Chi però, incoraggiato dal titolo promettente, si aspettasse di trovare qualche comica bizzarria nel libro appena uscito di Mario Adinolfi, Voglio la mamma (Tricase, Youcanprint Self-Publishing, 2014, pp. 122, € 13,00) rimarrebbe deluso. Le fallacie logiche, le informazioni false e i non sequitur abbondano, è vero; ma è tutto già sentito, consunto dall’uso ripetuto. Nella discussione sul matrimonio per gli omosessuali, ad esempio, l’autore spara a raffica, in rapidissima successione, la vecchia fallacia etimologica («non c’è matrimonio senza “mater”»), la fallacia del piano inclinato («Se un bambino riceve amore uguale a quello di una madre e di un padre da due papà, perché non […] dal papà che ama tanto il proprio cane e vuole che la sua famiglia sia composta dal papà, dal cane e dal bambino ottenuto da una madre surrogata?»; il matrimonio con i cani non manca mai, in questo genere di argomento), la tradizionale fantasia paranoica di ogni integralista che si rispetti sulla proibizione incombente o già in atto di usare le parole mamma e papà («Vogliono cancellare persino la parola mamma […]. Chi è di sinistra non priverebbe mai un soggetto debole, debolissimo come un bambino del suo diritto a chiamare mamma [sic]»), l’inane conta dei numeri («[In] Olanda, si è passati rapidamente dai 2.500 matrimoni tra gay o lesbiche celebrati nel 2001 ai 1.100 del 2005»: si sa, le minoranze troppo ristrette non dovrebbero avere diritti, che spettano veramente solo a quelle più sostanziose, e meglio ancora alle maggioranze), la gag dei registri comunali delle coppie di fatto («dove sono stati istituiti sono clamorosamente vuoti: nessuno si è iscritto»: forse perché non conferiscono nessun vero diritto?). Vecchie barzellette, che non fanno più ridere.
C’è un tentativo di umorismo originale, ma il risultato è alquanto fiacco:
Se il vincolo matrimoniale non è più quello tra un uomo e una donna, il diritto alla successione riguarderà prima di tutto il coniuge. Ho un amico ricco e anziano, che fin dai banchi del liceo ha come migliore amico un suo compagno sostanzialmente nullafacente che vive di espedienti. Gli ha dato rifugio in casa, una casa enorme e vivono sotto lo stesso tetto. Da più di cinque anni ormai. Mi racconta sempre il mio amico ricco che spera da tanto tempo la [sic] legge sul matrimonio omosessuale perché vuole lasciare l’eredità e soprattutto la sua pingue pensione all’amico, non a quella megera della ex moglie e alla di lei (e di lui) prole, da lui qualificata come avida e ingrata. Anche qui c’è un lato glamour, anche se il mio amico non è per niente gay, anzi. Io vedo però diritti negati e anche un’opportunità: alla dipartita del mio amico anziano, andrò io a convivere nell’enorme casa con il suo amico, che è più anziano di me di vent’anni e morirà presumibilmente prima di me, lasciandomi avendomi omosessualmente sposato il diritto alla pingue pensione reversibile. E così via.Si può sorridere di fronte alla buffa pretesa di Adinolfi di decidere lui chi sia degno o meno di ricevere la pensione dell’amico, o di fronte alle sue informazioni non proprio esattissime (tutti o quasi sanno che chi si risposa perde il diritto alla pensione di reversibilità); e possiamo immaginare a quali goffi paralogismi ricorrerebbe se qualcuno gli obiettasse che la badante che riesce a farsi sposare dall’anziano rintronato non invalida l’istituzione del matrimonio eterosessuale. Ma appunto, di sorrisi si tratta, tutt’al più, non della sana risata liberatrice che ci coglie leggendo un articolo di Tempi o un post della Nuova bussola quotidiana.
