venerdì 26 settembre 2008

Discutendo con Buttiglione

Il più delle volte gli integralisti non fanno che ripetere slogan stantii e spesso mal compresi o addirittura alterati nel passaggio da una bocca all’altra; ma qualche volta propongono anche argomenti. Magari non tutti originalissimi e non tutti particolarmente meditati, ma pur sempre argomenti. È quanto fa Rocco Buttiglione sul Tempo di due giorni fa («Legge ok, ma patti chiari. Testamento biologico non significa eutanasia», 24 settembre 2008, p. 17), e noi proveremo a rispondere punto per punto.
1. Un primo principio che non deve mai essere perso di vista mi pare che sia il seguente: nessuno può trasferire ad altri diritti che non possiede egli stesso. Il testamento biologico serve a dare indicazioni a chi ci ha in cura sui trattamenti che vorremmo o non vorremmo ricevere. Non possiamo però, attraverso il testamento biologico, dare l’ordine di essere uccisi. Non possiamo dare questo ordine quando siamo coscienti, non possiamo darlo quando siamo incoscienti attraverso il testamento biologico. C’è qui da dissipare un equivoco. Alcuni dicono: la vita è mia e ne faccio quello che mi pare. Il principio è discutibile (si potrebbe sostenere che la mia vita appartiene contemporaneamente alle persone che amo e che mi amano e chi dice “la mia vita appartiene solo a me” deve essere una persona molto sola e molto infelice), tuttavia esso non giustifica l’eutanasia. Al massimo può giustificare il suicidio.
Quanto dice Buttiglione è sostanzialmente corretto, nell’attuale quadro giuridico. La norma che impedisce l’omicidio del consenziente sarebbe chiaramente in contrasto con la previsione dell’eutanasia attiva (cioè della somministrazione di un farmaco che causi direttamente il decesso del paziente), sia che questa venga eseguita quando il paziente è cosciente sia che venga prevista nelle direttive anticipate. Ma nessuno chiede oggi che il testamento biologico possa contemplare l’eutanasia attiva. Il massimo che viene richiesto è la possibilità di sospendere nutrizione e idratazione artificiali; e questo è un diritto che già possediamo, un ordine che già possiamo impartire ai medici mentre siamo coscienti, e che quelli sono obbligati a rispettare (art. 53 del Codice di deontologia medica), come ammette – lo vedremo fra poco – persino lo stesso Buttiglione.
Con l’eutanasia io non dispongo della mia vita. Dispongo contemporaneamente della vita di un altro, al quale dò l’ordine di uccidermi. E dispongo di tutta la comunità umana da cui pretendo che imponga a qualcuno di eseguire il mio ordine e che non consideri quel [sic] atto come punibile. È evidente che esiste una differenza fra il suicidio e l’omicidio del consenziente.
Con l’eutanasia – che, ripeto, è cosa diversa dal testamento biologico come oggi viene concepito e richiesto – nessuno dà l’ordine o impone a un altro di uccidere. Non si afferra un passante mettendogli in mano una siringa di Pentothal e non gli si intima «vai e uccidi!»; non è così che funziona. A praticare l’iniezione letale, nei paesi dove la legge ne consente la possibilità, è un medico che ha liberamente sottoscritto un contratto che prevede questo impegno; e se per qualche motivo la cosa disgusta alla sua coscienza è altrettanto libero di dedicarsi a un’altra specialità o a un’altra professione. In questi paesi, poi, l’eutanasia è stata approvata con leggi democratiche, non certo «imponendo» alla comunità di non considerare l’atto come punibile.
2. Il trattamento terapeutico è un atto in cui conviene la libertà e la responsabilità di due persone: il medico ed il paziente. Ambedue devono partecipare al medesimo atto con scienza e coscienza. Non è possibile ridurre il medico al livello di un esecutore di ordini che vadano contro la sua coscienza. Medico e paziente sono uniti dal perseguimento di un bene oggettivo che è la salute del paziente. Le indicazioni del paziente nel suo testamento biologico vanno certamente tenute da conto da parte del medico, ma non possono essergli imposte in modo vincolante quando esse contrastino con le regole tecniche e deontologiche della professione medica.
Come mai secondo Buttiglione non è possibile ridurre il medico a esecutore di ordini che vadano contro la sua coscienza, ma allo stesso tempo è possibile ridurre il paziente a oggetto passivo di ordini che vadano contro la sua coscienza? Io non posso obbligare il medico a fare alcunché (almeno in assenza di un impegno contrattuale), ma nemmeno lui può impormi di subire ciò che vuole. Quanto alla salute, può essere anche un bene oggettivo, ma chi decide che è il massimo bene possibile, da anteporre a tutti gli altri? Da uno che proviene da una tradizione culturale in cui un tempo si esortava così: «Non abbiate paura di chi può uccidere il vostro corpo; temete piuttosto chi ha il potere di uccidere la vostra anima», ci si aspetterebbe una diversa scala di valori... In ogni caso, il medico è il più qualificato a stabilire cosa è bene per la mia salute, ma non a stabilire cosa è bene per me. C’è una grande differenza.
3. Nessun trattamento può essere imposto al paziente contro la sua volontà. In altre parole non è lecito imporre un trattamento sanitario con la forza. Ciò comporterebbe una inaccettabile violazione della dignità umana del paziente. Qui però dobbiamo domandarci in cosa consista la volontà vera del paziente. Quanto più l’espressione di volontà del paziente appare strana e contrario al suo interesse bene inteso, quale lo intenderebbe in genere un tutore legale, tanto più è necessario avere delle espressioni di volontà inequivocabili. E anche quando vi fossero, sarebbero sempre valide?
