Ieri ho ricordato al mio rappresentante fiduciario per le decisioni sui trattamenti sanitari il luogo in cui conservo le mie direttive anticipate. Prego – sì, lo faccio anch’io – che se dovessi rimanere vittima di un incidente d’auto, come lo è stato Houben tanti anni fa, io possa essere sottratta ad ogni sostegno vitale artificiale. Non mantenuta in vita per essere accudita dalla mia famiglia e dai miei amici, non rinchiusa artificialmente in un corpo deforme, in isolamento per 23 anni, non catechizzata dai medici o dalla Chiesa o dallo Stato sul modo in cui dovrei vivere.
Questa non è una dimostrazione dei miei «pregiudizi sulla qualità della vita», non è depressione o odio di sé, non è discriminazione nei confronti di Houben o di altri membri disabili della società, non è adesione alla «cultura della morte», o negazione dell’onnipotenza divina, o compiacenza per l’allontanamento della medicina dal modello ippocratico (una colossale sciocchezza); non è paura di essere un peso o paura che un’infermiera mi pulisca il culo, non è nulla di ciò che quelli che lavorano per imporre la propria virtuosa pietà sui malati chiamano «disprezzo della vita». È un mio diritto morale. E non amo per questo di meno la vita, ogni vita.
Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano
John Stuart Mill, La libertà
lunedì 14 dicembre 2009
Un diritto morale
Considerazioni estremamente condivisibili (e molto eloquenti) in margine al caso di Rom Houben, l’uomo belga vittima di un incidente 23 anni fa e rimasto da allora paralizzato e incapace di comunicare con il mondo esterno (Ann Neumann, «Why The Case of Rom Houben Resonates», Otherspoon, 5 dicembre 2009):
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