La riflessione di Alessandra Di Pietro e Paola Tavella sulle biotecnologie nasce, secondo il racconto delle due autrici, in cucina facendo yoga kundalini (per chi non dovesse sapere cosa sia, c’è una immagine a p. 169): “sedute a terra con le gambe incrociate, per ventuno minuti guardavamo un’arancia tenuta fra le mani a coppa e ascoltavamo un mantra che si chiama Adi Shakti, lode e evocazione dell’energia creativa femminile” (p. 4). Il referendum sulla legge 40 è imminente. Il concetto più rilevante e più significativo è costituito dall’equiparazione tra l’embrione (chiamato concepito) e tutte le altre persone coinvolte. Accettare questa identificazione implica molte conseguenze filosofiche e giuridiche. Secondo Di Pietro e Tavella definire l’embrione come un soggetto giuridico non mette in discussione né in pericolo la legge 194, ovvero la possibilità di ricorrere legalmente all’interruzione volontaria di gravidanza. A conferma della loro idea, ci rassicurano che in caso contrario scenderebbero in piazza insieme a milioni di donne; è senza dubbio apprezzabile il proposito, ma non è assolutamente sufficiente a garantire la protezione della 194. L’unica protezione della possibilità di abortire, affermando la personalità dell’embrione, è offerta dal celebre argomento di Judith Jarvis Thomson, che Di Pietro e Tavella trascurano. È un argomento concessivo, che propone diverse analogie per negare che l’implicazione dell’attribuzione di diritti all’embrione sia la distruzione della possibilità di scelta da parte della donna. Per affermare la coesistenza del conferimento di diritti all’embrione e della possibilità di interrompere il suo sviluppo (abortendo), dunque, non basta ‘scendere in piazza’. Ma c’è di più: se la maggior parte dei divieti espressi dalla legge 40 deriva da tale attribuzione (primo tra tutti, il divieto di crioconservare gli embrioni, e poi il divieto di sperimentazione embrionale e di eseguire la diagnosi genetica di preimpianto, divieto motivato dall’intento ‘eugenetico’ della diagnosi genetica di preimpianto), allora bisognerebbe impedire tout court il ricorso alle tecniche di procreazione assistita, perché molti di quei tre embrioni che la legge 40 permette di produrre vanno incontro a morte sicura. Per mancato impianto o per aborto spontaneo. Se la personalità dell’embrione fosse presa sul serio, si dovrebbe cercare di impedire in ogni modo la sua morte (come si fa con le persone): cercare rimedio agli aborti spontanei, anche naturali, ma soprattutto non produrre in laboratorio quei tre embrioni (che sono persone) il cui destino è con elevata probabilità la distruzione.
Tornando alla legge 40, Di Pietro e Tavella descrivono le tecniche di riproduzione assistita come “una galleria di orrori, […] storie di donne che subiscono ogni sorta di tortura pur di avere figli” (pp. 6-7). Avvertono il pericolo di non riconoscere il nemico patriarcale insito nella separazione tra riproduzione e corpo femminile (p. 7), ricordano la definizione delle biotecnologie come olocausto per le donne (p. 8), denunciano la congiura maschile volta a prendere il controllo della riproduzione riducendo il corpo femminile a ‘carne da riproduzione’ (p. 8). Esprimono il proprio sospetto verso la legge 40 in nome dell’inimicizia per le leggi sul corpo delle donne: ma viene da domandare a Di Pietro e Tavella, esiste forse una legge che invade tanto il corpo delle donne quanto la legge sulla procreazione medicalmente assistita?
Per leggere la recensione completa: Bollettino Telematico di Filosofia Politica.
(Giovanni Segantini, Le cattive madri, 1894 Vienna Kunsthistorisches Museum)
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