Stessa storia nel resto del volume: dubbie informazioni («la morte che diventa “dolce” se a darla è lo Stato in una squallida clinica di una periferia svizzera»; ma l’associazione svizzera Dignitas è privata, lo Stato si limita a non interferire), bizzarre inferenze sui desideri altrui («Ho già raccontato la vicenda di Elton John e del suo compagno, desiderosi di essere papà e mamma»), equivoci linguistici («[I] cosiddetti “diritti civili”, che già solo nella definizione fa sorridere, come se esistessero diritti che sono incivili»), tentativi diretti di umorismo («Gli uomini sono uomini, le donne sono donne, la via per accertare la propria condizione di genere è nella stragrande maggioranza dei casi estremamente breve e intuitiva»), non riescono a imprimere il colpo d’ala che risolleverebbe il volume; come non ci riescono nemmeno gli ipse dixit, tanto pretenziosi quanto vistosamente non argomentati:
nessuna razionalità può segnare un momento in cui quella storia a [sic!] inizio che non sia l’istante del concepimento quando l’amore trasforma un uomo e una donna in una carne sola che si fa vita [per Adinolfi il concepimento si verifica nel momento del coito?]. Solo in quell’istante può essere rintracciato l’inizio della storia di ciascuno di noi, inventarsi la quattordicesima settimana o il novantesimo giorno per segnare un macabro confine tra morte possibile e vita inevitabile è semplicemente senza senso. O si ha un diritto di abortire sempre o non lo si ha mai. Io credo non lo si abbia mai.o le ricostruzioni grottescamente tendenziose della realtà:
La cultura dominante ci propone invece versioni scintillanti del percorso della transessualità, […] imponendo un modello per cui l’individuo può tranquillamente scegliere a quale genere sessuale appartenere, prescindendo dalla condizione naturale in cui è nato. Farsi donna se si è nati uomo o viceversa è quasi unanimemente considerato un percorso positivo [nella bibliografia Adinolfi cita un libro sul disturbo dell’identità di genere, evidentemente senza averlo letto].Tra i pochi momenti comici memorabili metterei soltanto un bellissimo malapropismo («Queste povere persone [i transessuali] sono costrette a comportamenti denigranti», corsivo mio), e alcune plateali contraddizioni: si confronti «nulla di quel che è contenuto qui ha a che fare con una dimensione religiosa» con
Perché devastare un istituto millenario come il matrimonio tra un uomo e una donna, desacralizzarlo negandone la radice di senso, per farlo utilizzare ad un pugno di gay per mere ragioni di bandiera ideologica? [corsivo mio]o meglio ancora con
A Roma lo scandalo passato alle cronache con il titolo orrendo delle “baby squillo dei Parioli” […] avrebbe dovuto sconvolgere il tessuto sociale di una città che è anche, non lo dimentichiamo, il centro religioso più importante del mondo occidentale.E si confronti anche
sono state costruite vere e proprie “fabbriche di bambini” con centinaia di donne trasformate in incubatrici viventi e umiliate a suon di dollari, euro e sterline nella loro dimensione più intimamente femminile, quella della maternità […] Le donne vengono cercate nei bassifondi della povertà estrema, pagate con il 10% dell’importo che viene lasciato dagli occidentali alla clinica, costrette [in che modo?] a portare avanti anche otto o nove gravidanze nell’arco di dieci anni.con
c’è da capire se c’è più libertà e potenziale progresso in una giovane madre che si smezza [sic] dalla mattina alla sera la propria famiglia e la crescita dei propri figli, riuscendo a non perdere la mitezza del suo essere femminile o se dobbiamo preferire quella femmina androgina capace di vendersi i figli per bisogno.Il problema del volume, in ogni caso, va ben al di là del fatto di fare poco ridere. Consideriamo affermazioni come queste:
Ma una mamma nell’intimo non può non sentire la voce della vita che ha in grembo, che le grida silenziosa: “Voglio te”. Voglio la mamma. Non la donna. Una donna può chiedere di avere il diritto di abortire. Una mamma non può neanche immaginarlo. […] Ma una donna abortisce, una mamma no.
Il politicamente corretto vuole che si usi l’espressione “le famiglie”, per far capire che l’istituzione familiare classica è ormai in disuso e che tutto è famiglia, anche una zitella con gatto.Già qui, in questo ergersi a giudice degli altri, a dividere in umani e meno umani, in fattrici degne e nubili indegne, da ridere non c’è proprio più nulla. Come non c’è qui:
nelle graduatorie per gli asili nido i figli di genitori single scavalcano i figli di famiglia numerosain cui è implicito che ai più deboli, in quanto «irregolari», vadano negati diritti di cui hanno più bisogno degli altri (o Adinolfi crede magari che le famiglie con un solo genitore siano in media più ricche di quelle «normali»?). Ma c’è molto, molto di peggio:
[È] una delle più grandi vergogne della contemporaneità raccontata invece come un decisivo elemento di progresso: l’affitto dell’utero di donne bisognose di denaro per portare a compimento gravidanze che la natura rende impraticabili, strappando poi il bambino pochi minuti dopo il parto e dopo un primo contatto tranquillizzante con il corpo della madre, per consegnarlo di solito ad una coppia di omosessuali benestanti che giocheranno a fare i genitori. Finché ne avranno voglia.Limitiamoci solo all’ultima frase: da quale abisso di odio – odio feroce, bestiale, spietato – può sgorgare una simile zaffata di pregiudizio, immotivato e indiscriminato? Adinolfi ci assicura, alla fine del libro, che in ciò che precede «Non c’è astio, non c’è faccia feroce»; excusatio non petita se mai ve ne fu una.
