Mi ricordo che mia nonna diceva a proposito degli sprechi di soldi (o di quelli che percepiva come tali): ma ce l’hanno in più?
È quello che si è tentati di chiedere al dottor Herbet Benson, cardiologo e direttore del Mind/Body Medical Institute vicino a Boston, e responsabile di uno studio quantomeno singolare (Long-Awaited Medical Study Questions the Power of Prayer, New York Times, 31 marzo 2006).
Le preghiere di altri aiutano i malati di cuore? No, non è una ricerca sugli effetti dell’LSD, ma proprio sugli effetti delle orazioni sui pazienti che affrontano un intervento cardiaco.
La risposta è no. Nessun beneficio. Anzi, i pazienti che sono a conoscenza che qualcuno sta pregando per loro soffrono maggiormente di complicazioni postoperatorie rispetto a quelli cui nessuno dedica una prece, torturando un rosario tra le dita. Forse, suggeriscono i ricercatori (beh, certo, non è l’unica ipotesi esplicativa possibile), a causa delle aspettative che le preghiere alimentano, una specie di ansia da prestazione (“a kind of performance anxiety”). Un effetto placebo al contrario, più o meno.
Secondo quanto riportato dal New York Times, questo è lo studio scientificamente più rigoroso condotto finora. È iniziato oltre dieci anni fa, e ha coinvolto 1800 pazienti. E quanti soldi? Duemilioniquattrocentomila dollari, la maggior parte proveniente dalla John Templeton Foundation. (Il governo ha speso una cifra simile per la ricerca sulle preghiere dal 2000 ad oggi.) E, a proposito, ce l’aveva in più la John Templeton Foundation? E il governo?
Secondo i fautori della (sensatezza della) ricerca la preghiera è la risposta migliore alla malattia (e qui non si possono invocare i metodi automatizzati come giustificazione, purtroppo). Gli scettici la considerano uno spreco di soldi e un ammiccare a presupposti soprannaturali.
Quelli che pregano per i pazienti dal cuore debole hanno la libertà di farlo nel modo che preferiscono, con l’unica condizione di inserire la frase: “For a successful surgery with a quick, healthy recovery and no complications!!”.
Perché, in caso di omissione, non funzionerebbe la preghiera? In effetti, senza formula magica la zucca non si trasforma in lussuoso cocchio. A voi la scelta: scettici o creduloni (e magari anche beneficiari delle preghiere altrui…).
Benson ci tiene a precisare che la ricerca non può costituire l’ultima parola sugli effetti delle cosiddette preghiere di intercessione. Tuttavia ha stimolato fondamentali domande riguardo alla modalità e alla opportunità di dire ai pazienti che sono oggetto di preghiere (ma saranno davvero benevoli queste preghiere?).
Secondo gli esperti, l’ostacolo principale consiste nell’ignorare il numero di preghiere che ciascuna persona riceve, preghiere di amici, di familiari o di sconosciuti che pregano per gli ammalati e i moribondi (se non fosse lampante, un simile ragionamento ammette tra le premesse indubitabili l’efficacia delle preghiere, il cui numero, ovviamente, incide sul loro effetto: ma non era quello che si voleva ‘ricercare’?).
Bob Barth, direttore spirituale del Silent Unity, ha dichiarato: “A person of faith would say that this study is interesting, but we’ve been praying a long time and we’ve seen prayer work, we know it works, and the research on prayer and spirituality is just getting starter”.
Mr. Marek, che lavora in un centro medico simile alla Mayo Clinic a Rochester, ha confermato: “You hear tons of stories about the power of prayer, and I don’t doubt them”.
Anche Mr. Marek è cappellano? Non che serva come giustificazione di ragionamenti inconcludenti, ma psicologicamente sarebbe più comprensibile.
(Man Ray, La Priére, 1930)
E' bello vedere come si debbano spendere miliardi e miliardi per confermare scientificamente quel che ogni bambino di 11 anni dotato di razionalità ha già intuito...
RispondiEliminaIn ogni caso, credo che sia meglio spendere molto e informare, in questa epoca di neo-creduloni isterici, piuttosto che risparmiare e ritrovarsi prima o poi con qualche superstizioso che impone strani riti...