La lettura del decalogo del Wellness Gourmet suscita varie emozioni: la prima è una reazione pavloviana di ipersalivazione, soprattutto se è passato del tempo dall’ultima volta che si è consumato un pasto come si deve.
La seconda è la considerazione che nutrirsi rischia di diventare un appuntamento molto impegnativo, cui dedicare l’intera giornata per controllare la genuinità degli alimenti, la portata calorica, la qualità, la cottura giusta. A meno che non si sia dotati di cuoco personale… Per non parlare dell’opportunità di conoscere la storia e la cultura dietro ad ogni cibo per meglio assaporare i nostri pasti: “Mangiare solo con la pancia è limitativo perché è limitata la quantità di cibo che possiamo assumere”.
Chissà quanti impallidiscono, consapevoli dello sconsiderato modo di alimentarsi “mordi e fuggi”, in piedi tra una riunione e una telefonata, oppure ricorrendo a quei terribili cibi precotti e quasi predigeriti di cui ignorano perfino la composizione.
Ci sono poi spunti interessanti di riflessione più generale. Il primo principio della filosofia del Wellness, “la salute”, suggerisce la differenza tra amore e dipendenza: “chi rinuncia alla salute per amore del cibo diventa schiavo del suo oggetto d’amore” – consiglio che potrebbe essere applicato anche ad altri oggetti d’amore. I principi dal 2 al 5, “la qualità dei cibi”, si esprimono su uno dei tormentoni del momento: la presunta identificazione tra ciò che è biologico e ciò che è sano, il cui sintomo è l’invasione del suffisso bio- a garanzia di qualità e salubrità (addirittura giudicano positiva l’innovazione tecnologica applicata agli alimenti e “miope e ingiustificato” il suo rifiuto). E le cui varianti sono tradizionalità e naturalità: come se il veleno dell’Amanita virosa non fosse del tutto naturale!
(DNews, 15 luglio 2007)
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