venerdì 9 marzo 2007

Dall’embrione alla morte cerebrale

Sul tema dello statuto dell’embrione – e più in particolare dello «statuto giuridico dell’embrione umano artificialmente formato all’esterno dell’utero materno» – è intervenuto ieri Ismael («Di embrioni ed espiantati», 8 marzo 2007):
Una tesi molto in voga presso i socialisti è quella secondo cui il diritto alla vita riguarderebbe la persona, non il semplice “individuo di specie umana”. Di solito tale linea assertiva prosegue rammentando che, una volta accertata la morte cerebrale di un paziente, è possibile espiantarne gli organi senza che ad alcuno passi per la mente di gridare all’omicidio.
Regge? Mica tanto. Il paragone è incongruo, giacché mette in predicato due termini disomogenei su almeno tre possibili piani di confronto. Quello gnoseologico: prendere atto di un avvenuto decesso – la medicina, a tal proposito, insegna che la morte cerebrale decreta la fine della vita – non equivale certo a procurare deliberatamente il trapasso di qualcuno, come l’etica conservativa ritiene avvenga con la distruzione di embrioni a scopo di ricerca.
Lasciamo perdere l’accenno incongruo ai «socialisti» (vedremo comunque più avanti quanto sia fondato in questo caso), e passiamo a esaminare le tre obiezioni.
In che senso «la morte cerebrale decreta la fine della vita»? La stranezza del predicato («decreta») è una chiara spia di forzatura e di commistione dei piani: casomai è la legge a decretare la fine della vita facendo ricorso alla morte cerebrale (in Italia la legge 578/1994, art. 1: «La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo»). Compiendo comunque uno sforzo interpretativo, se prendiamo «decreta la fine della vita» nel senso di «annuncia la fine vicina e ineluttabile della vita», ci troviamo di fronte al paradosso di dichiarare morto uno che ancora non lo è, ma che lo sarà solo tra «poco»; un «poco» che il progresso tecnico tende oltretutto a dilatare sempre di più: siamo arrivati di recente a una donna in stato di gravidanza dichiarata in morte cerebrale e tenuta in vita artificialmente per ben 25 giorni (João P. Souza et al., «The prolongation of somatic support in a pregnant woman with brain-death: a case report», Reproductive Health 3, 2006; un caso del tutto analogo si è verificato in Italia l’anno scorso), e si trovano in letteratura casi di sopravvivenza protratta per molti mesi (Alan D. Shewmon, «Chronic “brain death”: meta-analysis and conceptual consequences», Neurology 51, 1998, pp. 1538-45); addirittura, sarebbe stato osservato un paziente clinicamente in morte cerebrale sopravvissuto per anni col solo ausilio di un respiratore (ibidem)!
Se invece interpretiamo più liberamente la frase «decreta la fine della vita» nel senso di «segna la fine della vita», dovremmo chiedere a Ismael perché proprio nella morte del cervello si debba identificare la morte dell’individuo, e non nella morte di un qualsiasi altro organo; e la risposta, credo, non potrebbe che essere «perché il cervello è la sede della personalità», è cioè il supporto materiale diretto della mente: che è appunto la posizione di chi – come gli autori di Bioetica – si rifiuta di ridurre la vita personale al bruto fatto biologico.
Ismael prosegue poi con l’analisi di un altro «piano di confronto»:
Quello ontologico: per congruità di confronto, un embrione vitale andrebbe casomai paragonato a un soggetto sano, mentre è l’embrione sicuramente “defunto” per raggiunti limiti temporali di crioconservazione a corrispondere al morto cerebrale – e, quindi, a mettere a disposizione le sue masse cellulari interne similmente a organi da espiantare.
La congruità di confronto non è certo un assoluto, ma dipende in realtà da cosa si vuole dimostrare. Qual è l’argomento di chi invoca il parallelo tra morte cerebrale e vita embrionale? Un individuo morto cerebralmente è indubbiamente un essere umano, nel senso di appartenente alla specie Homo sapiens; quali che siano le convenzioni giuridiche, è altrettanto chiaramente biologicamente vivo: la stragrande maggioranza delle sue cellule è viva, il suo cuore pulsa (per quanto aiutato da una macchina), il sangue scorre, i prodotti del metabolismo si accumulano, etc. Allo stesso tempo, non è più una persona: il cervello è distrutto, e non può più sostenere la coscienza. Questo individuo si trova insomma nella medesima condizione di un embrione: un essere umano biologicamente vivo, ma privo della dimensione personale; che nel primo caso si tratti di una condizione patologica e nel secondo no è del tutto irrilevante ai nostri fini.
Si dimostra in questo modo che è del tutto concepibile una separazione tra il concetto di persona e quello di essere umano (separazione che comporta anche un diverso trattamento giuridico), e che chi sostiene il contrario ma continua ad ammettere l’espianto di organi da un essere umano clinicamente morto incorre in una gravissima contraddizione. Sostenere invece che il paragone corretto è con l’embrione defunto significa presupporre che l’embrione sano è una persona: ma questo è ciò che dobbiamo dimostrare, e non possiamo usarlo come premessa, se non vogliamo incorrere in una petizione di principio.
