venerdì 2 marzo 2007

Embrioni britannici

Dopo gli scenari terrorizzanti, gli embrioni chimera, i Frankenstein nati dalla ricerca, Anna Meldolesi rimette in ordine il caos. Dalle News di Darwin (pubblicato su Il Riformista ieri con il titolo L’Inghilterra non è terra di Frankenstein redivivi).
Ora è la volta delle chimere, gli embrioni ibridi uomo-animale, a cui il governo Blair si appresterebbe a dire di sì. La settimana scorsa è stata la volta degli embrioni umani geneticamente modificati. La settimana prima è stato il presunto via libera agli ovuli a pagamento da parte dell’authority britannica competente. Visto dall’Italia, il Regno Unito appare in preda a un’ossessione post-umana alla Fukuyama, che porta a travolgere una dopo l’altra tutte le barriere etiche poste sulla strada della ricerca scientifica. Ma cosa sta accadendo davvero?
Le istituzioni britanniche, evidentemente, hanno una solida fiducia nella scienza e un approccio normativo più sbilanciato dalla parte della libertà che da quello dei tabù. Ma rischiamo di farci un’idea sbagliata se nella foga del dibattito dimentichiamo un elemento cruciale: la serietà che caratterizza il processo di istruzione delle policies scientifiche in Gran Bretagna, soprattutto in confronto ai bizantinismi italiani. Si comincia con un’analisi rigorosa dei dati scientifici, che non prevede l’uso del Cencelli per la selezione degli esperti da interpellare e non viene effettuata allo scopo di giustificare soluzioni politiche preconfezionate. Si svolgono consultazioni pubbliche per cogliere gli umori della popolazione. L’intero processo decisionale, inoltre, è ispirato alla trasparenza e guidato dalla consapevolezza che l’arrivo di nuovi dati potrebbe richiedere un ripensamento anche a breve.
Altro che bieco utilitarismo e abdicazione dell’etica, questo è un approccio evidence-based assai attento all’eticità delle conseguenze. Tanto per essere chiari, la legge del 1990 sulla fecondazione assistita e l’embriologia, attualmente in corso di revisione, è assai meno intrisa di morale della nostra legge 40. Ma questo dice assai poco sull’eticità dei rispettivi effetti. Nel mondo anglosassone, per esempio, sarebbe eticamente inconcepibile negare l’aiuto della provetta a chi vuole servirsene per non trasmettere ai figli gravi malattie genetiche o infettive, come accade da noi. Aggiungiamo che Londra brilla per la tempestività con cui vengono individuati e affrontati i problemi regolatori destinati a porsi nel medio termine. Non è un caso che le norme sulla fecondazione assistita risalgano al 1990, mentre noi abbiamo dovuto aspettare il 2004, perciò le mamme-nonne di Antinori sono state messe fuorilegge assai prima oltremanica.
E qui veniamo all’equivoco di fondo: il Regno Unito non è affatto il paradiso dell’azzardo, semmai è vero il contrario. Non si impongono divieti ideologici, ma ci si dà un gran da fare per varare regole efficaci, monitorare, vagliare scrupolosamente le autorizzazioni caso per caso. Chi non vuole paletti, farebbe bene ad andare negli Stati Uniti di Bush, dove vige un clamoroso doppio standard etico tra pubblico e privato: qui è possibile comprarsi una maternità surrogata, acquistare ovuli, clonare embrioni a scopo di ricerca, trasferire Dna umano all’interno di ovociti animali producendo embrioni ibridi, sempre che si trovino i fondi per farlo. E in Gran Bretagna?
Tutti sanno che la clonazione per fini non riproduttivi è ammessa, ma le autorizzazioni sono rilasciate con il contagocce. Mentre Carlo Flamigni ha spiegato sull’Unità che la maternità surrogata in salsa inglese non assomiglia all’affitto di un utero quanto a un “dono del grembo”, perché l’unica transazione economica è un compenso per il mancato guadagno e a ospitare gli embrioni sono sorelle o amiche delle aspiranti madri. E la compravendita degli ovuli che ha creato tanto scandalo recentemente? Per chiarirsi le idee basta visitare il sito dell’authority per la fertilità e l’embriologia umana (Hfea), della cui indipendenza è difficile dubitare: è composta da scienziati, eticisti, giuristi, teologi, persone comuni, e la presidenza non può essere affidata a medici o ricercatori direttamente impegnati nella fecondazione assistita. Si scopre così che l’Hfea non ha autorizzato alcun commercio di ovociti, ma ha ritenuto di non poter vietare alle donne di donare queste cellule per la ricerca, visto che era già possibile donarle per i trattamenti di fecondazione. Le donatrici non saranno pagate, ma riceveranno soltanto un rimborso spese, e per evitare pressioni indebite sono state messe a punto una serie di tutele. Le donne dovranno essere informate dei rischi che corrono, senza esagerare i benefici che il loro gesto avrà per l’avanzamento delle conoscenze. Il loro consenso sarà raccolto da persone estranee ai gruppi di ricerca interessati, il prelievo dovrà avvenire dopo un intervallo di tempo tale da consentire eventuali ripensamenti e così via. Lo stesso spirito, quello della regolamentazione attenta caso per caso, sta dietro alle possibili aperture in fatto di ricerca sugli embrioni entro il quattordicesimo giorno. I fantasmi di Frankenstein e dei designer baby, c’entrano davvero poco. Il governo, infatti, appare favorevole a consentire la modificazione di singoli geni, per esempio per verificare se è possibile correggere gravi difetti genetici allo stadio embrionale. E dopo qualche tentennamento sembra pronto a consentire anche la creazione di embrioni ibridi grazie al trasferimento di nuclei umani in ovociti animali, perché questi ultimi potrebbero risolvere il problema della scarsità di ovuli umani disponibili per la ricerca. L’Hfea si esprimerà su questo punto soltanto in autunno, perché ritiene necessario un approfondimento. Anche in questo caso, comunque, la lunga storia delle policies britanniche vale come una garanzia.

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