giovedì 12 novembre 2009

Eugenia Roccella e il caso Cucchi

Cos’ha da dire il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella, sul caso di Stefano Cucchi, il giovane massacrato di botte mentre si trovava in custodia cautelare e morto all’ospedale Pertini di Roma? Vuole forse spendere qualche parola contro i medici che hanno lasciato morire Cucchi senza intraprendere tutte le misure atte a salvarne la vita? In un certo senso sì; ma per la Roccella la colpa dei medici consisterebbe sorprendentemente nell’aver rispettato il consenso informato. Scrive infatti sul Riformista di ieri («Cucchi andava curato pure contro la sua volontà», 11 novembre 2009, p. 6):
Non è ancora chiaro se Cucchi abbia effettivamente firmato il foglio con cui negava l’autorizzazione a informare i parenti, ma non abbiamo motivo, a oggi, di dubitare delle dichiarazioni degli operatori sanitari circa il suo rifiuto delle cure, del cibo, dell’idratazione per endovena. Cucchi, dicono, ha mantenuto la sua lucidità per tutto il tempo, e fino alla fine, lucidamente, non ha voluto le terapie, mostrando disinteresse per la propria salute. Ma anche se così fosse, se Stefano avesse firmato tutti i consensi informati possibili, e davvero si fosse lasciato andare alla disperazione, basterebbe questo a giustificare umanamente, e non solo burocraticamente, la sua morte?
Dopo aver elencato alcuni casi controversi di rifiuto delle cure, compreso per ultimo quello di Eluana Englaro, scrive ancora:
Oggi c’è il caso, del tutto speculare, di Stefano, che forse ha rifiutato consapevolmente acqua e cibo. Ma di fronte a una persona sola e provata, a un ragazzo fragile, non era più giusto ribellarsi, intervenire, rischiare una solidarietà magari non voluta?
Lo scopo della Roccella sembra essere duplice: da un lato, sotto l’apparenza di far loro un rimprovero, si assolvono sostanzialmente i sanitari – ma anche si attenua, senza parere, la responsabilità di chi ha provocato le lesioni al giovane; Stefano Cucchi, per il sottosegretario, si è praticamente suicidato. Dall’altro lato, e soprattutto, si cerca di segnare un punto nella diatriba in corso sull’autodeterminazione del malato, facendo leva sull’emozione suscitata dal caso Cucchi proprio in coloro che sono favorevoli a lasciare al paziente la più ampia possibilità di scelta.

Sfortunatamente per la Roccella, però, la vicenda di Stefano Cucchi è estremamente diversa da quella di un malato che sceglie di non proseguire i trattamenti sanitari per salvaguardare la propria visione di ciò che costituisce una vita degna di essere vissuta. Se si sfoglia la corposa documentazione clinica del caso (PDF, 12MB), meritoriamente raccolta e messa a disposizione da Luigi Manconi e dall’Associazione A buon diritto, ci si rende conto che il rifiuto delle terapie e dell’alimentazione non era altro che un mezzo disperato messo in opera da Stefano Cucchi per poter parlare con il proprio legale. A p. 27 del file troviamo infatti il diario clinico relativo al 21 ottobre, in cui un medico ha annotato di proprio pugno: «il paziente rifiuta perché vuole parlare prima con il suo avvocato e con l’assistente della comunità CEIS di Roma [una comunità di assistenza ai tossicodipendenti]». Lo stesso concetto è ripetuto in un fax inviato lo stesso giorno dall’ospedale al Tribunale di Roma (p. 30). (Un ulteriore motivo alla base del rifiuto sembra consistere in alcune informazioni errate che Stefano Cucchi aveva sulla celiachia di cui soffriva: il giovane, come nota il diario clinico alla stessa pagina 27, credeva di non poter mangiare riso, patate e carne.) Il dovere dei medici, dunque, era di attivarsi immediatamente per procurare un contatto del legale di Cucchi con il suo assistito, e non certo di sottoporre il giovane all’alimentazione forzata, atto vietato dal Codice di deontologia medica, mentre il codice di procedura penale (art. 104, c. 1) stabilisce che «L’imputato in stato di custodia cautelare ha diritto di conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della misura» (non mi risulta che sussistessero le «specifiche ed eccezionali ragioni di cautela», previste dallo stesso articolo, che sole possono far dilazionare l’esercizio del diritto di conferire con il difensore). Non so cosa abbiano fatto i medici, ma in ogni caso era troppo tardi, perché il giorno dopo Stefano Cucchi moriva per una crisi cardiaca.
È importante notare che il sottosegretario sembra conoscere questo diario clinico, visto che ne cita quasi alla lettera un passo: si confronti la frase «mostrando disinteresse per la propria salute» della Roccella con l’annotazione «il paziente tuttavia esprime verbalmente disinteresse per le proprie condizioni di salute» a p. 26 del file. E del resto del rifiuto delle terapie allo scopo di poter parlare con il proprio avvocato si era parlato nei giorni precedenti (si veda il pezzo dello stesso Riformista, 10 novembre, p. 7). Ma delle circostanze più scomode per la sua tesi Eugenia Roccella non fa parola...

