Lucia Bellaspiga intervista per il giornale dei vescovi l’oncologa Carla Ripamonti, tra i firmatari di un appello contro le sentenze dei tribunali sul caso Englaro («
“Vivo con i malati terminali. Su Eluana dico: fermiamoci”»,
Avvenire, 28 dicembre 2008, p. 11):
[Beppino] Englaro è una figura estremamente sofferente, estremamente da comprendere e da rispettare, soprattutto da tenere fuori dal giro dei media.
Soprattutto.
Domanda: 'il malato terminale oncologico a volte chiede di morire?'
RispondiEliminaRisposta: Chiede di non soffrire. Ma mai in 25 anni, con un unica eccezione, nessuno mi ha chiesto di accelerare la fine. Nemmeno chi prima si dichiarava pro eutanasia. Le direttive date da sani, se non sono revisionate di evento in evento, quasi in diretta, non hanno validità, io lo vedo tutti i giorni.
Ho studiato la frequenza del suicidio fra i malati oncologici: se sono seguiti come si deve, a domicilio, con tutte le cure, la percentuale precipita a 5 casi su 17mila. Io sarò disposta a discutere di eutanasia solo quando tutta l'Italia avrà l'assistenza domiciliare, le terapie palliative, la cura de dolore inteso come sofferenza totale da momento iniziale della diagnosi fino a quello finale.
Ma finchè l'eutanasia è la risposta più economica dello Stato e la scorciatoia della società che on vuole farsi carico dei più deboli, io non ci sto.
Che dire Giuseppe, hai pescato una vera chicca, concordo col cuore e col pensiero con questa oncologa che non conoscevo. Davvero una testimonianza preziosa e illuminante.
Ancora auguri (vedi sotto, post sul terrorismo),
AnnaMaria
Già. Peccato per quei 5 casi su 17mila. Davvero peccato. Ma de minimis non curat lex, suppongo...
RispondiEliminaAnnaMaria
RispondiElimina"Io sarò disposta a discutere di eutanasia solo quando tutta l'Italia avrà l'assistenza domiciliare, le terapie palliative, la cura de dolore inteso come sofferenza totale da momento iniziale della diagnosi fino a quello finale."
Sono decisamente in disaccordo con questo approccio su ben due piani: perché diseducativo dal punto di vista civico e perché sconfessato dalla pratica. Diseducativo perché trovo la pretesa di mettere in contrapposizione diritti non escludentesi come un invito allo scontro tra persone che difendono l'un diritto o l'altro: creare una contrapposizione che non ha ragione di essere serve solo a dividere la cittadinanza. Vanno invece difesi e promossi, senza renderli antagonisti, sia il diritto a cure giuste e misurate sia quello alla libertà personale. Dire di rifiutarsi di promuovere l'uno se prima non viene soddisfatto l'altro è il miglior modo per uscire sconfitti su entrambi i fronti, e per due validi motivi: perché poi se tu ostacoli con sistematica forza un mio diritto non puoi pretendere che io poi assecondi a gratis il tuo, e perché uno stato che non sa garantire un diritto fondamentale statene certi che di norma non si affaticherà per garantire nemmeno l'altro.
Dal punto di vista della pratica dell'uomo, il principio è invece sconfessato dalla semplice osservazione che l'affermazione di un diritto spesso precede e non segue la sua piena applicazione, e non si può subordinare la promulgazione di un diritto alla necessità di avere certezza della sua completa attuabilità contingente. Se così non fosse non si spiegherebbe perchè mai i nostri padri costituenti promulgarono una costituzione quando era chiaro che molti diritti, in quel momento, erano impossibili da difendere in modo coerente ed uniforme. Basti pensare al dirtitto al lavoro, promulgato in una nazione, la nostra, che usciva con le ossa rotte dalla guerra e in larga parte vesrante nella miseria: solo uno scirteriato sosterrebbe che il diritto al lavoro non andava incluso perché in quel momento era impossibile da garantire nel nostro paese. Casomai è proprio l'affermazione di principio di quel diritto che rende necessario operarsi per una sua futura applicazione con atti pratici e concreti.
Scusate ma ritengo inevitabile che se si vogliono difendere dei diritti questi vanno prima scanditi bene a voce alta, e si deve concordare sulla loro validità di principio. Solo dopo ci si può battere, anche in concerto, per ottenerne la sistematica applicazione. Quindi, AnnaMaria, se quella tua affermazione era una scappatoia per mascherare la tua vera opinione sul diritto all'autodeterminazione credo che non ti sia riuscita: dovresti comunque dirci se in tutta onestà consideri che quel diritto esiste oppure no, perché nessuno qui credo che ti firmerà assegni in bianco.
x Paolo: la frase che tu citi attribuendola, mi sembra, a me, è in realtà dell'oncologa Carla Ripamonti di cui parla il post di Giuseppe. Ho solo copiato le sue parole e mi sono detta d'accordo. Quest giusto per non attribuirmi meriti non miei.
RispondiEliminaSul tuo comento mi sento di dire che in teoria hai ragione ma non ce l'hai in pratica. La realtà è molto più complessa dei teoremi. Il mio pensiero sull'autodeterminazione come la intendi tu, cioè il presunto diritto a disporre della propria vita come e quando ci pare mi lascia molto perplessa. Pnso che non si possa definire 'diritto', è un desiderio che hanno alcune persone, ma non è un diritto. Così come non è un diritto diventare genitori. E' un desiderio, non un diritto.
