Le parole di Welby andavano ascoltate, ma non mi piace il risvolto politico e ideologico che ha preso questa vicenda personale. Quello che prevale in me è un sentimento di umana pietà.E dopo averle ascoltate, gentile signora, che cosa si sarebbe dovuto fare? Girarsi dall’altra parte e proseguire la propria vita? Magari lesinando un po’ di pietà, quella non si nega a nessuno. Ci risiamo: pietà (pietismo), e poi l’immobilità di un silenzio codino. “Ho pietà di te, questo ti basta?”. D’altra parte cosa si pretenderebbe, un diritto? Un rispetto? Suvvia. Che ti basti la pietà, Welby, accontentati.
E ancora:
Il confine tra eutanasia e accanimento terapeutico può esser labile, ma invece è forte. Abbiamo bisogno di una legge che consenta a ciascuno di dichiarare anticipatamente la propria volontà di non essere più curato quando non sussiste alcuna possibilità di recupero.Sul confine forte non vi è dubbio. Ma è il confine che esiste tra accanimento terapeutico e terapia, e chiamasi libertà individuale: è il paziente (la persona, il cittadino) a stabilire se un determinato trattamento è una terapia adeguata o eccessiva.
Quanto al muro che ci sarebbe tra eutanasia e accanimento terapeutico, di grazia, da dove origina tale sicurezza? E perché non tentare qualche dimostrazione di quanto si sostiene?
Vanno benissimo, poi, le direttive anticipate, che siano benvenute. Ma mi sfugge qualcosa, lo sento. E credo sia un atroce dubbio temporale. Se posso dichiarare anticipatamente la mia volontà (dichiaro oggi: non voglio il trattamento x domani), posso anche dichiarare attualmente la mia volontà (dichiaro oggi: non voglio il trattamento x oggi)? Se concordiamo nel rispondere “sì”, allora tenetevi la vostra pietà. A Welby bastava la risposta affermativa alla domanda suddetta.
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