Quello prefigurato dalla Roccella è una sorta di ciclo integrale della violenza di Stato: lo Stato che prima viola l’integrità corporea di chi si trova in sua balia, rompendogli (letteralmente) la schiena a furia di percosse, la dovrebbe violare poi una seconda volta cacciandogli nel naso un sondino per l’alimentazione forzata; alla violazione delle libertà fondamentali (che la Roccella ovviamente condanna) si risponde non ripristinandole, ma procedendo a un’ulteriore violazione (che la Roccella loda). I diritti dileguano; il linguaggio dello Stato rimane unicamente quello del puro dominio, declinato ora nella forma più brutale delle legnate, ora in quella più ipocrita delle cure obbligatorie.

9 commenti:

  1. Qui si parla di una data in novembre, credo che si intendesse ottobre.

    Quando si sia in grado di determinare che il paziente potrebbe essere in una condizione alterata - e temporaneamente tale - della propria personalità può effettivamente porsi il problema di quale sia la strategia da seguire. Ammesso, ovviamente, che sia impossibile rimuovere la causa dell'alterazione. In questo caso la causa era probabilmente rimovibile. Tuttavia non so se fosse tale per i medici: i medici avevano il potere e la possibilità di soddisfare alla richiesta del paziente riguardo l'avvocato?

    In ogni caso, anche in questo caso, non so quanto fosse applicabile questo giudizio, perché il ragazzo era probabilmente perfettameente conscio di quello che stava facendo e stava verosimilmente agendo in armonia, e non opposizione, alla proprio modo di sentire e alla propria personalità.

    Comunque l'analisi mi pare fatta bene: prima lo Stato gli rompe le ossa, poi gli nega un diritto che è anche la causa del rifiuto ad alimentarsi; ed infine sarebbe chiamato a sancire l'insussistenza di tale diritto imponendo un'ulteriore violazione? Ricorda molto metodi barbari.

    RispondiElimina
  2. @Paolo:

    giusto, era ottobre. Ho corretto.

    Non sono un esperto di procedure, ma mi sembra indubbio che i medici, una volta saputo del desiderio del ragazzo di parlare con il proprio avvocato, avrebbero dovuto fare immediatamente qualcosa per soddisfarlo, magari anche solo girando la richiesta a chi di dovere; altrimenti arriveremmo al paradosso che in una struttura ospedaliera di detenzione i diritti fondamentali sono violati.

    In ogni caso, lo scopo del post non è di dare la colpa a qualcuno (come ho scritto, non so cosa abbiano fatto i medici), ma solo di indicare che cosa si sarebbe dovuto fare al posto di ciò che la Roccella vorrebbe si fosse fatto.

    RispondiElimina
  3. Spero non ti offenderai se non leggo le parole della Roccella oltre le prime righe, ma credo di capire dove vuole andare a parare. Perché mi fa veramente male che si speculi politicamente sulla pelle di un giovane in difficoltà probabilmente ammazzato a botte e lasciato morire da pezzi dello Stato.

