L. ha otto anni e i suoi vestiti preferiti sono rosa. Sembra perfino bizzarro che sia necessario giustificare questa preferenza, visto che il rosa non è connotato intrinsecamente come tipico o esclusivo di un genere – proprio come alcuni tratti caratteriali, considerati come femminili o maschili, sono il risultato di processi storici e culturali, mutevoli e casuali. Eppure, un bambino che ama il rosa e La sirenetta suscita sorpresa, prese in giro e condanne. Per qualcuno dovrebbe essere addirittura “aggiustato” a forza di magliette blu e giocattoli da piccolo Schwarzenegger.
Chiedo a Camilla perché ha deciso di raccontare. “Da quando mi sono resa conto che non era una fase – o che, se lo era, era molto strutturata – ho sempre cercato storie come la mia. Possibile che ci sia solo lui?. L. è sempre stato così. Al nido pensavo fosse un comportamento passeggero. Fin da allora ho cercato di evitargli difficoltà, immaginavo le reazioni degli altri. Avevo parlato con le maestre. Avevo portato un vestitino perché voleva metterselo. C’era l’angolo dei travestimenti e avevo detto alle maestre di lasciare che scegliesse se e quando indossarlo. Le maestre sono state molto disponibili. Se notate qualcosa di strano, gli avevo detto, una tristezza o una malinconia, ditemelo. Hanno sempre sdrammatizzato. Io non sono preoccupata, L. è un bambino sano e allegro, ma voglio sapere se è a disagio e voglio avere gli strumenti per aiutarlo. Alla fine dell’anno, una maestra mi ha chiamato in disparte e mi ha consigliato di ‘andare da uno bravo’. Si è giustificata dicendo che alla materna sarebbe stato un inferno per L. Ero sbalordita. Mi dici una cosa del genere proprio l’ultimo giorno? Due anni di nido e aspetti l’ultimo momento per parlarmi dell’imminente inferno destinato a L.?”.
Dopo il “consiglio” della maestra di cercare uno psicoterapeuta dell’età evolutiva – perché “tuo figlio ha un problema, basta assecondarlo con le principesse e i vestitini, comincia a comprargli macchinine e trattori!” – Camilla cerca uno psicoterapeuta infantile.
“Non ha detto ‘così lo raddrizziamo’ ma il concetto era quello”.
Come il rosa, i trattori giocattolo (e pure quelli veri, a pensarci bene) non sono intrinsecamente da maschi. Come non lo sono le macchinine o le costruzioni. Qualche mese fa ho ascoltato Massimo Gandolfini, promotore del Family day, dire che ci sono dei giochi da femmina e dei giochi da maschi, tondi i primi, squadrati i secondi. Il tutto giustificato dai nostri geni. Insomma, uno stereotipo di genere giustificato da un ingenuo determinismo genetico, un ennesimo strumento per trasformare differenze occasionali in leggi di natura.
Se un adulto è convinto che ci siano colori da femmina e colori da maschi, verrebbe da dire che il problema è il suo e non di chi sceglie liberamente il colore che preferisce. Non mi ricordo questa ossessione quando ero piccola. Forse è colpa di Lady Oscar se non ho mai giocato con le bambole (gli ossessionati del gender farebbero causa alla sua autrice Riyoko Ikeda). Ma alle bambine che scelgono giochi “da maschi” o vogliono vestirsi senza il rosa va sicuramente meglio che ai bambini che vogliono fare “cose da femmina”. Anche questo è uno stereotipo di genere difficile da demolire. “Fare la femminuccia” è un insulto peggiore di “fare il maschiaccio”, no?