È la crema (qualcuno – non io – potrebbe dire: la schiuma) dell’integralismo italiano quella che trova ospitalità nella
Bussola Quotidiana, «quotidiano cattolico di opinione online». Così, per esempio, nel numero di oggi Massimo Introvigne ci spiega perché sia stata buona e giusta la censura operata dalla Rai, che ha omesso di mandare in onda l’episodio di una serie televisiva in cui veniva rappresentato un matrimonio tra omosessuali («
Suore e gay, un ciclone alla RAI», 9 settembre 2011). Sempre nel numero di oggi, una vecchia conoscenza dei lettori di
Bioetica, Francesco Agnoli, illustra in un
articolo gli «inganni e danni collaterali» della fecondazione eterologa. Scrive Agnoli (corsivi miei):
La fecondazione eterologa prevede che una donna venda i suoi ovuli che serviranno ad un’altra al fine di concepire. […]
La prima domanda da porsi è questa: cosa accade alla venditrice? Si tratta di una vendita qualsiasi, come quella di un oggetto esterno, che non è parte della persona, o di qualcosa di profondamente diverso?
Sembra inevitabile rispondere nel secondo modo. Infatti la venditrice viene sottoposta ad una iperstimolazione ovarica particolarmente violenta, cioè viene bombardata di ormoni al fine di produrre non un ovulo, come avverrebbe in natura, ma molti di più (a seconda dell’etica e delle previsioni del medico). Sentiamo a tal proposito cosa può provocare la iperstimolazione ovarica dalle parole di un esperto come il dottor Carlo Flamigni, noto per la sua apertura alle pratiche di procreazione medicalmente assistita (PMA). Flamigni, nel suo “La procreazione assistita” (il Mulino, 2002), afferma che l’iperstimolazione ovarica sulla donna, preliminare a qualsiasi operazione di PMA, è “una sindrome pericolosa persino per la vita” (p. 29), “una complicanza abbastanza pericolosa” (p. 36). Infatti “l’ovaio cresce in modo anomalo fino a raggiungere un volume pari a quello di un grosso melone. Successivamente, e soprattutto se l’iperstimolazione è grave, si forma un’ascite e compaiono raccolte di liquido nelle cavità pleuriche e nel pericardio. Il sangue si ispessisce e perde proteine e la funzionalità renale diminuisce pericolosamente. A causa di grossolane anomalie della coagulazione si possono determinare trombosi e tromboflebiti, talché esiste addirittura un rischio di vita nei casi più sfortunati” (p. 63-64).
Anche il lettore completamente all’oscuro delle tecniche di procreazione medicalmente assistita non può fare a meno di notare una stranezza in questo brano: com’è possibile venire sottoposti a una «complicanza» o a una «sindrome»? E com’è possibile definire una «complicanza» qualcosa che sarebbe «preliminare a
qualsiasi operazione di PMA»?
Il fatto è che, contrariamente a quanto crede Agnoli (con molta tenacia, visto che scriveva le stesse identiche cose già anni fa: «
Il rischio tumore per le donne che accedono alla fiv»,
Libertà e Persona, 19 luglio 2009), «preliminare a qualsiasi operazione di PMA» non è l’
iperstimolazione ovarica, ma semplicemente la
stimolazione ovarica; l’iperstimolazione è appunto una complicanza che può far seguito a questa procedura – per fortuna sempre più raramente: nella seconda edizione del libro citato da Agnoli (2011, p. 64), Carlo Flamigni scrive che «oggi questo tipo di complicazione sta diventando sempre più raro (0,45% in italia nel 2008), a testimonianza di un continuo miglioramento complessivo delle tecniche».