Quello immanente: l’individualità non arreca coercizione a una persona sana, tutt’altro, mentre per un embrione isolato in laboratorio terzietà significa automaticamente cattività.
Qui purtroppo, indubbiamente per miei limiti personali, non riesco a capire assolutamente cosa voglia dire Ismael; non posso quindi rispondere – anche se tenderei ad escludere di aver mai pensato che «l’individualità arrechi coercizione a una persona sana» (qualunque cosa significhino queste parole).
L’equivoco retorico appena descritto si gioca tutto sulla distinzione tra l’individuo e un animale mitico: la persona, vale a dire il soggetto di una rete relazionale più o meno complessa (se solo sapeste chi sto citando!). E i sistemi ideologici basati sulla persona – meglio: che subordinano l’attribuzione dei diritti essenziali alla sussistenza di relazioni a vario titolo comunitarie –, più che “liberalismi taroccati”, sono autentici socialismi.
Qui purtroppo il nostro autore sembra credere che esista una sola definizione di «persona»; ma non è così, e non è certo quella citata da Ismael la definizione prevalente tra chi ritiene che i diritti vadano assegnati alle persone e non agli esseri viventi dotati di DNA umano. Si consideri questa definizione:
Per determinare in che cosa consista l’identità personale, dobbiamo considerare cosa significhi «persona»; che è, a mio parere, un essere intelligente e pensante, dotato di ragione e riflessione, e capace di considerare se stesso come sé, la stessa cosa che pensa, in tempi e luoghi differenti.
Nell’originale:
to find wherein personal identity consists, we must consider what person stands for; – which, I think, is a thinking intelligent being, that has reason and reflection, and can consider itself as itself, the same thinking thing, in different times and places [An Essay Concerning Human Understanding II,27,9].
Se solo sapesse Ismael chi sto citando! Di certo – come si vede – non uno che sottoscriveva la concezione relazionale della persona, e neppure un socialista (anche se di questi tempi ci sono alcuni – non sto alludendo al nostro amico blogger, sia chiaro – che sembrano convinti che chiunque sia vissuto prima di Murray Rothbard o di Ayn Rand sia per ciò stesso un pericoloso comunista, e che forse, al nome dell’autore della citazione che ho riportato, reagirebbero con uno sguardo perplesso, esclamando: «ma chi, il personaggio di Lost?»).
Posto che la demarcazione tra individuo e persona rimane scientificamente indeterminata, è proprio l’assenza di una frattura netta nella sequenza continua di trasformazioni che prende il via dall’unione dei gameti in avanti a suggerire un riconoscimento conservativo del diritto alla vita. La certezza dell’oggetto – l’essere umano – genera un nucleo di diritto minimo che il progressivo sviluppo del soggetto – la “persona” nelle sue molteplici accezioni di significato – accresce mediante l’attribuzione di ulteriori dispositivi giuridici.
In etica, ma anche nella tecnica, l’approccio conservativo permette di maneggiare l’indeterminazione nel modo più ragionevole: dopotutto, se non si conosce con esattezza la resistenza limite di un materiale da costruzione, il calcolo di una struttura che ne preveda l’utilizzo viene condotto adottando valori ammissibili cautelativi, no?
Sulla consistenza logica dell’argomento dell’assenza di fratture nette ha già detto quello che c’era da dire Chiara Lalli ieri; per parte mia vorrei considerare la questione dal punto di vista empirico, e cioè: siamo proprio sicuri che lo sviluppo embrionale e fetale di un essere umano sia un processo privo di soluzione di continuità? Eppure sono tante le fasi ben distinte di questo processo, tanti gli eventi unici e ben delimitati: non è forse vero che il cuore comincia a battere in un dato istante? Ci può essere il dubbio se ci troviamo di fronte a un’increspatura del muscolo o a una contrazione vera e propria, ma certo non ci troviamo di fronte a un processo continuo... Con la coscienza la situazione non è differente: la formazione di sinapsi e l’inizio dell’attività neuronale (segnalata dall’elettroencefalogramma) iniziano verso la 24ª settimana di gestazione; che l’emersione della coscienza sia collegata a questi eventi è un’interpretazione estremamente prudenziale dell’evidenza scientifica. La visione dello sviluppo embrionale come un processo privo di sbalzi e omogeneo sembra debitrice più all’antica visione dell’homunculus, il bambino completo ma minuscolo contenuto nello sperma paterno che nell’utero materno non faceva altro che crescere di dimensioni, che ai risultati della moderna indagine scientifica.

2 commenti:

  1. 'l’emersione della coscienza' ahahahahahhhahah!!!!
    Da dove emerge la coscienza dal mare della vostra ignoranza?!
    Si dice l'emergere della coscienza!

    La peste

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  2. Ho postato (questo messaggio si autodistruggerà in 5, 4, 3... :-)

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