Non c’è un «noi» e non ci sono «gli altri», quando si parla degli italiani.Si può convenire sulla diagnosi veltroniana del pericolo gravissimo per la convivenza civile posto dal «bipolarismo etico»; anche se si vorrebbe sapere in che cosa mai consista quel «laicismo esasperato» che Veltroni contrappone all’integralismo religioso, e che suona un po’ come l’accusa di intolleranza rivolta a chi voglia emarginare dalla vita democratica gli intolleranti e i violenti. Ma suppongo che qui il sindaco di Roma avesse bisogno, per far mostra di equilibrio, di un sia pur fittizio termine di paragone...
E non ci può essere «noi» e «gli altri» nemmeno quando si tratta del rapporto tra fede e laicità. La cosa peggiore che il Paese potrebbe avere in sorte è la contrapposizione esasperata tra integralismo religioso e laicismo esasperato. È un paradosso insostenibile: il bipolarismo politico e istituzionale deve ancora diventare compiuto mentre a dominare la scena ci sarebbe un dannoso e paralizzante «bipolarismo etico».
No, non può essere. La risposta è nella sintesi. Nel punto di equilibrio, che è dovere della politica e delle istituzioni cercare, tra il valore pubblico delle scelte religiose delle persone e la laicità dello Stato. A nessun cittadino che abbia fede, quale essa sia, si chiederà di lasciare fuori dalla porta della politica il proprio percorso spirituale e i propri valori. Anche i non credenti devono rispettare e tener di conto le opinioni di chi, mosso dalla fede, può portare alimento alla vita pubblica. Al tempo stesso, ognuno è tenuto a rispettare quel che la nostra Costituzione afferma e salvaguarda: la laicità dello Stato Repubblicano.
Ed è la democrazia stessa a imporre, a chi è legittimamente mosso da considerazioni religiose, di tradurre le sue preoccupazioni in valori universali e in proposte concrete ispirate alla ragionevolezza, e non specifici della sua religione. In una democrazia pluralista non c’è altra scelta.
La politica, come è stato giustamente detto, dipende dalla nostra capacità di persuaderci vicendevolmente della validità di obiettivi comuni sulla base di una realtà comune. È qualcosa che vale in particolare per temi come questi, come la tutela della famiglia, come la difesa dei diritti civili di ognuno. A guidarci c’è una Costituzione che indica principi comuni a tutti noi. A guidarci deve essere quel senso della misura, e dell’amore per la coesione della propria comunità, che deve spingere a cercare sempre un punto di incontro virtuoso che non mortifichi i convincimenti degli uni o degli altri.
È questo spirito di ricerca e di confronto che sta alla base della proposta di legge sui Dico. Se è certamente vero ciò che Savino Pezzotta ha detto, circa il valore costituzionale della famiglia fondata sul matrimonio, è altrettanto vero che, come hanno fatto tutte le altre grandi democrazie, anche in Italia è giusto riconoscere i diritti delle persone che si amano e convivono.
Assai meno c’è da convenire, purtroppo, sulla prescrizione di tradurre le preoccupazioni dei credenti «in valori universali e in proposte concrete ispirate alla ragionevolezza, e non specifici della [loro] religione». È da molto tempo, ormai, che la strategia degli integralisti consiste proprio nel camuffare da «valori universali» le proprie idiosincrasie, e nel proclamare che la «ragione» rettamente intesa (in realtà, un pasticcio dogmatico di teologia morale e di filosofia neo-scolastica) le corrobora immancabilmente. La tragedia è che a queste pretese riesce poi difficile resistere, lo scudo costituzionale essendo forse mal progettato per resistere a questo clericalismo en travesti. Anche la persuasione reciproca fallisce, quando una delle parti rimane sorda a qualsiasi argomento razionale, e si limita a ripetere meccanicamente i mantra, per esempio, della sacralità della famiglia eterosessuale o dell’intoccabilità dell’embrione.
Del resto, l’esempio dei DiCo che Veltroni spaccia come buon risultato dello «spirito di ricerca e di confronto» è particolarmente infelice, trattandosi com’è noto di un aborto legislativo che ha tentato di mescolare istanze laiche e pretese clericali in un ibrido non vitale.
Con tutto ciò, rimane purtuttavia che il discorso di Veltroni risulterà probabilmente indigesto ai cosiddetti teodem, il cavallo di troia piazzato dalla Cei all’interno delle mura dell’Ulivo: i loro «principi non negoziabili» mal si conciliano con la ricerca del compromesso e della convergenza su valori comuni. La possibilità che il Partito Democratico possa rappresentare in futuro una parte dell’elettorato laico si gioca tutta sulla fuoriuscita di Binetti, Bobba e compagni, verso il partitino di Pezzotta o verso un consimile nulla. La stessa possibilità di proporre al tradizionale elettorato di sinistra almeno alcuni dei temi del liberalismo economico e della meritocrazia dipende in modo cruciale dalla proposta contestuale di grandi riforme sul terreno più congeniale dei diritti civili: è la lezione che viene dalla Spagna di Zapatero. Qualche analfabeta della politica l’ha finora voluta ignorare, in cambio di una pacca sulle spalle dal cardinal Ruini; ma è sperabile che non tutti i leader del nuovo partito siano uguali – o non tutti i sindaci di Roma, se preferite.
Concordo in pieno. iL buco sulla laicità è stata la falla più grave del discorso di ieri insieme al conflitto di interessi e alla politica estera.
RispondiEliminaHo fatto un post sull'intervento di Veltroni:
http://anggeldust.blogspot.com/2007/06/walter-ego-la-faccia-del-partito.html
a presto!
GG
Sulla laicità di Veltroni (speriamo che migliori col tempo!) vi propongo un mio commento pubblicato ieri su www.resistenzalaica.it.
RispondiEliminaSaluti