Immaginiamo, per esempio, che le disposizioni siano dettate in una fase di malattia e di depressione. Siamo sicuri che in quel contesto il soggetto conservi pienamente le sue facoltà di intendere e di volere? Molta gente in una fase di depressione e di disperazione arriva a tentare il suicidio. Dovremo proibire di dare assistenza sanitaria all’aspirante suicida, visto che egli ha mostrato in modo inequivocabile di voler morire e di rifiutare di conseguenza qualunque trattamento medico? In realtà noi agiamo in modo esattamente opposto e l’aspirante suicida in genere è grato a chi gli ha salvato la vita. Noi riteniamo che si possa presumere che l’aspirante suicida non sia pienamente in grado di intendere e di volere. Non possiamo impedirgli di tentare il suicidio, ma possiamo salvargli la vita dopo che ha tentato, e questo è esattamente quello che facciamo.
Cosa faremo con chi rifiuta un trattamento sanitario che può salvargli la vita? Non lo somministreremo se egli attivamente lo rifiuta. E se è incosciente ed ha lasciato scritto di volerlo rifiutare non riterremo che ricorra qui una analogia con il tentato suicidio? Il testamento biologico non può avere l’ultima parola su tutto. Quanto più esso si allontanasse dalla ragionevolezza tanto più il medico avrebbe il diritto ed il dovere di disattenderlo.
Questo è un argomento degno di considerazione. Chi decide tuttavia la misura della «ragionevolezza»? A molti pare assolutamente ragionevole rifiutare le cure nel caso si sia ridotti in uno stato vegetativo permanente; il caso Englaro ha dimostrato che è proprio chi ama di più la vita, senz’ombra di depressione, a rifiutare con più decisione la prospettiva di trascorrere la vita a letto ridotto come un vegetale. Ci si limiti dunque a rendere obbligatorio un colloquio previo con il medico o comunque un qualche documento giustificativo solo per chi rifiuta nelle proprie direttive anticipate ciò che pare del tutto accettabile al senso comune e alla stragrande maggioranza delle persone, p.es. le pratiche ordinarie di rianimazione in presenza di prognosi favorevole (è il caso dei Testimoni di Geova, che rifiutano le trasfusioni).
[Ometto il punto 4 sull’accanimento terapeutico, che non dice nulla di particolarmente rimarchevole.]
5. Quando si sospendono le terapie non si può però fare venire a mancare al paziente un elementare sostegno e l’assistenza. Si continuerà a nutrirlo, a dissetarlo, a tenerlo pulito, ad avere cura per quanto possibile del suo benessere. Queste non sono terapie straordinarie, ma atti di semplice assistenza comunque dovuti ad un essere umano che soffre. Privare un essere umano di questa assistenza e cura significa ucciderlo. In modo particolare, privarlo dell’acqua e del cibo significa farlo morire di fame. Alcuni vorrebbero trattare l’alimentazione artificiale come un mezzo straordinario di cura e quindi interromperla in modo da provocare la morte del paziente. In realtà l’alimentazione artificiale consiste in una piccola operazione che permette di inserire nell’esofago una cannula attraverso la quale passano le sostanze nutrienti. Una volta fatta, alla nutrizione può provvedere personale non specializzato.
Certo, se il paziente è conscio non è possibile imporgli l’alimentazione artificiale. Sarebbe una violazione della sua intimità personale. Ma quando l’operazione sia già stata fatta ed il paziente sia incosciente, è irragionevole sospendere l’alimentazione.
È già un progresso che qualcuno si renda conto che già oggi è vietato imporre l’alimentazione artificiale a un paziente cosciente. Ma perché sarebbe irragionevole estendere il divieto al paziente incosciente? Buttiglione non lo spiega. Il maniaco che brancica la paziente in coma non ne sta forse violando l’intimità?
La natura non straordinaria della nutrizione artificiale è poi del tutto irrilevante. Nel nostro ordinamento giuridico è possibile rifiutare trattamenti medici del tutto usuali ed essenziali alla vita del paziente, come la somministrazione di antibiotici; non si vede dunque perché la somministrazione enterale o parenterale di alimenti dovrebbe fare eccezione (e la questione sulla sua natura di trattamento medico non ci deve interessare minimamente; non mi posso mettere a tatuare senza autorizzazione pazienti colpiti da demenza con la scusa che un tatuaggio non è una terapia e che lo faccio per il loro bene, per farli riconoscere nel caso si perdessero: si tratta di un’intrusione nella sfera corporea di un altro, e tanto basta).
É inoltre evidente che il trattamento, una volta iniziato, non può essere sospeso su semplice indicazione del paziente. Sarebbe come dire che chi è stato salvato da un tentativo di suicidio per annegamento ha il diritto, se cambia idea, di farsi ributtare in mare da chi lo ha salvato.
A me non pare affatto evidente. Sarebbe come dire che una donna che ha iniziato un rapporto sessuale non può più ritirare il proprio consenso, e che non ci troviamo di fronte a uno stupro se il suo compagno la forza a continuare. Il paragone con il suicidio ignora ancora una volta l’analogia fra l’azione che si impone di compiere e l’azione che si impone di subire: certo che il suicida non può costringermi a ributtarlo in mare; ma neanche io ho il diritto di incatenarlo a un palo perché non ci riprovi.
Su questi principi non è difficile fare una buona legge sulle disposizioni di fine vita.
No, in effetti non è difficile. È impossibile, direi.

