giovedì 28 settembre 2006

Si parla d’altro, non di Welby

Nelle dichiarazioni e negli articoli sul caso di Piergiorgio Welby si intravvede oramai una costante: vi si parla di ogni cosa, tranne che del problema posto da Welby. Come nota JimMomoChi è il “padrone” della vita?», 28 settembre 2006), anche nella puntata di Otto e mezzo di ieri il tema è stato solo sfiorato (nonostante qualche flebile tentativo di Ritanna Armeni di riportarlo al centro della discussione). Più o meno consapevolmente, si fa di continuo confusione con questioni del tutto differenti: è del resto evidente il tentativo dei politici della maggioranza di evitare un argomento scabroso, che causerebbe problemi al costituendo Partito Democratico (che – a quanto pare – senza la quinta colonna ruiniana dei Bobba e delle Binetti non potrebbe reggersi in piedi...).

Cerchiamo allora di ripetere qualche ovvia distinzione:
  1. Ciò che chiede Piergiorgio Welby non è semplicemente l’interruzione dei trattamenti sanitari: come già notava oggi Malvino («A Mirko», 28 settembre), nel suo caso questo significherebbe spegnere il respiratore artificiale, e lasciarlo morire orribilmente per asfissia. Ciò non comporta necessariamente il ricorso al suicidio assistito o all’eutanasia attiva: è possibile che una sedazione profonda possa consentire di sospendere la ventilazione artificiale (non è chiaro se ciò sarebbe possibile anche da un punto di vista giuridico, benché l’evoluzione del diritto sembri andare in questa direzione). Ma ci sono comunque casi, per il resto analoghi a quello di Welby, in cui non sarebbe presente un sostegno vitale da sospendere, e che richiederebbero allora un intervento attivo. Impedirlo significherebbe creare oggettivamente una discriminazione tra malati.
  2. Il caso di Welby non rientra propriamente nella categoria dell’accanimento terapeutico. È vero che noi lo descriveremmo così, e che lo stesso Welby parla a buon diritto di un «testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche»; ma nel linguaggio medico per «accanimento terapeutico» si intende il prolungamento inutile dell’agonia di un malato, e questo non è certamente il caso di Welby.
  3. Neppure hanno nulla a che vedere col caso presente le cosiddette cure palliative, che consistono nel placare dolori invincibili con analgesici e anestetici: non è il dolore fisico ciò a cui Welby vuole porre fine, ma piuttosto la sofferenza che deriva dalla perdita dell’autonomia e della dignità; e per questa sofferenza non esiste purtroppo terapia.
  4. Si è parlato spesso, nei commenti al caso Welby, del testamento biologico, a proposito del quale si è incentrato il dibattito politico negli ultimi tempi: ma col testamento biologico si fissano delle direttive anticipate in cui si accettano o si rifiutano trattamenti medici, per l’eventualità che non si sia più in grado in futuro di esprimere la propria volontà, mentre Piergiorgio Welby è evidentemente in pieno possesso delle proprie facoltà mentali.
  5. L’argomento più indelicato, anzi insultante, che si è sentito in questi giorni, è infine quello di chi sostiene che l’appello di Welby sarebbe in realtà il grido d’aiuto di un malato che soffre di solitudine e abbandono; si ignora così – o si finge di ignorare – quello che le cronache hanno raccontato più volte, e cioè che Welby è circondato dall’affetto della propria famiglia e dei propri amici. Uguale insensibilità dimostra chi si improvvisa psichiatra e si avventura in diagnosi a distanza, attribuendo la richiesta di morire a una depressione non curata («Buttiglione: chi chiede la morte è depresso, non va abbandonato», Il Messaggero, 25 settembre, p. 5).
Quando si chiede di riportare il dibattito alla questione specifica posta da Piergiorgio Welby, si riceve spesso la risposta che la politica non può occuparsi dei casi personali o eccezionali. Ma anche se fosse così, il caso di Welby non è purtroppo isolato. Speriamo che i nostri politici abbiano infine più compassione per i malati che timore di alienarsi le simpatie d’Oltretevere.

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