Una delle obiezioni classiche al testamento biologico, ripetuta molte volte anche nei giorni in cui è divampata più forte la polemica sul caso Englaro, chiama in causa la possibilità di un cambiamento di opinione, diciamo così, ‘intempestivo’, soprattutto quando ci sia in gioco la possibilità di rifiutare i trattamenti di sostegno vitale. Immaginiamo di avere compilato tempo fa il nostro bravo testamento biologico, o di avere comunque manifestato la nostra volontà rispetto a ciò cui vorremmo o non vorremmo essere sottoposti in caso di perdita della coscienza; quand’ecco sopraggiungere un ripensamento: improvvisamente le nostre opinioni in materia di trattamenti medici sono cambiate radicalmente. Si sa però come sono gli esseri umani: rimandiamo di qualche giorno l’aggiornamento delle nostre direttive anticipate; o ci dimentichiamo addirittura di averle compilate anni fa; o non parliamo a nessuno – per mancanza di occasione – delle nostre nuove vedute in materia. La sorte però non aspetta, e un incidente improvviso ci riduce privi di coscienza, e con i medici tenuti a lasciarci morire seguendo le nostre antiche volontà, inconsapevoli del fatto che esse non sono più attuali. Un motivo sufficiente per rifiutare l’introduzione stessa del testamento biologico – o no?
Per esaminare la validità dell’obiezione è necessario introdurre qualche distinzione. Innanzi tutto quella fra direttive scritte, formali, e volontà comunicate a voce, informalmente. È chiaro che nel primo caso l’impegno richiesto dalla compilazione del testamento comporta una piena coscienza delle conseguenze: se mi siedo ad elencare su carta a quali trattamenti vorrei essere sottoposto in caso di incoscienza non posso non sapere di stare scrivendo un documento vincolante (nel caso, beninteso, che ci sia una legge ragionevole che ne regoli l’uso). Con ciò stesso mi assumo anche un rischio: quello appunto di cambiare un giorno opinione senza avere il tempo di mutare il documento. Rischio consapevole, perché è veramente difficile che l’evenienza non mi abbia mai attraversato la mente o non mi sia mai stata fatta notare da qualcuno. Ma assumere rischi – anche molto più cospicui di questo – è uno dei privilegi dell’individuo libero, che nessun paternalismo occhiuto può impedire. Sarebbe poi paradossale se per paura di andare contro l’ipotetica volontà di un mio io futuro rinunciassi a far valere la mia volontà presente.
Che dire invece di direttive non scritte, ma comunicate a voce e informalmente («Mi raccomando: non collegatemi mai a una macchina!»)? Qui non è chiara in generale la misura dell’impegno che sto assumendo e la mia consapevolezza delle conseguenze. Cosa sono tenuti allora a fare i medici, se esiste un dubbio legittimo su un possibile cambiamento d’opinione intervenuto nel frattempo? (Tralasciamo i dubbi capziosi: se a una riunione di amici proclamo enfaticamente che non voglio il tale trattamento e tornando a casa ho un incidente d’auto, le probabilità che nel frattempo io abbia cambiato opinione sono infinitesime, e come si sa de minimis non curat lex.)
Anche qui occorre distinguere. Le direttive anticipate servono a comunicare le nostre volontà ai medici nel caso in cui non siamo in grado di farlo di persona, perché ci troviamo in uno stato di coscienza assente o comunque alterata. Prendiamo prima in considerazione il caso in cui questa assenza della piena coscienza sia passeggera: per esempio, immaginiamo di aver manifestato una volta a voce la volontà di non essere rianimati in seguito a un incidente, nel caso in cui le cure ci facessero tornare alla fine coscienti ma costretti a vita in un polmone d’acciaio. Qui i termini del dilemma sono abbastanza chiari: se il medico pur nel dubbio non applica i trattamenti di sostegno vitale ma noi avevamo cambiato idea, l’errore è irrimediabile (la morte essendo notoriamente irreversibile); se viceversa applica i trattamenti ma noi non avevamo cambiato idea, l’errore può essere risolto in seguito – almeno a parole: si tratta in realtà di una tragedia in cui avremmo preferito non risvegliarci. Ma vale, a parti invertite, il discorso della responsabilità: se ci sono cose che non voglio assolutamente mi siano fatte, farò bene a dichiararlo con tutti i crismi, e a non scaricare su terzi le responsabilità che mi competono.
Consideriamo infine il caso in cui la mia coscienza se ne sia andata per sempre. Qui non c’è soluzione al dilemma: l’errore infatti è irreversibile in ogni caso. Sia che io sia lasciato morire, sia che io sia fatto vivere per sempre inconsapevole, non c’è ritorno, non c’è possibilità di rimediare. In una società libera, in cui la volontà delle persone sia presa sul serio, e in cui si ammetta che esistono (a giudizio di alcuni) dei destini peggiori della morte, si deve concludere che in dubio pro libertate: ci si atterrà alle più recenti dichiarazioni verbali (integrate da ogni altro elemento utile), se sufficientemente chiare, come approssimazione migliore alla volontà dell’individuo.
Alla medesima conclusione ci può condurre una linea di ragionamento separata. Nel caso di cessazione irreversibile della coscienza la posta in gioco diventa inevitabilmente meno importante, in un caso e nell’altro. La vita personale è finita, e ogni decisione sui trattamenti medici a cui essere sottoposti equivale in sostanza a quelle che si assumono per i propri trattamenti funebri: importanti, sì, ma non decisivi. Se il sostegno vitale non viene ritirato, infatti, non ci sarà comunque nessuna esperienza: né quella di una vita da continuare ad apprezzare, né l’esperienza infernale di restare attaccati alla macchina contro la propria volontà. Possiamo dunque tranquillamente rispettare i desideri espressi a suo tempo dalla persona, senza il timore di stare compiendo un tragico errore.
Un ragionamento di una logica e di una chiarezza esemplari.
RispondiEliminaPerò secondo me chi è convinto di stare al mondo per servire la volontà di qualche dio onnipotente non ha tempo da perdere per ragionare in modo logico sulle cose della vita: sa già qual'è la Verità, e tanto gli basta.
E poi scusa, questo avviene anche con qualsiasi tipo di 'testamento': è un rischio accettabile. Senza pensare poi che questo testamento non dovrebbe essere 'obbligatorio', e quindi è lecito pensare che chi lo stila se ne curi...
RispondiEliminaInyqua: certo. Però il paragone con il testamento normale vale fino a un certo punto (si potrebbe obiettare che qui è in gioco la propria vita, non solo beni materiali che godranno gli eredi).
RispondiEliminaperfettamnte d'accordo.....ma la società non è libera.
RispondiEliminaScusate se O.T. ma mi sembra importante ...
RispondiEliminaALLARME C E N S U R A ! ! !
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Anche a me sembra un ragionamento molto logico. Peraltro, finché non viene data la possibilità a chi vuole di fare testamento biologico, i margini di incertezza permangono, proprio perchè, come hai detto tu, in un documento formale posso lasciare precise direttive sui trattamenti che permetto e quelli che rifiuto, mentre con una dichiarazione vaga ("non voglio essere rianimato!") si rischia davvero sempre di applicare o non applicare al paziente cure che lui non vuole.
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