martedì 3 novembre 2009

Vi perdono: un romanzo post-cristiano

Ilaria, detta Miele, è una giovane donna che aiuta i malati senza speranza a morire. Clandestinamente, fra mille precauzioni, con farmaci acquistati in Messico; non (solo) per denaro, ma per alleviare il ricordo della madre, morta fra lunghe sofferenze senza possibilità di aiuto. Ilaria/Miele è la protagonista del romanzo Vi perdono (Einaudi 2009, pp. 164, Euro 16,00), di Angela Del Fabbro, nom de plume di una scrittrice (scrittore?) che ha scelto di rimanere anonima.
Può sembrare strano per un romanzo che non volge altrove lo sguardo quando si tratta di descrivere tecniche eutanasiche o corpi colpiti dalla malattia, ma Vi perdono è uno di quei libri che è difficile mettere giù anche solo per un attimo prima di averli finiti. Forse è per l’ansia di lasciarsi rapidamente alle spalle quelle pagine angosciosamente realistiche; forse è per la scrittura impeccabile, alla quale al massimo si può rimproverare di comunicare talvolta una sia pur indefinibile sensazione di deja vu (ma può darsi che questo accada perché l’autrice, che non sembra un’esordiente, avrà già dato altre prove letterarie); forse è per il guizzo della trama che a un tratto pone sulla strada di Miele la figura di Augusto Grimaldi, ingegnere in pensione con la passione per Virgilio, che vuole morire per taedium vitae, senza essere affetto da malattie di sorta. Ma non sta qui, nel dilemma morale se sia lecito aiutare a suicidarsi una persona perfettamente sana (dilemma che l’autrice del resto lascia sospeso), l’interesse principale del romanzo.

È frequente, per chi argomenta a favore dell’eutanasia e più in generale del diritto a disporre del proprio corpo, presentare la propria posizione come quella di una minoranza, degna di rispetto a fianco di altre, opposte concezioni. Ma leggendo Vi perdono, con le sue rappresentazioni mai morbose ma tuttavia realistiche di disfacimento e di dignità offesa, è inevitabile giungere a considerare l’eutanasia come l’unica risposta veramente possibile al problema della sofferenza ineliminabile. Unica a causa della comune natura umana, della carne e del sangue che più di tanto non resistono agli insulti, e soprattutto dello spirito che non riesce più di tanto a piegarsi – anche se poi il terrore del nulla, la speranza irrazionale o, più banalmente, la difficoltà di trovare al momento giusto una misericordiosa Miele ci trattengono fino al limite estremo.
In questo senso Vi perdono è un romanzo post-cristiano: perché le ragioni contrarie all’eutanasia e al suicidio assistito sbiadiscono inevitabilmente di fronte alla terribile concretezza della dignità offesa dei corpi che il romanzo ci propone, e non riescono più a succhiare energia da un serbatoio ideologico che palesemente è ormai svuotato. Non occorre nemmeno una polemica esplicita, e non solo perché non abbiamo di fronte un pamphlet: quelle ragioni possono essere trascurate, tanto appaiono remote nella loro strana arcaicità. La guerra è, in un certo senso, già vinta.
Di questo sembrano in qualche modo essersi accorti i recensori cattolici: abbiamo così i fraintendimenti un po’ patetici di Famiglia cristiana, i tentativi di volgere il romanzo a una tesi più gradita di Lucetta Scaraffia, la pagina gonfia di livore di Nicoletta Tiliacos. (I laici non sono stati a dire il vero molto più simpatetici: si va dalla lettura corretta ma un po’ distaccata di Adriano Sofri all’intervista di un Michele Smargiassi che tenta in tutti i modi di far convenire l’autrice sulla propria errata interpretazione.)
Ma è questo anche un romanzo anti-cristiano? No, anzi. Del Fabbro giunge alla fine a una visione riconciliata del cristianesimo come bella invenzione che sottrae chi ci crede al terrore della fine: «Vi perdono» sono le parole che Miele rivolge infine a «stregoni, guerrieri, pastori» della fede. Una visione che è anche profondamente distaccata.
Per Miele infatti la morte non è schermata da care illusioni: è una cosa orribile, ingiusta, oscena, che non meritiamo, e che nulla allevia, neppure l’amore. Tutti gli aspiranti suicidi del romanzo hanno accanto chi li ama o chi offre loro amore, ma senza che questo cambi alcunché. Ed è il contatto prolungato, intimo con la morte, non altro, che alla fine piega Miele. L’unico rifugio sembra essere la narrazione: Ilaria/Miele/Angela comincia a scrivere, a confidare i segreti fino ad allora inconfidabili; noi leggiamo, e ciò che avremmo detto insostenibile ci sembra improvvisamente sopportabile, una storia di cui vuoi sapere la fine. La vecchia catarsi pare funzionare ancora – ma conviene sempre comunque tenere i barbiturici messicani a portata di mano, in fondo all’armadietto dei medicinali.

