Sull’ultimo numero di New Scientist un articolo documenta il diffondersi, in alcuni paesi, della pratica di prelevare organi dopo l’arresto del cuore ma prima dell’avvenuta morte cerebrale (Rachel Nowak e Linda Geddes, «Not brain-dead, but ripe for transplant», 4 agosto 2006, pp. 6-7). Si tratta di casi in cui il possibile donatore è tenuto in vita artificialmente, ma il rapido deterioramento degli organi non consente di attendere l’avvenuta morte cerebrale; una volta sottratto il supporto vitale il cuore si ferma, e in genere prima dell’espianto non si attende – di nuovo, per evitare il deterioramento degli organi da trapiantare – un tempo sufficiente a determinare comunque la morte del cervello (dall’articolo non è chiarissimo se si intervenga anche nei casi in cui fallisce un intervento di rianimazione cardiaca).
Lo scopo della donation after cardiac death (DCD) è naturalmente quello di ovviare alla drammatica carenza di organi; ma gli interrogativi etici non mancano: dal possibile conflitto tra gli interessi del paziente e quelli dell’equipe che deve procedere all’espianto, all’incertezza sulla reale irreversibilità della morte cardiaca.
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