la sinistra ha una visione squilibrata dei diritti. Vede quello della donna, della coppia, del medico, dello scienziato e dimentica quello del feto. Non lo considera un essere umano, e quindi un fine in sé; lo considera come uno strumento, un bene di consumo, la soddisfazione di un desiderio da sacrificare ad altri fini e desideri. Certo, se la felicità, la serenità, il successo, la salute diventano gli unici fini in sé, gli unici diritti intangibili, allora l’aborto diventa una conquista di civiltà. Ma, nella nostra tradizione, la civiltà è vita, non morte. E poi con la 194 sta accadendo quello che è accaduto con la fecondazione assistita: si fa una campagna preventiva contro la Chiesa e poi si accusa la Chiesa d’essere retrograda e intollerante.Poco prima notava: «due illustri accademici, miei amici, mi hanno dato del “rinnegato”, solo perché, a loro avviso, avendo rimesso in discussione la separazione Stato-Chiesa e religione-politica, avrei tradito il liberalismo. Ma non mi hanno convinto». Il corsivo è mio...
Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano
John Stuart Mill, La libertà
martedì 31 gennaio 2006
Pera e il feto
In un’intervista sull’Indipendente di oggi («Per la sinistra il feto è un bene di consumo»), il Presidente del Senato esprime le sue opinioni sull’aborto:
Grazie, ricambio i complimenti e il link. Ho modificato le impostazioni, e adesso i commenti sono permessi a tutti.
RispondiEliminaA proposito di Pera, vi segnalo un bel libro, uscito sul finire dell'anno scorso:
RispondiEliminaMichele De Lucia, "siamo alla frutta", Milano, Kaos Edizioni, 2005.
Qui di seeguito la recensione che ne ha fatto "L'Indice" di febbraio 2006 (http://www.lindice.com/recensioni/pellini.htm)
Michele De Lucia
SIAMO ALLA FRUTTA
RITRATTO DI MARCELLO PERA
pp. 176, Ä 13 Kaos, Milano, 2005
Che si possa scrivere un bel libro su un pessimo soggetto, è abbastanza ovvio per un romanziere; meno per chi affronta l’attualità politica. Che all’ombra di un titolo urlato (il calembour, di infima qualità, va
però addebitato al personaggio: “Quando si parla di me, vuol dire che siamo alla frutta”, 1993), e che per i tipi di un editore noto per generoso engagement, meno per rigore filologico, possa nascondersi un testo documentato, sobrio, ben scritto, è sorpresa gradevolissima. A maggior ragione da noi, dove al genere biografia (storica o contemporanea: interi scaffali nelle librerie anglosassoni) stenta a esser riconosciuta dignità letteraria.
Michele De Lucia, giovane dirigente radicale, ha fatto (bene: è raro) il lavoro del giornalista d’inchiesta. Ha setacciato archivi e interrogato la memoria dei testimoni: dai nastri chilometrici della radio di partito, ai colleghi di Pera (odiatissimi “comunisti”) all’Università di Pisa, ai quotidiani su cui il professore ha riversato le sermocinanti primizie del suo pensiero (“Stampa” e “Messaggero” in primis). Che Pera fosse un voltagabbana, si sapeva: era sotto gli occhi di tutti la sua parabola, da Popper de noantri, liberal-democratico e convinto assertore della laicità dello stato (con punte di anticlericalismo), a neofita teo-con, a braccetto con Ratzinger, più integralista di Cl. Il ritratto si arricchisce: prima socialista alla corte di Craxi, poi nemico feroce della partitocrazia corrotta; giustizialista sull’onda di Mani Pulite e poche settimane dopo garantista alla scuola di Pannella; sprezzante con Berlusconi al varo di Forza Italia, pronto a imbarcarsi appena è chiaro che il partito-azienda non sarà effimero. Si potrebbe continuare.
Pera cambia continuamente idee (unica costante: un viscerale anticomunismo), non prosa: sempre aggressiva e ridondante, spocchiosa – si assaggi l’indigesta, ma esilarante, Macedonia di Pera, che chiude il volume. È convinto di predicare il vero: in questo, teo-con fin dalle origini; direi: per vocazione psico-stilistica. (Tanto più si apprezza la limpida asciuttezza del biografo). Colpiscono le sue spericolate, spettacolari evoluzioni. Anche di più, la distrazione degli avversari, incapaci di inchiodarlo, maldestro Fregoli, al ridicolo insostenibile dei suoi trasformismi (Pera si contraddice in pubblico, e per iscritto, a distanza di pochi giorni). Indigna che tanta inconsistenza intellettuale abbia potuto issarsi fino alla seconda carica dello stato – sulla statura (lillipuziana) del Pera “filosofo”, ordinario in un dipartimento prestigioso per prepotente volontà del suo maestro, Francesco Barone (nomen omen), De Lucia avrebbe potuto dire cose molto più cattive.
Soprattutto, però, il ritratto è illuminante quando delinea la posizione di Pera dentro Forza Italia: detestato nel suo collegio, il “filosofo” porta in dote solo un (dubbio) prestigio intellettuale; è creatura del capo, per i cui interessi deve lavorare: si sceglie la giustizia, di cui non sa nulla, per servire meglio; da presidente del Senato, rinuncia presto a ogni parvenza di neutralità istituzionale. Però, non è fra gli intimi di Berlusconi: non sempre ha informazioni fresche. Di qui, nuove giravolte: alle sue personali, assomma quelle del principale, in un crescendo di gaffes. Sempre sulla breccia, Pera, bisogna riconoscerlo: per bulimia mediatica, certo. Ma anche perché questo è il ruolo dell’intellettuale in epoca berlusconiana: non consigliere del principe (bastano i sondaggisti; se ne sono accorti i vari Colletti, Vertone), ma portavoce ripulito. Cioè giullare.
Eppure, il Pera figlio di manovale, impiegato di banca autodidatta, arrivista senza pudore, roso (è evidente) da un immedicabile senso d’inferiorità sociale e intellettuale, che rovescia in aggressività, può perfino restar simpatico. Personaggio quasi balzachiano: che si vorrebbe incontrare nelle pagine di un romanzo, non sugli scranni di Palazzo Madama (anche perciò il libro di De Lucia è più interessante di troppi esangui racconti contemporanei). Incapace di rinunciare a una battutaccia – memorabile il Berlusconi “cabarettista azzimato” e “venditore televisivo di stoviglie”, 1994 –, ricicla lo stereotipo del toscano linguacciuto. Ma lui, questo è il punto, solo in parte ci fa. Le sue trame sono tutte allo scoperto. Perciò, contro ogni apparenza, non è uomo di potere: scomparirà dalla ribalta, facile prevederlo, ai primi rovesci della sorte.
Altri resteranno, quale che sia l’esito delle elezioni: personaggi di cui più difficile, ma forse anche più utile, sarebbe ricostruire la biografia. Perché lasciano poche tracce scritte, legano la loro sorte non a un uomo o a un partito, ma a gruppi di potere più solidi e ramificati (leciti e no). A Pera, dunque, un briciolo di pietas: quella che merita l’attore invecchiato nella coazione a ripetere un ruolo. A De Lucia, il plauso per un lavoro impeccabile. E una domanda. A un altro uomo della ribalta, Marco, il libro è dedicato: forse maestro di coerenza ideologica (liberista e libertaria, con accentuazioni variabili), ma anche di spregiudicato pendolarismo fra i poli, d’inveterato opportunismo politico. Forse più simile a Marcello, anche psicologicamente, di quanto le cronache lascino intendere?