Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano
John Stuart Mill, La libertà
giovedì 23 dicembre 2010
In guerra
Cominciamo dalla guerra in senso letterale: ti sei mai sentita invadente nell’infilarti nelle vite altrui e nel loro dolore?
Qualche volta sì, ma quello che ti trovi davanti - soprattutto nelle situazioni più violente - sono persone che hanno voglia di raccontare cosa è successo loro e come vivono. Anche le donne che hanno subito atroci violenze, come le afghane o le pakistane, mi hanno sempre detto “scrivi la nostra storia nella speranza che non accada ad altre”.
Ho sempre rispettato, ovviamente, chiunque non volesse raccontare, ma non mi è quasi mai accaduto. Hanno sempre voluto parlarmi: dalla prostituta alla ragazzina che si è finta uomo durante il regime talebano per mantenere la sua famiglia.
Sono andata nel centro antiviolenza di Peshawar per raccogliere 2 o 3 storie. Tutte le donne presenti mi hanno voluto raccontare. Il fatto che ci fosse qualcuno che le avrebbe ascoltate dava loro un po’ di conforto. Donne umiliate, picchiate, terrorizzate, sopraffatte dalla sofferenza. Le ho ascoltate fino a sera inoltrata. Io sono uscita devastata.
Su Il Mucchio Selvaggio di gennaio.
mercoledì 22 dicembre 2010
La Congregazione per la Dottrina della Fede ci mette una pezza
Abbiamo seguito alcune settimane fa, a partire da un’anticipazione del libro intervista Luce del mondo comparsa sull’Osservatore Romano, la vicenda dell’imprevista apertura papale nei confronti del preservativo. Non che Benedetto XVI abbia detto alcunché di clamoroso: non ha certo dato il via libera all’uso del condom fra coppie sposate. L’apertura è avvenuta per così dire lateralmente; assieme a qualche altro commentatore, ho cercato di mostrare come il papa (al netto di alcuni equivoci mediatici), indicando nell’uso del profilattico per contrastare la diffusione dell’Aids un «primo passo verso una moralizzazione», abbia aperto di fatto una breccia nella tradizionale opposizione cattolica alla dottrina del male minore. I cattolici sostengono infatti che ciò che è intrinsecamente male – come è, per loro, l’uso di un contraccettivo – non deve mai essere compiuto, nemmeno allo scopo di prevenire un male maggiore, come per esempio un contagio mortale.
Questa novità ha suscitato subito le perplessità di alcuni moralisti cattolici, e ha infine indotto ieri la Congregazione per la Dottrina della Fede (l’ex Sant’Uffizio) a pubblicare una nota «sulla banalizzazione della sessualità. A proposito di alcune letture di “Luce del mondo”», in cui si cerca di dimostrare che nulla è cambiato. In particolare, ecco quanto scrive riguardo al male minore:
Una nota così palesemente inadeguata mostra meglio di mille discorsi che l’innovazione c’è stata, ed è stata profonda. Ma l’uscita della Congregazione per la Dottrina della Fede non può non essere stata concordata col papa, che si è dunque convinto – o è stato convinto – a tornare sui propri passi. Anche i generali in capo, a volte, possono essere costretti a rientrare nei ranghi.