Penso che la vita, compresa la propria, non rientri nelle categorie di oggetti di cui può esistere un proprietà, e di cui i proprietari possano disporre come meglio gli aggrada.
Per quanto riguarda il pensiero dell'oncologa sono d'accordo con lei che se la nostra sanità garantisse il diritto, questo sì diritto a tutti gli effetti, di essere liberati dal dolore anche se non persiste più la speranza di guarigione (e ricordo che solo Sirchia, con Berlusconi, ha mosso finalmente i primi passi della legittimazione della cura del dolore liberalizzando il trasporto da parte dei medici degli oppiacei)la discussione sull'autodeterminazione perderebbe all'istante molti partecipanti, diventerebbe una discussione teorica fra pochi filosofi.
AnnaMaria
(che va a preparare il cotechino e vi rileggerà fra qualche giorno)
PS: x giuseppe, ti ho risposto al post di sotto.
Ancora Buon Anno a tutti
..."il presunto diritto a disporre della propria vita ... penso che non si possa definire diritto, è un desiderio ma non è un diritto".
RispondiEliminaNon siamo di questa opinione. Ed esiste ancora il diritto ad avere opinioni diverse o ci siamo persi qualche puntata? Ed esiste ancora quello stato laico e liberale che identifica come degne di tutela le opinioni di tutti? Anche se sono 5 poveri cristi su 17000? O valgono solo "certe" opinioni?
"Così come non è un diritto diventare genitori. E' un desiderio, non un diritto".
E il diritto alla salute come bene fondamentale dell'individuo, da cui ne consegue il diritto ad usufruire delle migliori cure possibili?
..."la vita, compresa la propria, non rientra nelle categorie di oggetti di cui può esistere una proprietà, e di cui i proprietari possano disporre".
E chi si arroga il diritto di disporne?
. . .
Ci sono affermazioni che rendono inutile ogni commento e che, sopratutto, qualificano chi le pronuncia.
"cioè il presunto diritto a disporre della propria vita come e quando ci pare mi lascia molto perplessa."
RispondiEliminaA me leggere queste affermazioni lascia trasecolare: perché dopo infinite discussioni la gente è ancora in grado di dimostrare di non aver capito un bel nulla di quel che sta sostenendo l'altro interlocutore. Tenuto da parte per un momento questo principio di cui parli, che non è mai stato tra queste righe (da parte mia) argomento di discussione, quello di cui si sta parlando è una cosa completamente diversa: ovverossia il fatto che siano le altre persone a non avere diritto di dirporre di me e del mio corpo a loro piacimento, come e quando vogliono. È ben diversa la cosa, e se dopo ore e ore di scambi e letture non lo hai ancora compreso mi sembra un bel problema, che pregiudica di molto ogni senso all'esistenza di uno scambio di opinioni tra me e te.
È un principio di libertà, quello di cui si parla. Si sta parlando, e dimenticarlo è un po' da imbroglioni, della pretesa di non poter rinunciare a certe cure mediche imposte dagli altri. Questo non è un voler disporre, ma un non volersi sottomettere a che gli altri dispongano. Quello che chiami "disporre della propria vita", qui, non è altro che il diritto a chiedere che la vita faccia il proprio corso e che non siano degli estranei a disporne con autorità pressocché assoluuta (nel bene e nel male).
Ovviamente la tua risposta mi conferma anche che, come accade di sovente in questi contesti, si usano spesso pretesti belli e buoni per difendere altre opinioni: non c'entra un bel nulla con la tua posizione se - o meno - si abbia accesso a cure degne. Tu sei contraria alla libertà di rifiutarle e basta. Punto. Perché per te rifutarle è sinonimo di disporre di un qualcosa di non cui non si dovrebbe. Non capisco perché allora devi dissimulare per far credere il contrario (a proposito, se citi le parole di un'altra persona, senza commenti, mi sembra abbastanza ovvio, secondo le regole tipiche della comunicazione, che tu le approvi). Per l'ennesima volta, col mio invito a dirci cosa ne pensi veramente, ti sei fatta stanare. Purtroppo questo modo di argomentare, per esempio dicendo falsamente di essere disposti a difendere un diritto "a patto che" quando invece non lo si è, lo trovo intellettualmente molto disonesto.
"la discussione sull'autodeterminazione perderebbe all'istante molti partecipanti, diventerebbe una discussione teorica fra pochi filosofi"
Ho forti sospetti che non hai nemmeno idea di quanto ti sbagli. Ma presto, vedremo, ne avremo la prova alla conta. Personalmente a me lascia alquanto basito l'illusione dei cattolici più oltranzisti di avere alle loro spalle anche tutta l'altra massa di cattolici.
A proposito poi del tuo ribaltamento dei fatti storici: io ho ben argomentato come e perché nella pratica le enunciazioni dei diritti (tra cui quello di un sistema equo di controllo della loro applicazione) li abbiano resi effettivi. Il tuo replicare a fatti storici ben documentati con un "nella teoria sì nella pratica no" mi fa venire un lievissimo sospetto che non ti trovi molto a tuo agio nel campo della dialettica adogmatica, dove si guarda senza preconcetti ai fatti accaduti.