martedì 13 febbraio 2007

Dio è (in) un cono gelato

Un incauto lettore pone una domanda e la indirizza a “Zenit”. Carlo Valerio Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena, risponde (La “grammatica morale” alla base della Bioetica, 11 febbraio 2007).
Fossi il lettore incauto avrei le idee ancora più confuse dopo avere letto la risposta alla missiva (Il caso Welby, la fecondazione assistita, l’aborto, l’eutanasia... Ma come si fa a distinguere se un atto è bioeticamente buono o cattivo? E come fa un medico a decidere su basi bioetiche? Quale metro di giudizio può essere utilizzato? E quale è quello giusto? C.S. Roma).
Poveretto. Non è secondario, ai fini di ottenere una risposta soddisfacente, la scelta del proprio interlocutore. E Bellieni lascia parecchio a desiderare. Però l’incauto lettore se l’è cercata.

Fin dalla premessa ci accorgiamo di trovarci di fronte non solo ad un esperto in materia, ma a un sensibile analista dell’animo umano.
L’insistenza nel tentativo di mettere all’ordine del giorno sempre più “novità” in campo bioetico ha provocato tra la gente una specie di allergia, ovvero di sensibilità accresciuta e talora fastidiosa al veder sorgere l’ennesimo agguato alla vita umana e alla sua dignità. C’è ovviamente il rischio che, novità dopo novità, ci si abitui tristemente, o che non si sappia cosa dire, dato il polverone mediatico a senso unico che sapientemente accompagna le innovazioni. Cerchiamo dunque di trovare una bussola nel mare della bioetica. Sembra un pianeta astruso, ma forse non lo è come pensiamo.
Dopo qualche riflessione imperdibile e ubiqua, la solita citazione di Kant (pover’uomo, comincia a starmi sempre più simpatico) e una affermazione che ci trova concordi per un mero caso probabilistico (la bioetica riguarda tutti e non pochi esperti), un intermezzo poetico sull’“io”, Bellieni entra finalmente nell’area di rigore (siamo tutti inevitabilmente contagiati dall’idea che la vita sia in fondo soltanto una partita di calcio) e si sofferma addirittura in una analisi ermeneutica e etimologica del termine “bioetica”, che non è solo analisi terminologica, va da sé, ma sconfina in quella concettuale e sostanziale.
Inutile dire che la sua narrazione non cerca di percorrere la via della descrizione o della ricostruzione storica, ma va a gamba tesa (e ci risiamo) al significato normativo. Al come-dovrebbe-essere.
Già: molti usano la parola “bioetica” ma intendono questa come “la cosa più arguta che mi viene in mente” senza rendersi conto che invece stanno usando delle categorie che non sanno gestire o che stanno scimmiottando quello che la mattina hanno appreso dal giornale letto al bar. Oppure, si parla di bioetica non confrontando tutto (ma proprio tutto fino in fondo) con le categorie di bellezza ecc. suddette, cioè con ciò che al fondo ci costituisce; ma confrontandolo con una certa “smania di possesso”. Insomma: anche se non lo sappiamo, noi stiamo usando un determinato “metro” per misurare le azioni, e questo metro può essere quello sbagliato, un po’ come misurare il peso dell’acqua col termometro.
Le categorie di bellezza menzionate sarebbero, ad esempio, “lo spettacolo di un tramonto o un bambino che nasce”. Ma non ditemi che è per questo sottinteso che non è chiaro quanto dice Bellieni. Io non ho capito. E nemmeno mi chiarisce le idee quanto viene subitaneamente aggiunto, con tanto di premessa “Mi spiego meglio”:
un bambino che mangia un gelato, magari senza riflettere, si pone la domanda appena lo ha assaggiato: “Mi piace?”; difficilmente si chiederà se mangiarlo lo fa diventare potente o gli darà fascino. Questo atteggiamento è giusto: magari è parziale, ma usa uno strumento consono: misura il sapore per capire l’oggetto che mangia; questo atteggiamento va perdendosi man mano che si cresce, e in un certo senso è bene: sottrarsi all’istinto si deve, a condizione, però, che all’istinto si assommi la ragione e non la paura. Che, mangiando un gelato, oltre al giudizio sul gusto entri anche quello sulle calorie in eccesso è un buon ragionare; un po’ meno buono è se invece il giudizio per prenderlo è “Cosa penseranno gli altri se mi vedono?” oppure: “Lo mangio anche se non mi piace, perché ho dei soldi e non so come spenderli”. Cosa c’entri la paura è presto detto: la paura è nascosta dietro ogni azione che non si faccia per affermare la bontà di ciò che abbiamo intorno, ma per ripararsi da esso.
Io ancora non ho capito, però nella parte successiva si cominciano a nominare questioni familiari. Tuttavia la mia incapacità di comprendere permane. Che cosa c’entra se il bambino è scemo o masochistico e mangia il gelato pure se gli fa schifo? Oppure se è già isterico e fissato da chiedersi le calorie contenute nel suo cono crema e cioccolato? Le calorie in eccesso? Per un gelato? Che se non esageri con le noccioline e altri manicaretti saranno meno di 300 calorie. E quale ragazzino infelice ad ogni leccata farà il conto delle calorie in eccesso ingerite? Non mi sembra un modo sensato nemmeno per affrontare l’obesità infantile ed adolescenziale, caro dottor Bellieni. Certo, Sirchia aveva proposto di dimezzare le porzioni al ristorante per combattere quella adulta...