4 commenti:

  1. Non ho letto il romanzo quindi non sono in grado di valutare quanto siano da considerare "fraintendimenti" certe interpretazioni. Tuttavia, se Miele si ferma di fronte alla richiesta di una persona sana, non è forse vero che rischia di crollare tutto l'edificio giustificativo dell'eutanasia per i malati terminali? Se si ferma difronte a un sano mette in discussione anche quello che fa per i malati. O, capovolgendo l'argomentazione, se si è liberi di decidere come morire lo si è sia da malati terminali che da sani.

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  2. Non vorrei svelare la trama a chi deciderà di leggere il libro; mi fermo quindi un attimo per far sì che chi vuole possa saltare il mio commento.




















    Diciamo allora che Miele in realtà non si ferma affatto di fronte alla richiesta di Grimaldi; casomai indugia (anche se il finale rimane assai ambiguo).

    In ogni caso, va detto che questo è un romanzo, non un trattato di filosofia. Non presenta quindi argomentazioni, ma descrive personaggi. E mi pare abbastanza naturale per chiunque indugiare di fronte alla richiesta di morire di un uomo provvisto di una salute di ferro. Mentre per il malato terminale si sa che le sue sofferenze sono intollerabili e che nulla si può fare per alleviarle, nei confronti di chi è semplicemente stanco della vita si avrà sempre il sospetto che la situazione non sia poi così grave, che si possano offrire nuovi motivi per vivere (è quello che tenta di fare la protagonista del romanzo).
    Questo è ovviamente poco rispettoso della libertà altrui e può suonare paternalistico, ma sembra anche in qualche modo una reazione umana inevitabile. E va detto che Miele non mette in dubbio il diritto di Grimaldi di suicidarsi; semplicemente non vuole esserne lo strumento.

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  3. Credo che sia la prima volta, o una delle uniche, in cui mi ero convinto di stare leggendo il post dell'altro autore del blog rispetto a quello reale.

    Anch'io premetto che non ho letto il libro, ma ho letto i vari commenti. Posso dire che quello di Famiglia Cristiana non mi è sembrato poi così malvagio; quasi quasi lo preferisco pure a quello di Smargiassi che sembra per forza voler far dire al romanzo che esso deve la sua esistenza alla necessità di esprimere una posizione sulla legislazione. Un po' come intervistare Manzoni e cercare di fargli dire che lo scopo vero dei Promessi Sposi fosse quello di invitare ad una riflessione su una buona legge che regolasse il divorzio. Credo che sia un segno, anche da parte laica, di come la faccenda eutanasia (ecc.) sia ormai svestita di qualunque connotato sentimentale, tanto che persino un romanzo non può più essere semplicemente narrazione. Se non altro, a modo suo, Famiglia Cristiana cerca comunque di approfondire questo aspetto più umano, collocando il romanzo in una dimensione più appropriata di quella della contrapposizione legalistica ad ogni costo.

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  4. Paolo:
    "Credo che sia la prima volta, o una delle uniche, in cui mi ero convinto di stare leggendo il post dell'altro autore del blog rispetto a quello reale".

    Interessante. :-) Qualcun altro ha avuto la stessa impressione?

    Su Famiglia Cristiana: a chi ha letto il romanzo una notazione come "E poi la punge il sospetto che il dolore e la morte rientrino nel disegno misterioso e imperscrutabile di un Dio" fa proprio cascare le braccia. Del resto anche Del Fabbro nell'intervista a Repubblica ne ha trovato un po' sorprendente l'interpretazione.

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