Già il titolo dell’articolo è un colpo allo stomaco: «Lasciateci uccidere i bambini disabili».Eugenia Roccella si riferisce all’articolo pubblicato sul Sunday Times di domenica scorsa, Doctors: let us kill disabled babies. Leggendo le prime righe del citato articolo il colpo inferto allo stomaco (delicato) di Roccella dovrebbe perdere un po’ di accelerazione e mutare in contatto indolore (forse non basterebbe, a pensarci bene): to consider permitting the euthanasia of seriously disabled newborn babies.
Insomma, non si parla di eutanasia per i bambini nati con un viso poco simpatico, no; ma di bambini gravemente handicappati, destinati a una sopravvivenza di sofferenza e priva di speranza, seppure sottile e flebile.
Come commenta Joy Delhanty, professore di genetica umana all’University College London: “I would support these views. I think it is morally wrong to strive to keep alive babies that are then going to suffer many months or years of very ill health.” Per questo si parla di mercy killing e riguarderebbe soltanto bambini, lo ripeto, gravemente malati (gravi forme di spina bifida o di epidermolisi bollosa). Conoscere i sintomi e le condizioni di vita determinate da tali gravi patologie potrebbe essere utile al dibattito.
Poi Roccella se la prende con John Harris:
L’argomentazione più agghiacciante a sostegno del la adopera John Harris, docente di bioetica (ma possiamo ancora chiamarla così?) alla Manchester University. Poiché in Inghilterra l’eutanasia non è legale, ma l’aborto negli ultimi mesi di gravidanza sì, il professore si chiede cosa mai accada di straordinario nel momento del passaggio dall’interno all’esterno del grembo materno: il bimbo è sempre quello, perfettamente formato, dunque se lo si può uccidere prima, lo si può fare anche dopo. Su quanto tempo dopo, Harris non si pronuncia. Ma è evidente che con simili criteri la barriera potrebbe essere spostata in modo illimitato.Il fatto è che la nascita o il luogo (dentro all’utero – fuori dell’utero) non costituiscono passaggi moralmente rilevanti. Sappiamo bene che fino a qualche decennio fa i neonati prematuri morivano a x settimane, e che oggi questo tempo si è spostato. Oppure, che un neonato che nasce con qualche difficoltà ha possibilità diverse di sopravvivenza o guarigione se nasce in un Paese piuttosto che in un altro, o in ospedale piuttosto che in un altro.
All’interno di un quadro etico così concepito, la vita non è che un valore incerto, totalmente affidato alle opinioni, e basta estendere il parametro adottato per concludere che un essere umano, in particolare se disabile, possa essere eliminato in qualunque momento. Perché no? Come afferma il professor Harris, perché un momento prima si può e il momento successivo non più?
Non è l’essere fuori dal grembo a rendere il neonato diverso da qual era un minuto prima del parto. E così su una linea continua devono essere tracciate le differenze in base ad altri criteri. Roccella ironizza sul criterio del risolvere equazioni algebriche (qualche incertezza con la matematica?). Ma potrebbe, invece, provare a rispondere alla domanda: “perché un momento prima si può e il momento successivo non più?”. Senza barare, senza cavarsela dicendo: non si può mai, amen.
Coraggio: stiamo entrando nel terrorizzante universo descritto in un vecchio racconto fantascientifico di Philip Dick, Le pre-persone, in cui l’autore immaginava una società in cui i bambini erano considerati pienamente persone solo quando in grado di risolvere un’equazione algebrica. Solo allora entravano nel cerchio privilegiato di coloro la cui esistenza ha valore sociale.
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