Sul New York Times un lungo articolo di Amy Harmon («Seeking Healthy Children, Couples Cull Embryos», 3 settembre 2006) esplora il tema della progressiva estensione della diagnosi genetica di preimpianto, che ormai riguarda spesso anche le predisposizioni a certe malattie, in particolare il cancro al colon e al seno. Chi eredita i geni responsabili ha solo una probabilità (per quanto in genere elevata) di sviluppare la malattia – malattia che spesso può essere curata o prevenuta, benché ciò spesso comporti dolorose mutilazioni. La Harmon si sofferma sui dilemmi morali delle coppie, e sulle difficoltà non solo materiali (la procedura ha una percentuale di riuscita ancora bassa, ed è fisicamente impegnativa ed estremamente costosa) che devono affrontare: spesso il loro ambiente familiare e sociale reagisce con ostilità alla prospettiva. Credo che queste storie testimonino della scarsità di voci autenticamente laiche nel dibattito bioetico in Occidente, in cui troppo spesso si lascia agli integralisti una sorta di monopolio della morale.
Alcuni problemi, comunque, sono autentici: la pratica è sostanzialmente deregolata negli Usa, ma le assicurazioni non coprono in genere le spese della diagnosi della predisposizone al cancro. È reale quindi il rischio di avviarsi verso una società in cui i ricchi – e solo loro – diventino progressivamente privi di malattie genetiche. Un’ineguaglianza profonda, che potrebbe diventare drammatica nel caso si passasse un giorno con altre tecniche al miglioramento genetico.
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