Questa novità ha suscitato subito le perplessità di alcuni moralisti cattolici, e ha infine indotto ieri la Congregazione per la Dottrina della Fede (l’ex Sant’Uffizio) a pubblicare una nota «sulla banalizzazione della sessualità. A proposito di alcune letture di “Luce del mondo”», in cui si cerca di dimostrare che nulla è cambiato. In particolare, ecco quanto scrive riguardo al male minore:
Alcuni hanno interpretato le parole di Benedetto XVI ricorrendo alla teoria del cosiddetto “male minore”. Questa teoria, tuttavia, è suscettibile di interpretazioni fuorvianti di matrice proporzionalista (cfr. Giovanni Paolo II, enciclica Veritatis splendor, nn. 75-77). Un’azione che è un male per il suo oggetto, anche se un male minore, non può essere lecitamente voluta. Il Santo Padre non ha detto che la prostituzione col ricorso al profilattico possa essere lecitamente scelta come male minore, come qualcuno ha sostenuto. La Chiesa insegna che la prostituzione è immorale e deve essere combattuta. Se qualcuno, ciononostante, praticando la prostituzione e inoltre essendo infetto dall’Hiv, si adopera per diminuire il pericolo di contagio anche mediante il ricorso al profilattico, ciò può costituire un primo passo nel rispetto della vita degli altri, anche se la malizia della prostituzione rimane in tutta la sua gravità. Tali valutazioni sono in linea con quanto la tradizione teologico-morale della Chiesa ha sostenuto anche in passato.È difficile capire in che consista la confutazione che la nota pretende di apportare. Sostenere che «il ricorso al profilattico … può costituire un primo passo nel rispetto della vita degli altri» implica infatti che l’uso del profilattico sia preferibile in quelle circostanze al non uso. Che per il papa la prostituzione rimanga «immorale» e debba «essere combattuta» è ovvio e irrilevante; come dice il nome stesso, quella che Joseph Ratzinger sembra aver abbracciato è la dottrina del male minore.
Una nota così palesemente inadeguata mostra meglio di mille discorsi che l’innovazione c’è stata, ed è stata profonda. Ma l’uscita della Congregazione per la Dottrina della Fede non può non essere stata concordata col papa, che si è dunque convinto – o è stato convinto – a tornare sui propri passi. Anche i generali in capo, a volte, possono essere costretti a rientrare nei ranghi.
giovedì 16 dicembre 2010
Epidurale por favor
Il blog lo abbiamo segnalato più volte. Paola Banovaz ha scritto un libro, Epidurale por favor.
L’84% delle strutture sanitarie pubbliche e convenzionate non garantisce un trattamento efficace e sicuro per lenire il dolore nel parto. L’epidurale diventa un pretesto per approfondire i miti, i tabù, i pregiudizi che ancora sopravvivono intorno a gravidanza, parto e maternità.
“La cosa che ancora oggi mi fa riflettere non è tanto la questione di riconoscere il diritto all’epidurale alle partorienti che la desiderano, che è addirittura tautologico, ma sono le giustificazioni balbuzienti di chi comunque si mette per traverso”.
Dalla prefazione di Ivan Cavicchi.
mercoledì 15 dicembre 2010
lunedì 13 dicembre 2010
Hugef, Human Genetics Foundation
Domani a Torino si inaugura la nuova sede dello Hugef, Human Genetics Foundation. Il programma della giornata qui.
Incesto asimmetrico
Ci sono argomenti di cui è quasi impossibile discutere senza essere travolti dal peso emotivo: uno di questi è senza dubbio l’incesto.
Un caso recente ci offre la possibilità di fare qualche riflessione, soprattutto sulle ragioni e sulle modalità della condanna morale e legale.
Molto dipende anche dalla relazione in cui l’incesto avviene: tra genitore e figlio, tra fratelli o tra gradi di parentela più laschi.
Probabilmente il primo caso è quello più esplosivo.
Pochi giorni fa David Epstein, professore alla Columbia, è stato accusato di avere da tre anni una relazione consensuale con la figlia ventiquattrenne.
Alexa Tsoulis-Reay pone una domanda cruciale: Is Incest a Two-Way Street? David Epstein is charged with having sex with his adult daughter. Isn’t she guilty, too? (december 10, 2010, Slate).
Pur essendo consenziente e maggiorenne, la ragazza non è oggetto di indagine.
Perché?
Perché è considerata a priori e necessariamente come una vittima - in quanto figlia e in quanto più giovane del proprio carnefice. Ci convince questa visione? Quanto è verosimile sostenere che a 21 anni si sia tanto soggiogati da non poter scegliere liberamente? La domanda in generale ha senso? Non andrebbe accertato ogni caso specifico sul piano del condizionamento e del potere esercitato dal presunto carnefice? Cambieremmo idea nel caso in cui l’età del genitore - cioè il carnefice - sia così alta da far sospettare che la vittima sia proprio il genitore e non il figlio ormai adulto?
