Quasi tre mesi sono trascorsi da quando Piergiorgio Welby ha chiesto apertamente di essere lasciato morire, rinunciando alla ventilazione artificiale che lo teneva in vita dal 1997 e solo ieri notte (scrivo nella serata di giovedì 21 dicembre) è riuscito ad ottenerlo. Sono stati davvero lunghi e angosciosi per tutti: per Welby, per i suoi cari, per i suoi amici e per il pubblico che ha seguito la sua vicenda. Tra coloro che non lo conoscevano e non avevano legami con lui, io sono stato profondamente toccato dalla sua storia e dalla sua battaglia e mi sembra di qualche interesse spiegare perché.
Il mio mestiere di neurologo, da molti anni quotidianamente a contatto con malati affetti da patologie degenerative croniche del sistema nervoso, mi ha messo non di rado di fronte a casi come il suo e ha fatto nascere in me già dal finire degli anni ’80 il bisogno di capire gli aspetti etici della cura di questi pazienti e la consapevolezza di dovermi comportare nei loro riguardi nel modo più consono alla loro condizione e alla loro concezione di vita.
La lunga riflessione su questi temi e lo sforzo di agire nel modo più appropriato mi ha fatto sembrare assurdi e cacofonici molti pareri che anche persone autorevoli hanno espresso sul caso. Termini come eutanasia, accanimento terapeutico, cure palliative e testamento biologico sono stati impiegati per lo più a sproposito. Tutto sommato, malgrado la loro inconcludenza, le pronunce della magistratura sono state più pertinenti, in quanto hanno almeno riconosciuto il punto fondamentale, cioè il diritto di Welby (e di qualsiasi cittadino) di rinunciare a qualsiasi trattamento sanitario (anche se salvavita).
C’è voluto il coraggio di un uomo di buona volontà, Mario Riccio, per dare a Welby la sola risposta che egli si attendeva e che gli era dovuta. Certo il clamore destato dalla sua decisione di affrontare apertamente e di gettare nella pubblica arena il suo caso ha reso il compito dei medici molto difficile. Sapendo di esporsi al rischio di incriminazione per omicidio e al pubblico ludibrio di una parte almeno degli organi di stampa e dell’opinione pubblica, coloro che in passato si erano trovati di fronte a casi analoghi, a partire da me stesso, non se la sono sentiti di offrirsi di aiutarlo. Lo ha fatto un anestesista-rianimatore che possedeva le conoscenze e l’esperienza per praticare la doverosa sedazione terminale. Mario Riccio ha sentito così fortemente il dovere di aiutare un malato in grave difficoltà da proporsi a lui (attraverso l’Associazione di cui Welby era presidente) per puro spirito di servizio, lasciando da parte tutte le considerazioni e le paure che hanno frenato gli altri medici che pur condividevano le sue idee. La purezza delle sue motivazioni è così evidente che tutte le persone ragionevoli sperano che la magistratura non decida di incriminarlo.
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