Ma il vertice (o il fondo), incredibilmente, non è ancora stato toccato.
In Olanda e tra poco anche in Belgio i bambini malformati che soffrano “livelli insopportabili di dolore” possono essere legalmente soppressi per decisioni assunte in ossequio alla nuova ideologia liberatoria di questo tempo: l’eutanasia infantile. Un avamposto di progresso, secondo molti. Io vedo molte mamme sobbarcarsi sacrifici immensi per proteggere bambini che soffrono molto, per proteggere il loro diritto alla vita, alla lezione immensa che quel dolore lascia in chiunque si avvicini, quando basta poi un accenno di sorriso di quel bambini per rischiarare la giornata più di cento raggi di sole.Per questo gran figlio di mamma, insomma, il dolore tremendo e immedicabile dei bambini serve: serve a comunicare una lezione edificante, serve – se accompagnato da «un accenno di sorriso» – a rischiarare la giornata a chi gli sta attorno. Serve, e quindi si giustifica. Per Adinolfi, bontà sua, «le terapie del dolore fanno passi da gigante di anno in anno. Investiamo su quelle»; ma nell’attesa (che potrebbe rivelarsi molto lunga), sfruttiamo pure quell’utile dolore. E se qualcuno protesta in nome di quei bambini torturati, accusiamolo pure di essere «disturbato dalla loro esistenza».
Il cerone del pagliaccio è colato via, rivelando un’espressione torva. No, non c’è davvero proprio più nulla da ridere.
Mario Adinolfi ha dato prova in molte e diverse occasioni del suo incastrare fra loro superfici di senso comune con lo scopo di dare apparenza di solidità strutturale alle sue uscite, finendo per partorire inezie che non hanno, pur nella loro insensatezza, nemmeno il fascino della mostruosità sublime o della trovata folle e curiosa, come se ne possono trovare presso gli integralisti diabolici (ma qui gioca un ruolo molto rilevante il continuo e sfacciato slittamento delle argomentazioni in discussione da parte degli smaliziati satanetti).
RispondiEliminaPerò capisco il sacrificio intellettuale di Giuseppe nel voler affrontare l'ultima opera dell'Adinolfi perché il titolo del libro, a pensarlo come una provocazioncella ironica, poteva di primo acchito promettere un pamphlet succoso di argomenti inediti quanto bislacchi, nuovi paradossi destabilizzanti e vigorosi détournement dalle banalità fin troppo rimasticate. Tra l'altro, sui siti cattointegralisti il libro è stato presentato - ed esibito - quasi con entusiasmo e non poca soddisfazione ("molto, molto interessante", dice Costanza Miriano; un certo risalto è dato alla voce "da sinistra, contro i falsi miti di progresso" sul sito italiano de La Manif pour tous). Malgrado i precedenti, da Adinolfi stavolta ci si poteva aspettare qualcosa di interessante ma a quanto pare no. Si vede che i cattointegralisti sono di bocca fin troppo buona, chissà perché. Sarà forse la penuria di argomenti?
«Si vede che i cattointegralisti sono di bocca fin troppo buona, chissà perché.»
RispondiEliminaIn effetti questo è un problema affascinante: perché il livello intellettuale e culturale degli integralisti è così basso? Uno sarebbe tentato di rispondere «perché se fossero intelligenti non sarebbero integralisti»; eppure ho la sensazione che il livello stia scendendo. Un'ipotesi è che sia la Casa Madre a perdere colpi. Una volta la Chiesa attirava energie intellettuali, specialmente tra le persone dei ceti più poveri, che per studiare dovevano andare in seminario; ma con la democratizzazione dell'istruzione - diciamo dagli anni '60 - questo serbatoio, almeno nei paesi occidentali, si è venuto esaurendo. Così, se paragoni per esempio il vecchio Monsignor Sgreccia - che aveva una sua dignità intellettuale, pur nell'errore - ai nuovi esperti clericali, noti la differenza; pensa all'invenzione dell'ideologia del gender, che notoriamente non esiste se non nell'immaginazione sovreccitata degl iintegralisti - una volta questo non sarebbe successo (credo), oggi te la ritrovi nei discorsi papali (del papa emerito, almeno). Se il messaggio di partenza è questo, al ragazzotto che straparla sulla rete cosa può arrivare?
Poi c'è anche una certa concorrenza a spararla grossa, credo perché in questo modo, stuzzicando le paure eminentemente piccolo-borghesi di questo strano mondo cattolico, alcuni hanno costruito una lucrosa carriera politica, e altri vorrebbero imitarli. E non dimentichiamo il basso livello delle scuole private cattoliche.
