Splendido articolo di Chiara Saraceno sull’alimentazione artificiale («
Il diritto di morire di fame»,
La Stampa, 19 settembre 2007, p. 35):
Al di là delle contraddizioni e dell’inconciliabilità delle diverse posizioni su che cosa s’intenda per vita umana, sul suo inizio e sulla sua fine, la questione di quando cessare il mantenimento in vita a ogni costo, quindi anche dell’alimentazione forzata, pone questioni molto simili a quelle che si sono presentate in occasioni che non avevano a che fare con la definizione di vita umana, ma con problemi di libertà e dignità individuale anche in condizioni estreme. Ricordo due casi scoppiati in Inghilterra, patria del diritto che sta alla base d’ogni altro diritto civile: l’habeas corpus, il diritto alla propria integrità fisica. Il primo caso riguarda alcune femministe inglesi incarcerate all’inizio del ’900 con l’accusa di terrorismo in seguito alle loro azioni violente per rivendicare il diritto di voto. Quelle che in carcere fecero lo sciopero della fame vennero sottoposte ad alimentazione forzata suscitando pubbliche proteste perché tale procedimento si configurava come una violazione sia della libertà interiore delle prigioniere che della loro integrità corporea. Anche una prigioniera ha diritto a non essere violata nei confini del proprio corpo.
Lo stesso principio negli Anni 70 fu alla base d’un drammatico conflitto tra i prigionieri per terrorismo irlandesi nelle carceri inglesi e il governo inglese, allorché i primi iniziarono uno sciopero della fame di massa contro le condizioni di prigionia e si trovarono a dover combattere anche contro l’alimentazione forzata. I prigionieri irlandesi ottennero, sulla base del principio dell’habeas corpus, il diritto a non essere alimentati contro la loro volontà e quindi anche a morire. Non risulta che l’episcopato inglese e lo stesso Vaticano appoggiassero il governo di Londra in nome del principio dell’obbligo a non lasciar morire di fame. Anzi, gran parte della Chiesa irlandese era dalla parte dei prigionieri.
Perché non possiamo concedere a un essere umano che non ha altra colpa che quella di non poter più essere tale il diritto a non essere alimentato forzatamente concesso ai prigionieri terroristi irlandesi e rivendicato prima di loro dalle prigioniere femministe inglesi? Nutrire gli affamati è un obbligo umano fondamentale. Ma non prevaricare su chi – per circostanze diverse – non è in grado di rifiutare ciò che non vuole è un obbligo altrettanto forte. Almeno per chi, in possesso delle proprie capacità intellettive, dichiara esplicitamente di non voler più essere nutrito e tenuto in vita in casi di riduzione allo stato vegetale o di gravissime sofferenze prodotte dalle stesse procedure di mantenimento in vita, cessare l’alimentazione e idratazione forzata, e più in generale cessare l’invasività delle macchine, non è solo un atto di carità e forse un gesto estremo di autentico accudimento. È anche il rispetto del principio dell’habeas corpus, uno dei diritti di base della civiltà occidentale. Perciò, più che discutere di eutanasia, occorre urgentemente porre la questione del testamento biologico.
In questi ultimi tempi, in coincidenza con l’esame al Senato delle proposte di legge sul testamento biologico, si discute molto sulla natura dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali: si tratta di trattamenti medici, oppure no? Si ritiene in genere che sostenere la prima alternativa implichi la possibilità – garantita dall’articolo 32 della Costituzione – di rifiutarli, mentre chi sostiene la seconda è a favore della loro obbligatorietà, anche contro la volontà (attuale o espressa in passato) del paziente. Ma si tratta di un falso dilemma (anche se naturalmente l’alimentazione con un sondino gastrico, che entra nello stomaco tramite un’incisione,
è ovviamente un trattamento medico), come ci ricorda la Saraceno: non si può forzare l’intimità fisica di una persona contro la sua volontà e contro principi giuridici universalmente accettati. Nella Costituzione della Repubblica, prima dell’art. 32, si trova l’art. 13 (cc. 1-2):
La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
Coerentemente con il dettato costituzionale, il Codice deontologico dei medici, all’art. 53, dichiara:
Quando una persona rifiuta volontariamente di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla sulle gravi conseguenze che un digiuno protratto può comportare sulle sue condizioni di salute. Se la persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale nei confronti della medesima, pur continuando ad assisterla.
E questo chiude la questione; a meno che, naturalmente, non si voglia sostenere che una persona inerme non ha più diritti.
Ottimo post.
RispondiEliminaIl problema è che molto spesso, con giri di parole, si scambia e contrabbanda il diritto per il dovere. Diritto di vivere diventa dovere di vivere, anche contro la volontà del soggetto.
Ricordo di aver letto tempo fa in uno spassoso blog cristiano-integralista la seguente frase: "Un gay è un malato, e i malati hanno un solo diritto... quello di guarire!"
Be', si può anche essere d'accordo sulla premessa (facendo uno sforzo di fantasia...), ma il diritto di guarire mica è un dovere. Se anche l'omosessualità fosse una "malattia", nessuno è (ancora) obbligato a essere curato...
Un post perfetto, e complimenti per aver ribadito non dico l'importanza, ma L'ESISTENZA dell'art. 53 del codice di deontologia.
RispondiEliminaUn articolo che andava riportato in rete giustamente.
RispondiEliminaE concordo con GG sull'art. 53 dato che io per es. non ne conoscevo l'esistenza e soprattutto il contenuto...