    RispondiElimina
  4. @ Giuseppe

    Anche io non so quali siano stati i fatti né quali siano le procuedure. Ma stavo supponendo: i medici avevano comunicato la richiesta, ma in quel frangente non avevano i mezzi (legali o materiali diciamo) per far materializzare l'avvocato al cospetto del giovane. In altre parole: non avevano la certezza di poter fare in modo di soddisfare la legittima richiesta del paziente, in tempo utile. A quel punto la cosa non sarebbe stata molto diversa da "cause di forza maggiore": cioè la condizione che ingenerava in Cucchi quella sua ferma volontà era temporanea ma non immediatamente rimuovibile (un tal funzionario esterno non si decideva ad acconsentire a quanto dovuto, le mie sono iptesi scolastiche).
    A quel punto i meidici potrebbero essersi trovati concretamente di fronte al (non facile?) dilemma: il ragazzo mostra una ferma volontà, ma tale volontà non corrisponde ad un genuino desiderio di lasciarsi morire pur essendo questo un rischio, e al tempo stesso non siamo in grado di rimuovere la causa della sua determinazione transitoria.

    Poi, in un senso generale, cioè facendo la somma di tutti gli attori e di tutti gli accadementi, l'analisi del post è certamente lucida: dal punto di vista di Cucchi i fatti sono stati esattamente quelli lì.

    RispondiElimina
  5. i medici hanno fatto un fax al tribunale per comunicare che Cucchi voleva vedere l'avvocato.
    Poteva fare di piu'?

    RispondiElimina
  6. Quanto detto dalla Roccella è più pericoloso delle dichiarazioni di Giovanardi

    RispondiElimina
  7. E' davvero particolarmente repellente che la morte di qualcuno a seguito di uno sciopero della fame o del rifiuto di terapie causati dalla violazione delle garanzie *legalmente previste dall'ordinamento vigente a suo favore* (e di cui nessuno mi pare chiede l'abolizione...) non sia addebitata a tale violazione, ma al fatto che le norme non consentano (fortunatamente) di ignorare tale rifiuto...

    Mi pare siamo nel campo della teoria difensiva per cui la responsabilità dell'omicidio a scopo di rapina non è del rapinatore, ma della vittima che rifiuta di consegnare spontaneamente la refurtiva.

    RispondiElimina
  8. tale teoria a quanto pare la stanno sposando gli inquirenti che hanno indagato i medici (oppure ho capito male?)

    Riguardo al problema di intervenire sul paziente contro la sua volonta', il caso in questione un dubbio lo pone.
    Nel caso di Welby, Riccio ha certamente agito quando la volonta' di Welby era assolutamente certa e non imputabile, per dire, a uno scoramento che potrebbe essere stato transitorio.
    In un caso come quello di Cucchi, un medico potrebbe, estremizzando, trovarsi a dover intervenire entro un'ora per salvare il paziente e a giudicare, legittimamente, che il paziente stia rifiutando l'intervento a causa di uno stato temporaneo.
    In una situazione simile, a seconda anche delle caratteristiche, tra cui la reversibilita', dell'intervento richiesto, il medico potrebbe comprensibilmente essere tentato di agire lo stesso.

    RispondiElimina
  9. Paolo C: ho letto che effettivamente questo sarebbe l'indirizzo degli inquirenti. A me continua a sembrare una follia: un medico non può afferrare un paziente e alimentarlo contro la sua volontà, senza infrangere il proprio codice deontologico (art. 53) e la legge, che per i trattamenti sanitari obbligatori impone che ci si rivolga prima a un magistrato; solo che a quel punto non si capisce perché non chiamare invece quel benedetto avvocato.

    Questo non vuol dire naturalmente che i medici non siano colpevoli di qualcosa: come minimo hanno sottovalutato la gravità delle condizioni di Stefano Cucchi, e non hanno (a quel che pare) fatto nulla per conquistare la fiducia di una persona che aveva serissime ragioni per diffidare delle autorità.

    RispondiElimina