Se comunque in questo caso, e in casi analoghi, riusciamo a sospendere queste domande e a considerare la motivazione asimmetrica razionale e condivisibile, in altri l’asimmetria ci appare in tutta la sua contraddizione e pericolosità. Come nel caso, citato alla fine del pezzo, di due fratelli coetanei. Lui 16 anni, lei 15. Lui viene condannato, lei no.
Come racconta Tony Washington dopo 7 anni dall’accaduto (Unforgiven, august 31, 2010, ESPN).
Non può non tornare alla mente il caso dei fratelli tedeschi.
Un caso recente ci offre la possibilità di fare qualche riflessione, soprattutto sulle ragioni e sulle modalità della condanna morale e legale.
Molto dipende anche dalla relazione in cui l’incesto avviene: tra genitore e figlio, tra fratelli o tra gradi di parentela più laschi.
Probabilmente il primo caso è quello più esplosivo.
Pochi giorni fa David Epstein, professore alla Columbia, è stato accusato di avere da tre anni una relazione consensuale con la figlia ventiquattrenne.
Alexa Tsoulis-Reay pone una domanda cruciale: Is Incest a Two-Way Street? David Epstein is charged with having sex with his adult daughter. Isn’t she guilty, too? (december 10, 2010, Slate).
Pur essendo consenziente e maggiorenne, la ragazza non è oggetto di indagine.
Perché?
Perché è considerata a priori e necessariamente come una vittima - in quanto figlia e in quanto più giovane del proprio carnefice. Ci convince questa visione? Quanto è verosimile sostenere che a 21 anni si sia tanto soggiogati da non poter scegliere liberamente? La domanda in generale ha senso? Non andrebbe accertato ogni caso specifico sul piano del condizionamento e del potere esercitato dal presunto carnefice? Cambieremmo idea nel caso in cui l’età del genitore - cioè il carnefice - sia così alta da far sospettare che la vittima sia proprio il genitore e non il figlio ormai adulto?
Se comunque in questo caso, e in casi analoghi, riusciamo a sospendere queste domande e a considerare la motivazione asimmetrica razionale e condivisibile, in altri l’asimmetria ci appare in tutta la sua contraddizione e pericolosità. Come nel caso, citato alla fine del pezzo, di due fratelli coetanei. Lui 16 anni, lei 15. Lui viene condannato, lei no.
Come racconta Tony Washington dopo 7 anni dall’accaduto (Unforgiven, august 31, 2010, ESPN).
“Incest,” he says, looking straight ahead.Doveroso leggere l’intera storia, le modalità e le conseguenze della condanna.
He says he didn’t plan to do it. He was a teenager. Unstrung. Unsupervised. His world was at war. He was scared. Isolated. Except she was there, the two of them best friends, close as book pages. They loved each other, trusted each other. And one day that tipped into something more. Something neither one felt was wrong in the moment. “We were just sitting there, and it was like, ‘Do you want to?’” he says. There was no discussion. “We did it. And it was like, ‘OK, what’s next?’ We never talked about it after that.”
Non può non tornare alla mente il caso dei fratelli tedeschi.
