Marco Cappato e il dottor Riccio hanno ripetuto che è stato fatto tutto nella legalità. Il dottor Riccio ha spiegato che decisioni di questo tipo vengono prese quotidianamente negli ospedali. Bene: e allora perché Welby ha scritto al Presidente della Repubblica, addirittura? Perché aspettare 88 giorni dalla sua richiesta di sospensione dei trattamenti, mettere in mezzo tribunali, giudici, politici, per fare una cosa che si fa tutti i giorni in ospedale? Se Welby si sentiva torturato, e nella totale legalità si poteva sospendere il trattamento senza soffrire, facendo qualcosa che si fa ogni giorno in ospedale, perché aspettare tutto questo tempo?Uno si chiede dove ha vissuto in questi ultimi giorni la Morresi. È vero o no che il dottor Giuseppe Casale si è rifiutato di sedare Welby e di staccare contestualmente il respiratore, affermando che «ognuno è libero di non accettare il trattamento sanitario, ma questo va fatto con le modalità stabilite dal medico»? È vero o no che il Tribunale Civile di Roma ha risposto agli avvocati di Welby che non era possibile rendere esecutivo ciò che pure riconosceva essere un diritto costituzionalmente garantito del paziente? È vero o no che il Ministro della Sanità ha chiamato pretestuosamente in causa il concetto di «accanimento terapeutico», che non riguardava affatto questa vicenda? È vero o no che membri del Parlamento, che si suppone conoscano la Costituzione della Repubblica, latrano in queste ore invocando l’arresto del medico che ha assistito Welby, o comunque affermano senza l’ombra di un dubbio che staccare la spina è omicidio?
Se si fa tutti i giorni in ospedale allora vuol dire che i medici non rischiano la galera. Non c’era nessun diritto da far valere, o no? «Un passo avanti nella certezza del diritto». Verso dove? Chiede Il Foglio.
Le cose sono due: o quello che è stato fatto a Welby è perfettamente legale, e allora non c’è vuoto legislativo, si fa tutti i giorni in ospedale, e tutta questa faccenda è stata costruita sul nulla. Oppure Welby ha fatto qualcosa che la legge non permette, ma allora si parli apertamente di eutanasia.
La verità è che fra legalità e illegalità si apre, in questo disgraziato paese, un golfo ampio di incertezza e di confusione (a volte artatamente alimentate, a volte genuine), in cui è possibilissimo fare in ospedale ogni giorno ciò che è stato fatto a Welby, purché non si dica ad alta voce – secondo ciò che del resto viene apertamente teorizzato proprio su quel Foglio che tanto piace alla Morresi; perché secondo alcuni non ci devono essere diritti (e se ci sono andranno tenuti accuratamente nascosti), ma solo concessioni di un potere sovrano, e l’ossequio formale che a questo si rivolge può poi trovare l’opportuna valvola di sfogo nel disprezzo sostanziale delle regole. E se qualche disgraziato non trova il medico compiacente a disposizione, beh, peggio per lui.
Sarà grande merito di Welby e dei suoi amici, se tutto andrà come deve andare, aver fatto esplodere questa contraddizione, e rivelato ai cittadini ciò che è un loro diritto, e che potranno da domani pretendere alla luce del sole.
Certo, non tutto è stato lineare in questa battaglia politica. La richiesta iniziale di Welby era stata effettivamente per l’eutanasia attiva (l’iniezione letale), e solo più avanti, raccogliendo anche le opinioni esterne, ci si è risolti a chiedere la sospensione del trattamento terapeutico. A volte le richieste sono sembrate confondersi; si ammetterà, del resto, che se giuridicamente le due cose sono ben distinte, da un punto di vista morale puzza un po’ di casuismo questo annettere importanza decisiva alla quantità di anestetico presente della siringa che ha addormentato Welby, e alla distinzione sottile tra atti e omissioni che hanno, alla fine, il medesimo esito. La chiarezza resta in ogni caso un valore essenziale, e bisognerà ricordarlo nelle battaglie future; ma ciò non toglie minimamente valore, ne sono certo, alla lotta conclusa e al sacrificio di Piergiorgio Welby.
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