sabato 23 settembre 2006

Eugenia Roccella parla di Piergiorgio Welby

Sul Giornale di oggi Eugenia Roccella cerca di rispondere alla lettera drammatica e commovente che Piergiorgio Welby ha indirizzato al Presidente della Repubblica («Ma la morte non può essere una scelta», 23 settembre 2006, p. 17).
Confesso di essere un po’ riluttante a proporre argomentazioni logiche in un caso così tragico, dove commozione o silenzio sembrerebbero senza paragone più adeguati; ma il dibattito è necessario, e non ci si può tirare indietro.
È difficile parlare astrattamente di vita di fronte a un caso personale, di fronte al dolore vero di una persona vera, che chiede di finirla. Eppure incontrando un uomo che sta per suicidarsi buttandosi da un ponte, qualunque passante interverrebbe; cercherebbe di impedirglielo anche con la forza, e si sentirebbe in colpa se non lo facesse. Un aspirante suicida ha certamente ragioni gravissime e disperate per voler morire, e queste ragioni il passante non può nemmeno conoscerle e valutarle: il gesto di impedire la morte è istintivo, cieco e pregiudiziale. Perché, allora, di fronte a chi chiede di staccare la spina ci sentiamo diversamente disposti, rispetto a chi sta per spararsi un colpo di pistola alla tempia? Perché ci sembra che il sentimento di fratellanza, il rispetto per la comune qualità umana, ci debba portare ad aiutarlo ad andarsene piuttosto che a restare? Perché dare la morte con un atto medico ci sembra differente che dare una spinta all’uomo che sta per scavalcare di sua volontà la balaustra di un ponte?
Il motivo è appunto nel fatto che non possiamo conoscere e valutare le ragioni dell’uomo sulla balaustra; forse gravissime e disperate, ma forse invece passeggere e risolvibili: una depressione mal curata, una delusione d’amore. Prudenzialmente optiamo per impedire quel gesto irreparabile, ben sapendo che se le ragioni sono serie la disperazione, alla fine, avrà l’ultima parola. Ma nel caso di chi chiede l’eutanasia sappiamo tutto, e tutto possiamo valutare.
Eliminare dall’esistenza il male, il dolore, è impossibile. Nessun essere umano vuole l’infelicità, ma ogni volta che gli uomini hanno tentato di organizzare un mondo senza ingiustizie e senza imperfezioni, seguendo i grandi progetti utopici, hanno prodotto orribili distopie realizzate, società più crudeli e più ingiuste. Il male non si può cancellare, si può soltanto tentare di lenirlo, ripararlo, ed è questo il compito di chi sta vicino a una persona sofferente. Non c’è bisogno di credere in Dio per pensare questo, basta credere negli uomini.
Cancellare il dolore dal mondo è cosa ben diversa che cancellare un dolore ormai intollerabile da una singola esistenza. Pensare che un atto di pietà e di rispetto come questo possa produrre «orribili distopie», «società più crudeli e più ingiuste», significa veramente non credere negli uomini.
Introdurre nella nostra legislazione la morte assistita vuol dire creare una cultura dell’abbandono, della deresponsabilizzazione, in cui la sofferenza è affare privato che si deve affidare esclusivamente ai medici. Welby parla di «morte opportuna», ma chi deciderà, al di là del suo caso, quando la morte è opportuna? Se la morte è opportuna per lui che è perfettamente cosciente e ritiene la propria una vita senza qualità perché il suo corpo è martoriato dalla malattia, lo sarà a maggior ragione per chi ha una vita di minore «qualità»: chi non è cosciente, chi non ha mai goduto del vento tra i capelli o di una passeggiata notturna con un amico. L’idea di libera scelta è fragilissima, ambigua e oscillante, soggetta a mille interpretazioni. Anche Terri Schiavo, secondo i giudici americani, è morta per sua libera scelta, avendo espresso una volta davanti al marito il desiderio di non continuare a vivere se fosse rimasta in coma. Quanti, una volta messi di fronte alla concreta realtà della propria morte, cambiano idea e magari non sono più in grado di comunicarlo, e quanti, all’opposto, scelgono di morire solo perché depressi, bisognosi, privi del calore degli affetti?
Anche negare l’eutanasia, e volgersi dall’altra parte facendo finta di non vedere, può voler dire «creare una cultura dell’abbandono, della deresponsabilizzazione, in cui la sofferenza è affare privato che si deve affidare esclusivamente ai medici». Quanto a chi debba decidere se la nostra morte è opportuna, nessuno può farlo meglio di noi stessi: l’eutanasia non dipende certo dalla valutazione che un estraneo dà alla «qualità» della nostra vita, ma dalla nostra scelta cosciente. Il compito degli altri – dei medici, dei legislatori, dei tutori – è solo quello di appurare che la nostra scelta sia effettivamente libera, e non condizionata dall’ambiente familiare, dalla depressione, dalla solitudine. Pensare la libertà sempre come «fragilissima, ambigua e oscillante, soggetta a mille interpretazioni» equivale a negarla sempre. La stessa Roccella sembra consentire che la scelta di Welby sia in qualche modo giustificata, e questo dovrebbe dimostrare che distinguere è possibile, e che non è necessario invocare sempre l’eterno «piano scivoloso». Quanto al caso Schiavo e al testamento biologico, si tratta di un problema ben distinto, che non andrebbe confuso con quello di cui oggi si discute.
Di fronte a un caso personale si può rispondere, in realtà, solo sul piano personale: anch’io, come quasi tutti, ho avuto vicino il dolore, la morte, la disabilità grave, persone care precipitate nell’incoscienza del coma. Condividere il dolore degli altri è pesante, sarebbe più facile toglierlo dalla scena, ma attraversare e farsi carico della sofferenza propria e altrui dà qualità alla nostra vita, in modo diverso dalla felicità di sentire il vento tra i capelli; ma non in misura inferiore.
Il caso personale della Roccella mi sembra – e lo dico senza ironia – ben differente da quello di Welby. Farsi carico della sofferenza altrui sarà certo un’esperienza che arricchisce, ma sarebbe il caso di chiedersi prima cosa rappresenta quel dolore per chi lo prova in prima persona.

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