venerdì 10 dicembre 2010
La decadenza della cultura cattolica
Stavo leggendo il libro di Roberto Reggi, I «fratelli» di Gesù (Bologna 2010), uscito presso un editore cattolico di un certo prestigio, le edizioni Dehoniane di Bologna, e in una collana – «Studi biblici» – che ha ospitato ancora di recente autori importanti (come per esempio Alexander Rofé, forse il più grande studioso contemporaneo della Bibbia ebraica), quando mi sono imbattuto in una nota (n. 12 p. 80), in cui l’autore traduce un passo della Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, integrandolo fra parentesi quadre con alcuni dati cronologici per renderlo più intelligibile al lettore non esperto:
L’errore è talmente monumentale da non essere neppure concepibile in chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la storia della Palestina ai tempi del Nuovo Testamento; e l’attribuiremmo perciò volentieri a un momentaneo obnubilamento dell’autore – se non fosse che lo ritroviamo ripetuto pari pari più avanti (n. 36 p. 90). A questo punto si fa strada l’agghiacciante sospetto che il Reggi pensi veramente che Pompeo fosse ancora vivo nel 63 d.C.; lo scacciamo ancora una volta, seppur a fatica, e ci diciamo che in fin dei conti l’errore non riguarda la tesi del libro, che è poi quella tradizionale cattolica dei «fratelli» di Gesù che sarebbero stati invece suoi cugini. Ma ecco che ci imbattiamo subito (a p. 87) in un’interpretazione di un passo dello storico Egesippo, questo sì fondamentale per la questione, in cui Reggi imputa ai sostenitori della tesi contraria uno svarione grossolano nella sintassi greca; svarione che però non esiste, in quanto è il Reggi stesso ad aver preso un abbaglio (per quegli autori déuteron si riferisce al pronome hon, non a epískopos!)
Non mancano altri problemi: per esempio, a p. 27 l’autore sostiene che i «cugini» erano chiamati fratelli perché il termine greco anepsiós era raro nel lessico della traduzione greca dei Settanta, che gli autori del Nuovo Testamento avevano ben presente; questa però è una falsa dicotomia, perché, anche ammesso che le cose stessero così, gli autori avrebbero potuto benissimo ricorrere a una perifrasi del tipo «figli di X fratello di Giuseppe [o di Maria]», cosa che invece non fanno mai (nell’Antico Testamento, al contrario, ogni qual volta la parola ebraica ’ah viene usata per indicare qualcosa di diverso da «fratello», il testo stesso precisa subito prima o subito dopo il grado esatto di parentela). Questa e altre fallacie invalidano la tesi del libro: i «fratelli» di Gesù erano molto probabilmente davvero suoi fratelli, o al più fratellastri; ma qui siamo almeno nel campo degli errori accettabili, mentre invece topiche clamorose come il Pompeo redivivo gettano una seria ombra sulla reputazione della casa editrice (non è una giustificazione che oggi comunemente si risparmi sulla correzione delle bozze) e su quella della Pontificia Commissione Biblica, cui secondo la quarta di copertina sarebbe stata presentata la «presente ricerca … come lavoro per la licenza e l’autore è risultato “licentiatus magna cum laude”».
Dopo il martirio di Giacomo [62] e la conquista di Gerusalemme avvenuta successivamente [Pompeo nel 63] …Giacomo è il «fratello di Gesù», martirizzato nel 62 d.C.; ma la conquista di Gerusalemme avvenuta successivamente non può essere quella di Gneo Pompeo Magno: Pompeo entrò sì nella città nel 63, ma avanti Cristo, non dopo Cristo; Eusebio stava parlando ovviamente della conquista di Tito, avvenuta nel 70 d.C.
L’errore è talmente monumentale da non essere neppure concepibile in chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la storia della Palestina ai tempi del Nuovo Testamento; e l’attribuiremmo perciò volentieri a un momentaneo obnubilamento dell’autore – se non fosse che lo ritroviamo ripetuto pari pari più avanti (n. 36 p. 90). A questo punto si fa strada l’agghiacciante sospetto che il Reggi pensi veramente che Pompeo fosse ancora vivo nel 63 d.C.; lo scacciamo ancora una volta, seppur a fatica, e ci diciamo che in fin dei conti l’errore non riguarda la tesi del libro, che è poi quella tradizionale cattolica dei «fratelli» di Gesù che sarebbero stati invece suoi cugini. Ma ecco che ci imbattiamo subito (a p. 87) in un’interpretazione di un passo dello storico Egesippo, questo sì fondamentale per la questione, in cui Reggi imputa ai sostenitori della tesi contraria uno svarione grossolano nella sintassi greca; svarione che però non esiste, in quanto è il Reggi stesso ad aver preso un abbaglio (per quegli autori déuteron si riferisce al pronome hon, non a epískopos!)