Come è stato possibile per Agnoli confondere stimolazione con iperstimolazione, visto che la distinzione è chiarissima nel libro di Flamigni che cita (e nella stragrande maggioranza dei testi di informazione elementare sull’argomento)? La risposta potrebbe stare nel fatto che nella letteratura medica si trova talvolta usata l’espressione «iperstimolazione ovarica» (o «iperstimolazione ovarica controllata») per indicare non la sindrome ma la procedura di stimolazione dell’ovulazione. È un uso disorientante, e perciò abbastanza raro, che può forse spiegare lo svarione di Agnoli – ma che comunque non lo condona: la stimolazione rimane ovviamente cosa del tutto diversa dalla complicanza, anche se qualcuno le chiama con lo stesso nome.
Un po’ più difficile spiegare con un equivoco quello che Agnoli scrive di seguito al passo citato sopra:
A ciò si può aggiungere che l’iperstimolazione in vista della PMA comporta anche un rischio tumore, ai genitali o alle mammelle, magari nel lungo periodo (“Le Scienze”, Settembre 2004).
Andiamo dunque a cercarci l’articolo delle
Scienze; si tratta di «Sterili per legge», di Nora Frontali e Flavia Zucco (
Le Scienze n. 433, settembre 2004, pp. 58-63). A p. 62 leggiamo (corsivi miei):
Per accertare gli effetti a lungo termine è invece necessario seguire le donne per molti anni dopo il parto. Studi simili sono stati intrapresi, ma non hanno prodotto ancora conclusioni certe: si sospetta infatti che l’intenso trattamento con ormoni a cui sono sottoposte le donne per il prelievo degli ovociti possa provocare un aumento di tumori del tratto genitale o della mammella. Uno studio su larga scala condotto in Olanda a 5-8 anni dalla gravidanza non ha però rilevato alcun aumento del rischio di cancro della mammella o dell’ovaio in donne che erano state sottoposte a FIVET, a confronto con donne subfertili che non avevano ricevuto il trattamento.
Mi astengo da qualsiasi commento, lasciando le conclusioni al lettore. Aggiungo solo che appena sopra il passo citato, le due autrici delle
Scienze notano che
poiché la crioconservazione degli embrioni non è considerata ammissibile dalla nuova Legge [n. 40/2004], la donna sarà costretta [a] ripetere ogni volta il trattamento ormonale, rischiando nuovamente la sindrome da iperstimolazione ovarica e gli altri disturbi.
Si tratta della stessa legge che Agnoli magnifica per aver ridotto le complicanze... (fortunatamente, la sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la drastica limitazione che la legge 40 imponeva al numero di embrioni da crioconservare ha riportato le cose a posto).
Quanto al (molto ipotetico) rischio di contrarre il cancro in seguito all’applicazione delle tecniche di PMA, l’articolo più recente in materia è tranquillizzante (anche se non chiude ovviamente la questione): B. Källén e colleghi dell’Università di Lund hanno studiato un ampio campione di donne svedesi che si sono sottoposte alla fecondazione in vitro («
Malignancies among women who gave birth after in vitro fertilization»,
Human Reproduction 26, 2011, pp. 253-58). Queste donne mostrano sì un rischio più alto di cancro rispetto alle donne del campione di controllo, specialmente per il tumore alle ovaie, ma
prima di praticare la FIV; questo si spiega con il fatto che la malattia o la chemioterapia rendono spesso la donna sterile. Dopo la FIV, il rischio appare
inferiore rispetto alle donne della popolazione generale che abbiano avuto un figlio, grazie soprattutto alla diminuzione del cancro al seno e alla cervice dell’utero (gli autori, prudentemente, ascrivono questo fenomeno un po’ sorprendente allo screening intensificato in queste donne, che può portare a eradicare all’esordio forme precancerose). Il rischio di cancro alle ovaie è ancora maggiore che nel campione di controllo, ma minore del rischio precedente alla FIV. Chissà se Francesco Agnoli parlerà mai di questo studio – e in quali termini...
Se la
Bussola Quotidiana selezionasse con più cura gli autori, farebbe un favore ai propri lettori, e anche a se stessa. Ma non accadrà.