giovedì 17 agosto 2006

Come limitare la pandemia dell’Aids, senza vaccino

I tentativi di arrestare o comunque limitare l’espansione della pandemia di Aids si sono finora rivelati deludenti: il vaccino rimane ancora un obiettivo lontano, le misure di prevenzione vengono seguite in genere solo parzialmente, e i farmaci antiretrovirali non riescono ad eradicare l’infezione. Ma in ogni caso questi ultimi sono oggi più facilmente tollerati, più efficaci e più semplici da somministrare, il che ne permette oramai l’uso anche nei contesti più svantaggiati dei paesi del Terzo Mondo, dove si è constatata inoltre una aderenza soddisfacente e in parte inaspettata ai protocolli di somministrazione.
È proprio da queste premesse che parte una proposta ardita e innovatrice per porre un freno efficace alla pandemia, che Julio Montaner (presidente della International AIDS Society) e altri propongono su uno degli ultimi numeri di LancetThe case for expanding access to highly active antiretroviral therapy to curb the growth of the HIV epidemic», Lancet 368, 2006, pp. 531-36). Si sa da tempo che l’uso degli antiretrovirali abbassa a livelli impercettibili la presenza del virus non solo nel sangue, ma anche nel tratto vaginale e nel seme; e diversi studi concordano nell’indicare che al di sotto di una certa concentrazione l’infezione non si trasmette (o si trasmette con estrema difficoltà) da un partner sieropositivo a uno sieronegativo. Le implicazioni sarebbero ovvie, ma a fare da freno è stata finora la preoccupazione che un’espansione dell’uso dei farmaci potesse ingenerare un falso senso di sicurezza e quindi un aumento dei comportamenti a rischio, capace di annullare il vantaggio della terapia. Ora però nuovi studi rivelano che la preoccupazione era eccessiva: a Taiwan e nella British Columbia canadese la diffusione dei trattamenti antiretrovirali è coincisa sì con una stasi o un aumento dei casi di sifilide – indice di un calo della prudenza nei comportamenti sessuali – ma il numero dei nuovi casi di infezione da HIV è diminuito del 50%. Del resto l’incidenza della malattia (cioè i tassi annui di nuove infezioni) è minima proprio nei paesi in cui i trattamenti medici sono più diffusi – anche se gli autori dell’articolo sono ben consapevoli della natura ambigua dell’evidenza statistica.
Naturalmente, i costi per estendere le terapie a tutti coloro che nel mondo ne hanno bisogno sarebbero stratosferici; ma – e veniamo così al cuore della proposta di Montaner e colleghi – sarebbero col tempo più che compensati dai mancati costi dovuti alla diminuzione delle nuove infezioni, se venisse trattato il 100% dei sieropositivi, e tutto in una volta. Il costo stimato del programma sarebbe di 338 miliardi di dollari in 45 anni, passati i quali la prevalenza della malattia (cioè il tasso totale di persone infette) passerebbe dall’attuale 7 per mille a 0-1 per mille.

I problemi non mancano, ovviamente, a partire da quello di identificare e avviare al trattamento tutti i sieropositivi; svariate obiezioni – accompagnate dalle risposte di Montaner – sono raccolte da Jessica Werb, «How to wipe out AIDS in 45 years», Macleans.ca, 7 agosto). Ma la proposta merita indubbiamente seria considerazione; se il programma venisse finanziato generosamente costituirebbe fra l’altro, credo, un eccellente biglietto da visita per l’Occidente. Non si può proprio dire che non ne abbiamo bisogno...

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