Gentile Signor Marangoni,Eppure, persino nella tradizione cattolica, il matrimonio tra due persone sterili non è nullo o annullabile. Il canone 1084 del Codice di Diritto Canonico, al comma 3, recita testualmente: «La sterilità né proibisce né dirime il matrimonio, fermo restando il disposto del can. 1098» (il can. 1098 si limita ad affermare che il matrimonio è nullo se la sterilità è stata tenuta nascosta al futuro coniuge). Spero vivamente che il signor Marangoni replichi al professor D’Agostino, chiedendogli in che senso un matrimonio in cui almeno uno dei due contraenti sia sterile risulti «aperto alla generatività» – in particolare, se i due coniugi sono anziani, e la loro convivenza possa quindi divenire generativa solo in seguito a un miracolo assai più straordinario di quello necessario a risolvere una totale impotentia coeundi (che invece, per lo stesso can. 1084, rende nullo il matrimonio). Sarebbe davvero interessante vedere cosa risponderebbe D’Agostino, questa volta...
lei, con molta lucidità, focalizza quello che, da un punto di vista giuridico (lasciamo qui da parte la prospettiva etica e quella religiosa) è il punto centrale della questione del matrimonio tra omosessuali: esistono ragioni sociali che giustifichino un rilievo pubblico per queste unioni? Lei è convinto che basti «l’impegno di aiutarsi e sostenersi scambievolmente in base alle proprie possibilità». Tradizionalmente, in tutte le società e in tutte le epoche, questo tipo di impegno, ancorché lodevole, è sempre stato ritenuto di carattere privato; per acquisire rilievo pubblico (e divenire impegno matrimoniale) si è sempre pensato che esso dovesse includere l’apertura generazionale (e questo spiega perché un matrimonio non consumato – in quanto non aperto di principio alla generatività – sia sempre stato ritenuto giuridicamente fragile, cioè nullo, annullabile o comunque divorziabile).
Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano
John Stuart Mill, La libertà
sabato 13 gennaio 2007
Francesco D’Agostino e le «convivenze non generative»
Un lettore coraggioso ha mandato una lettera ad Avvenire, in cui sostiene il diritto degli omosessuali a vedersi riconosciuto un istituto giuridico affine al matrimonio. La lettera è stata pubblicata sul numero del quotidiano ieri in edicola, accompagnata da una risposta di Francesco D’Agostino, che così esordisce:
La parte più divertente è questa:
RispondiElimina"Sono convinto che attraverso la richiesta di veder legalmente riconoscere le loro unioni come matrimonio o come pacs gli omosessuali (o almeno alcuni di loro) vedano un efficace riscatto da tante violenze e da tante umiliazioni, a volte davvero efferate, da essi subite nella storia. Non arriveremo mai, però, a dare una giusta risposta a tali violenze ed umiliazioni, se non saremo in grado di riconoscere che la differenza tra unioni omosessuali e unione eterosessuali è strutturale e che ogni pretesa di assimilarle va contro la verità delle cose. Di qui deve partire (ed anzi è già da tempo partito) un nuovo lungo discorso antropologico, che non possiamo più eludere e che purtroppo viene da parte di molti portato avanti in modo estremamente confuso."
In altre parole non potremo mai riscattere le umiliazioni senza smettere di umiliarli considerandoli "strutturalmente inferiori" per un criterio di "verità" assolutamente autoreferenziale.
Rido?
Piango?
Mi incacchio come una iena?
Non lo so nemmeno io.