Ciò che abbiamo intorno, poi, non è necessariamente buono. Come facciamo a distinguere il buono da quello che buono non è (in senso morale e non riguardo al gelato)? Che poi è il cuore della domanda del lettore incauto. Mistero.
Usando un paradosso, bisogna rammaricarsi che oggi certe azioni (aborto, fecondazione in vitro) non vengano propagandate per egoismo, ma per paura: infatti l’egoismo almeno ha dietro di sé un “io” detto male, storto, alterato, ma almeno un “io” c’è; dietro le azioni dettate dalla paura, invece, non c’è più nessuno, la persona è fuggita, è rimasta solo la reattività e l’istinto.
[…]
E la burla finale è che, poiché in realtà noi non “gestiamo” proprio un bel nulla della vita pubblica, del pubblico dominio (tutto è governato da leggi proliferate per arginare proprio la nostra smania di essere), l’unica cosa che ci resta da gestire è proprio il nostro povero corpo... e su di esso ci affanniamo nell’ansia di affermare (solo là) la nostra esistenza. Bioingegnerie, figli in età inconcepibile, chirurgia estetica estrema, doping sono solo alcuni esempi. In poche parole: siamo soli.
Finalmente conosciamo la diagnosi: solitudine. È per solitudine che si compiono indagini prenatali (e si compirebbero anche quelle preimpianto se non fossero illegali)? È per solitudine che si ricorre alle tecniche di procreazione assistita? Per ottenere figli che possano farci compagnia, certo. Ma è quanto succede anche con la procreazione naturale: fare figli che ci tengano compagnia (temo che Bellieni dissentirebbe). Non lo domando sull’eutanasia, perché già conosco la risposta nonostante la mia fosse una domanda retorica.
Parlando di bioetica, dunque, dobbiamo sapere che una sfida ci attende, perché davvero non vogliamo restare e vivere da soli, né vogliamo che ciò avvenga per i nostri figli; la sfida è la seguente: o “con il nostro cuore” o “con il nostro potere”.
[…]
Ecco cos’è al fondo la bioetica: confrontare tutto il campo della medicina e della biologia con l’amore alla verità, giustizia e bellezza scritte nel nostro profondo, e non con i pre-giudizi o col nulla del relativismo etico. E non fidarsi di coloro che dicono che queste esigenze sono soggettive, che non esiste un DNA etico, quello che il Papa chiama una “grammatica morale”: il nostro cuore è scritto con questa grammatica, è fatto ad immagine di un Creatore che vi ha inciso dentro ragione e libertà, proprio ad immagine delle Sue. E attende solo che noi le usiamo e lasciamo che attraverso di esse ci possa fare uomini felici.
Un DNA etico? Esigenze soggettive e oggettive? La premessa che il nostro cuore è fatto a immagine e somiglianza di un Creatore, che vi ha inciso ragione e libertà, è una figura retorica? E come si usano ragionee libertà per decidere in materia di bioetica (ma anche per decidere con chi uscire stasera)?
Anche volendo soprassedere sul Creatore e sulle incisioni del nostro cuore: come confrontare? E confrontare cosa con cosa? Che avrà capito il lettore? È lecito oppure no chiedere l’eutanasia o sottoporsi a un test genetico? Welby ha compiuto una azione legittima oppure no?
Nonostante mi bruci essere la scelta di ripiego, dichiaro la mia disponibilità a rispondere al lettore (a meno che non sia già soddisfatto).

4 commenti:

  1. Complimenti blog e post fantastici! Ti invito a visitare il mio blog http://newsfuturama.blogspot.com/ ciao

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  2. Secondo me, Chiara, qui il problema è che tu ragioni in modo razionale, mentre quel tizio non ragiona in modo razionale. Anzi forse in nessun modo.

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  3. secondo me è probabile che l'incauto lettore non cercasse tanto una vera risposta, quanto una risposta che riaddormentasse quel briciolo di razionalità che si era appena risvegliato in lui, ammaliandolo con giravolte di parole e luoghi comuni dal suono "esperto". La ragione fa paura a chi non l'ha mai provata.

    A giudicare dalla risposta di Bellieni credo che l'incauto lettore abbia trovato quel che cercava. Sempre che non si sia serenamente addormentato già alla terza riga.

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  4. Temo che il poster precedente abbia ragione.
    Chi, sconfortato dal dubbio e incline ad accettare la "facile" risposta religiosa, domanda lumi su come si fa a ragionare su tali tematiche e' contento di ricevere rassicurazioni come queste.

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