6 commenti:

  1. Il maniaco che brancica la paziente in coma non ne sta forse violando l’intimità?

    Negli Stati Uniti c'è stato un caso "simile", anche se non credo si possa parlar di maniaco, essendosi trattato del marito della comatosa, che è stato assolto.
    Qui la notizia:
    http://oknotizie.alice.it/go.php?us=48e100294a8ed968

    Trovo molto interessanti i commenti...

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  2. Anche comunque scorretto:

    ' In realtà l’alimentazione artificiale consiste in una piccola operazione che permette di inserire nell’esofago una cannula attraverso la quale passano le sostanze nutrienti. '

    La realtà è che una cosa è il sondino naso-gastrico (che porta alimenti nello stomaco attraverso l'esofago con un sondino appunto) ed una cosa è la PEG (http://inyqua.iobloggo.com/archive.php?eid=310)
    che è un vero e proprio intervento di stomia gastrica (con una percentuale non trascurabile di mortalità nella sua esecuzione, fra l'altro...)
    Come al solito il nostro è frettoloso....

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  3. una cosa sulla quale forse si può lavorare: quando si decide, in un testamento biologico, di rifiutare certe terapie in certe situazioni, non è che si decide di morire (e quindi i paragoni con i suicidi e gli argomenti sull'indisponibilità della vita diventano inutili in quanto non centrano il bersaglio, parlano d'altro), ma di non volere subire lunghe agonie nel caso in cui la morte sia l'unico decorso possibile.

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  4. Alex: il fatto è che chiunque ha il diritto di rifiutare qualsiasi cura, anche se non è un paziente terminale. Non si tratta di voler morire, ma di non voler vivere a certe condizioni, come nel caso famoso della donna che ha preferito morire piuttosto che subire un'amputazione. Questo è possibile oggi per tutte le persone coscienti, e il testamento biologico si limita a estendere la possibilità ai pazienti che si trovano in stato di incoscienza.

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  5. In realtà il problema è che stiamo girando intorno al nocciolo della questione.
    Non si può nemmeno pronunciare la parola eutanasia, che da destra e da sinistra si materializzano paletti, veti, ricatti, e convegni sul ruolo dei cattolici in politica.
    Il risultato è una frustrante, eterna discussione tra paragoni assurdi e dogmi confessionali.
    Il punto è molto semplice, e riguarda la libertà personale. I medici hanno il dovere d'informare il paziente sulle conseguenze di una scelta, i pazienti di rifiutare una terapia. L'aspetto legislativo deve limitare la sua attività, sulle possibili deformazioni del meccanismo.
    Faccio un esempio.
    Se un paziente ha descritto le modalità del suo "fine vita", queste non possono essere modificate da soggetti interessati (eredi, coniuge, parenti, etc.) in senso restrittivo o estensivo delle volontà descritte.
    In tutti i paesi dove esiste questa possibilità, le richieste sono vagliate da una commissione medico-legale.
    Punto.

    Il titolo del post, è evidentemente un ossimoro... ;)

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  6. giuseppe, dicevo proprio quello: se ci si appiglia alle limitazioni di un possibile testamento adducendo come argomento che "è sbagliato voler morire", non si coglie la differenza. nessuno "vuole morire", solo si vuole evitare di subire certe condizioni.

    mi sono un po' arrotolato sulle parole :)

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