Ma, Regalzi, hai davvero letto tutto il libro di Adinolfi? Nemmeno la Binetti con il cilicio arrivava a farsi così tanto male da sola!
RispondiEliminaMi sacrifico per il bene comune... :-)
RispondiEliminaGiuseppe,
RispondiEliminaperché il livello intellettuale e culturale degli integralisti è così basso? [...] E non dimentichiamo il basso livello delle scuole private cattoliche.
Le spiegazioni che dai mi paiono molto realistiche sebbene l'assottigliarsi dello spessore intellettuale del dibattito su temi di pubblico interesse sembra riguardare le più diverse tematiche (vedi l'affaire Stamina). Che oggi gli intellettuali cattolici scarseggino o meno, mi pare di cogliere una precisa strategia nel fatto di proporre argomenti di scarso valore probante ma di grande efficacia retorica per la loro vicinanza al senso comune (vedi l'ingenua idea di legge naturale circa i rapporti sessuali tra donna e uomo, mai corroborata in modo convicente ma più spesso presentata come pura evidenza), scelta che presuppone un pubblico incapace di comprendere la complessità della materia ma sensibilissimo ai luoghi retorici più scontati, come la mamma che è sempre la mamma.
Ma può anche esserci il timore che esso pubblico sia, al contrario, perfettamente in grado di comprendere la debolezza degli argomenti degli integralisti qualora questi venissero dibattuti con rigore e doveroso contraddittorio, donde la necessità di mantenere la discussione a un livello elementare e viscerale che inibisca una più approfondita riflessione razionale.
Senz'altro esistono forme di adesione acritica anche sul versante opposto, che qualche paranoico blogger ritiene essere il frutto malsano di una moda passeggera o addirittura l'obiettivo di una sordida cospirazione di massoni pederasti e adoratori del Bafometto ermafrodito. Però non si capisce proprio il meccanismo con cui materia tanto grave come il piacere di fottere si presti con tanta facilità ad essere manipolata e deviata dal suo spontaneo manifestarsi. Di quale irresistibile potere può mai disporre la fantomatica lobby omosessualista per ottenere tanta efficacia col mezzo di omeopatiche quanto famigerate strategie subliminali? Forse la legge naturale è tanto fiacca e la carne così debole che solo uno spirito robusto, da eremita nel deserto, può disporle in pio e armonioso consenso?
http://pandamolesto.com/4310-voglio-la-mamma-medioevo-culturale-mario-adinolfi/
RispondiEliminaDifendere Mario Adinolfi non mi è possibile, neppure per amore delle discussioni; voglio però segnalare come "il tono" dell'articolo smentisca la liberalità che propaganda. Perché tanto sarcasmo sprezzante? Quelle di Adinolfi sono opinioni e come tali valgono le altre.
RispondiEliminaPersonalmente le trovo deboli perché retoriche ed in parte contraddittorie, ma se dovessimo interrare così sbrigativamente tutti coloro che ci deludono, avremmo uniche vie di essere serial killer, o di stare su una montagna.
Ho criticato "il tono", non i concetti, ma anche il tono è il messaggio e, secondo me, in questo periodo di svaccamento generale chi ne ha la possibilità dovrebbe sentire il piacere di recuperare gli accenti di cortesia che andavano di moda un po' di tempo fa; prima che i sodali di berlusconi rendessero lecito anche fuori dai recinti degli stadi il grido "arbitro cornuto".
Grazie, un saluto
Il liberalismo non consiste nel trattare con i guanti di velluto le opinioni altrui, ma - più concretamente - nel non impedire che quelle opinioni vengano espresse. Questo significa "rispetto per le opinioni", non nell'isolarle dalla critica, anche abrasiva, anche sprezzante. Ed è solo in questo senso che le opinioni di uno valgono quanto le opinioni di tutti gli altri: che esse hanno uguale diritto di essere espresse. Ma qui finisce l'uguaglianza: perché le opinioni di Adinolfi sono grottesche, violente, male espresse e male argomentate, e in questo non valgono certo quanto tutte le altre. Non capisco poi come si possa passare dalla critica dura all'omicidio seriale, se non confondendo il pericolo per la libertà d'espressione appunto con la critica, mentre - ripeto - esso sta da tutt'altra parte.
RispondiEliminaPensare poi che la satira più dura sia un effetto del berlusconismo mi pare poi indice, perdonami, di una coscienza storica un po' troppo schiacciata sull'oggi: Giovenale, per esempio - si parva licet - scriveva già qualche anno prima...
Ciao.