Oggi a Roma si è svolta la terza edizione della
Marcia per la Vita. Obiettivo: eliminare la legge 194 sull’interruzione
volontaria di gravidanza.
L’appuntamento è per le 8
di questa mattina al Colosseo. Io arrivo verso le 9 e ci sono alcune persone
davanti all’uscita della Metro B, lungo via dei Fori Imperiali e intorno all’Anfiteatro
Flavio. Nei minuti successivi continueranno ad arrivare in tanti e da varie
direzioni.
C’era chi distribuiva
pettorine gialle per invitare a firmare la petizione “L’embrione è uno di noi”,
chi offriva scarpine di maglia in vari colori e troppo piccole anche per il più
minuto dei neonati in cambio di un’offerta libera, chi sventolava una bandiera,
chi preparava gli striscioni che entro qualche minuto sarebbero stati innalzati
su manici di scopa.
Un po’ più tardi del
previsto (9.30) il corteo è partito incanalandosi lungo via dei Fori in
direzione di Piazza Venezia. La via era ristretta da vari allestimenti sportivi
– perlopiù reti da pallavolo – e fino all’angolo con via Cavour le persone sono
passate sul lato sinistro per poi allargarsi nella parte finale. La Marcia è
poi stata diretta verso via delle Botteghe Oscure, largo di Torre Argentina,
corso Vittorio Emanuele per poi girare verso ponte Sant’Angelo e arrivare sullo
spiazzo di fronte a via della Conciliazione. La destinazione finale era San
Pietro e la fine dell’Angelus.
Oltre ai nomi delle
associazioni o agli apodittici “No all’aborto”, le scritte andavano da
“L’aborto non è un diritto ma un delitto!” a “Non sono un fatto politico. Non
sono un’invenzione della Chiesa. Sono un bambino guardami!! (con un’immagine di
un feto che si ciuccia il pollice)”, da “La vita inizia col concepimento” a “Salviamo
le mamme e i bambini” – perché non è mica soltanto il nascituro a dover essere
salvato, ma anche la donna, poco in grado di decidere e di capire che
interrompere una gravidanza non è solo inammissibile moralmente ma è da
autolesionista. Al richiamo ontologico si somma quello paternalistico: vogliamo
impedirtelo per il tuo bene, non solo perché è sbagliato.
Camminando tra le persone
e tra simili cartelli, si potevano sentire anche slogan simili urlati con o
senza l’aiuto di un altoparlante, qualche volta coperti dalla banda in testa al
corteo. “Ogni aborto è un bambino morto!”. Oppure: “Dal Colosseo dei
martiri, ai papi di San Pietro! La marcia per la vita non torna indietro!”, “Ateo o credente non importa
niente! A morire è sempre un innocente!”,
“Donna che hai abortito, per te non è finita. Vieni insieme a noi,
e marcia per la vita!”.
La retorica “prolife” è fondata su malintesi e punta a suscitare
reazioni immediate, poco importa se gli strumenti sono oppressi da fallacie e
dalla disattenzione verso le conseguenze. Come l’identificazione tra “embrione”
e “bambino”, o come il richiamo all’omicidio e al genocidio (coerente conseguenza
ammessa la premessa, ma discutibile se la premessa rimane sospesa). È il caso
di un cartello sorretto da una bambina con la scritta in stampatello: “Se fossi
nata in Cina sarei morta piccolina. Sono felice di essere nata”. Sotto alla
scritta dodici infanti con i fiocchi alternati rosa e azzurri. Oppure la
scritta “Basta genocidi silenziosi” (mi auguro che anche eventuali genocidi non
silenziosi non vadano bene).
Oltre agli slogan in tema, c’era anche un cartello su Eluana
Englaro, “Vittima innocente dell’eutanasia. Voleva e doveva vivere”. Se
avessimo ancora qualche dubbio, la questione non è tanto – o almeno non solo – la
difesa degli embrioni, ma il controllo delle decisioni che le singole persone
potrebbero esercitare. Per dirla con uno slogan: “Vogliamo difenderti dagli
altri e poi da te stesso, dal concepimento alla morte naturale”. E non importa
se non è chiaro perché qualcuno dovrebbe venirci a dire se e come morire, non
importa se il richiamo al “naturale” non ha alcun senso (quale sarebbe una
morte naturale?, e perché qualcosa che è naturale dovrebbe essere preferibile
intrinsecamente e considerata moralmente benigna?), non importa se “vita” è un
termine ambiguo e impreciso, non importa se l’alternativa
all’autodeterminazione è il paternalismo legale o peggio l’imposizione – ciò
che importa è che lo slogan funzioni: giù le mani da te stesso e giù le mani
dall’embrione (che per ora è ancora così tanto legato a te da essere
difficilmente separabile).
Non so quanti dei partecipanti fossero pienamente consapevoli
per quale fine stessero marciando e che cosa comporterebbe l’abolizione della
legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza – obiettivo politico e
morale della Marcia.
Tra le incoerenze più ricorrenti – non solo oggi tra i marciatori
ma tra i tanti fautori del “no alla 194” – c’è la convivenza tra la richiesta
di abolire la 194, riportando così l’interruzione di gravidanza nel dominio dei
reati, e il rifiuto di condannare le donne (per strategia?, per misericordia?).
La convivenza cioè tra un reato e l’assenza di pena – caso unico nel panorama
penale, per cui non basterebbe invocare le attenuanti. È la stessa comoda
incoerenza che caratterizzava la lista di Giuliano Ferrara “Aborto? No, grazie”:
l’aborto è omicidio, le donne però non sono punibili e non le puoi nemmeno
chiamare assassine. E non si capisce come si possa commettere un reato e
contemporaneamente non essere rei, a meno che non si pensi che il reo sia
intrinsecamente non in grado di intendere e di volere ma qui la situazione si
complicherebbe ulteriormente.
Qualcuno ha la tentazione di pensare che in fondo potrebbe
andare peggio, ma accontentarsi di questa “eccezione” è pericoloso almeno
quanto giocare sulla difensiva sui diritti riproduttivi, ritrovandosi a dover
sempre invocare circostanze eccezionali e speciali per giustificare la
richiesta di ricorrere alle tecniche riproduttive, di interrompere una
gravidanza, di non proseguire un trattamento sanitario.
Non so se questa incoerenza è un sintomo di un’adesione formale
o di una disattenzione più strutturale. Il risultato è uno spettacolo un po’
buffo, un po’ triste, un po’ manieristico. E dopo qualche ora di marcia sotto
al sole e sotto ai cartelli “prolife”, la convinzione che non esista
possibilità di discussione è talmente assoluta da risultare banale. Come lo è
chiedere a un creazionista di discutere con un evoluzionista, conservando
l’ingenua convinzione che tutto possa funzionare come un dibattito televisivo
indigeno: tu sei a favore o sei contro?
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