Non mancano altri problemi: per esempio, a p. 27 l’autore sostiene che i «cugini» erano chiamati fratelli perché il termine greco anepsiós era raro nel lessico della traduzione greca dei Settanta, che gli autori del Nuovo Testamento avevano ben presente; questa però è una falsa dicotomia, perché, anche ammesso che le cose stessero così, gli autori avrebbero potuto benissimo ricorrere a una perifrasi del tipo «figli di X fratello di Giuseppe [o di Maria]», cosa che invece non fanno mai (nell’Antico Testamento, al contrario, ogni qual volta la parola ebraica ’ah viene usata per indicare qualcosa di diverso da «fratello», il testo stesso precisa subito prima o subito dopo il grado esatto di parentela). Questa e altre fallacie invalidano la tesi del libro: i «fratelli» di Gesù erano molto probabilmente davvero suoi fratelli, o al più fratellastri; ma qui siamo almeno nel campo degli errori accettabili, mentre invece topiche clamorose come il Pompeo redivivo gettano una seria ombra sulla reputazione della casa editrice (non è una giustificazione che oggi comunemente si risparmi sulla correzione delle bozze) e su quella della Pontificia Commissione Biblica, cui secondo la quarta di copertina sarebbe stata presentata la «presente ricerca … come lavoro per la licenza e l’autore è risultato “licentiatus magna cum laude”».
lunedì 6 dicembre 2010
Terza via per i pink boys
La lettera di una lettrice, Sarah Hoffman, ha spinto la bioeticista Alice Dreger, che insegna alla Feinberg School of Medicine della Northwestern University, a riconsiderare le alternative disponibili ai genitori dei pink boys, i bambini maschi che mostrano tratti di comportamento generalmente ritenuti propri dell’altro sesso («Pink Boys with Puppy Dog Tails», Bioethics Forum, 6 dicembre 2010). Una lettura altamente raccomandata per chiunque abbia un figlio con tracce del disturbo della identità di genere.
Sarah identifies herself as a mother of a “pink boy” – a boy whose manner of play and dress has often tended toward what’s common in girls. Sarah was writing to me specifically in response to a piece I’d written for the Hastings Center Report called “Gender Identity Disorder in Childhood: Inconclusive Advice to Parents.” There I had outlined the two basic clinical approaches taken to children labeled as having “gender identity disorder,” and had mentioned my sympathies for and reservations about each.Sarah Hoffman ha un blog in cui parla delle proprie esperienze di madre di un pink boy.
The approach I called “therapeutic” seeks to see a child’s gender dysphoria evaporate, if at all possible. This typically involves strictly limiting the child’s access to gender-atypical activities and trying to help the child adjust to fit a social environment that (supposedly) requires gender divisions. It also often involves family therapy.
Though it would seem to promise to make a child more comfortable with his body, there’s very little data that the therapeutic approach “works.” Moreover, the proponents of it have tended to be obsessed with measuring outcomes in terms of ultimate gender identity and sexual orientation rather than ultimate well-being, which surely is what should really matter.
By contrast, the approach I called “accommodating” seeks to prepare the gender dysphoric child for a transgendered life – a life that will ultimately involve hormonal and surgical sex change. Though it seems superficially more gender progressive, the problem I have with this approach is that it may end up sending more children down a high-medical-intervention path than is really necessary to maximize well-being in the population of children who go through gender dysphoria.
“You’ve done a good job of outlining the warring factions,” Sarah told me. But, she added, “I think that there is a third, quieter point of view – the perspective that, sure, transgender kids exist, but really, most of these gender-nonconforming kids are just kids who don't fall to the most-masculine or most-feminine ends of the spectrum, and that's okay. They don't need treatment, they don't need sexual reassignment, they just need a supportive home life, schools with anti-bullying protocols, and therapy for any harassment they face for being different.” […]