martedì 23 agosto 2011

Il codice etico universitario serve?

«Distruggono l’Ateneo per trovare un posto ai loro figli» titolava la Repubblica di Bari il 5 marzo 2005. E nell’articolo si leggeva: «È diventata poco più di un liceo. Negli ultimi cinque anni l’Università di Bari è stata distrutta da una gestione protezionistica e inadatta ad affrontare il mercato dell’alta formazione». Sotto accusa la Facoltà di Economia per lo scandalo della parentopoli barese. Ci fu un grande dibattito anche all’esterno dell’Università, con il Comune di Bari che impose l’adozione di un Codice etico, per continuare a erogare il finanziamento ad alcune ricerche. E così, nel dicembre 2007 fu approvato “Il codice dei comportamenti”, uno dei primi in Italia. Qualche traccia di quel clima è rimasta nell’articolo qui riproposto di Bartolo Anglani (Corriere del Mezzogiorno, 23 dicembre 2005), la cui lettura ci riporta all’università di Siena, dove il Codice etico è stato adottato con quattro anni di ritardo e perché imposto dalla legge Gelmini. Ma un codice etico serve o no? «È una foglia di fico per i mali dell’università» come dice Anglani oppure è «uno strumento per redimere intrallazzatori e nepotisti», come scriveva Lucia Lazzerini, e per rifarsi la verginità? Utile, a questo proposito, la lettura del testo licenziato dalla Commissione sul Codice etico dell’ateneo senese, che, nella versione approvata dagli organi di governo, ha ricevuto corpose integrazioni, a seguito di aspre critiche della comunità accademica ed extra.

Il codice etico non serve. È una foglia di fico per i mali dell’università

Bartolo Anglani. A cosa serve un codice etico? Se rispecchia e amplifica le leggi vigenti, è pleonastico; se va oltre le leggi o le mette in mora, è illegittimo. Tertium non datur. Un codice etico può essere solo individuale, come quando un docente rinuncia a far parte di una commissione perché teme di essere sottoposto a pressioni di colleghi. Altro è quando i contenuti “etici” diventano norme erga omnes. Quale valore costrittivo possono avere per chi non ne riconosce la legittimità? Quando le leggi sono sbagliate, ci si batte perché esse vengano modificate o abrogate, ma bisogna rispettarle finché esse sono in vigore: anche obtorto collo. Così, mi pare, dovrebbe accadere in una società democratico-liberale.
Il codice etico serve oppure è uno strumento per redimere intrallazzatori e nepotisti?, Giovanni Grasso, in Il Senso della misura, 22 agosto 2011.

1 commento:

  1. destynova25/8/11 19:08

    Ho l'impressione che si sia consolidata una visione dell'università che riconduce la quasi totalità delle sue carenze alla diffusa pratica del nepotismo.

    Sia chiaro, è un'impressione, quando si discute di università gli argomenti sono generalmente due, organigramma e soldi.

    Anche l'argomento sollevato in questo post riconduce tutto a un problema di assunzioni e di nomine. Non voglio certo arrivare a dire che i problemi sono altri semmai che anche la fissazione su queste tematiche è parte del problema che si denuncia.

    1) Non di solo nepotismo di muore all'università, i concorsi, per dottorato o per assegnista, sono pilotati anche quando non sono presenti parentele particolari, magari per meriti o per fiducia riconosciuti da qualche professore. Di questo si parla di meno, forse perché coinvolge la maggior parte del personale universitario...

    2)Ma se anche dottorandi e assegnisti venissero assunti secondo le regole, alla fine cosa faranno all'interno dell'università?

    3)Ma se anche professori, ricercatori e fauna varia venissero assunti secondo le regole e per meritocrazia, si comporterebbero diversamente da come fanno ora? Ci saranno dottorandi impegnati nella loro tesi e assegnisti che si occupano del progetto di ricerca che sulla carta giustifica la loro retribuzione? E nelle pubblicazioni non si andrà più a controllare l'ordine in cui compaiono le firme degli autori? E la didattica tornerà a essere un valore?

    Scusate la marea di domande retoriche, ma è deprimente che il dibattito sull'università non sia altro che la contrapposizione tra chi ha il proprio feudo e chi aspira ad avercelo.

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