almeno alcuni dei problemi di Ashley, per esempio fornendo gratuitamente personale infermieristico qualificato. È la posizione, per esempio, di Arthur Caplan («Is ‘Peter Pan’ treatment a moral choice?», MSNBC, 5 gennaio 2007), e di un editoriale apparso sullo stesso numero della rivista che ha ospitato la presentazione scientifica del caso (Jeffrey P. Brosco e Chris Feudtner, «Growth Attenuation: A Diminutive Solution to a Daunting Problem», Archives of pediatrics and adolescent medicine 160, 2006, pp. 1077-78). Questo ovviamente è molto giusto; ma essendo la situazione quella che è, e non essendoci prospettive di miglioramento a breve termine, non incide sulla valutazione morale del caso. Aggiungerei anche che la soluzione adottata, in ogni caso, garantisce un livello personalizzato di cura che non sarebbe probabilmente raggiungibile neanche con un presidio infermieristico domiciliare permanente – il quale, ammesso che fosse realizzabile, interferirebbe per giunta pesantemente sulle relazioni tra Ashley e la sua famiglia.

Le reazioni più diffuse e veementi al caso di Ashley si situano però a un livello che è difficile definire razionale. Me ne occuperò nella seconda parte di questo post.

(Grazie a Inyqua per la consueta, generosa assistenza bibliografica.)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Ed io, come di consueto, ti linko...:-)

Giuseppe Regalzi ha detto...

Grazie, mia cara!

Anonimo ha detto...

Dopo aver scritto quello che penso io approposito di questa vicenda,ho pensato di vedere in rete cosa se ne scriveva,e dopo diversi post ed articoli,perbenisti ed infondati,ho trovato questo post finalmente sensato e soprattutto motivato,non come la maggior parte di post-sentenza.bittati lì solo per scrivere le solite frasi fatte...
tutto questo per farti i complimenti per ciò che hai scritto,in maniera intelligente soprattutto,
notte,Miss Spoiler