In Polonia l’aborto è fuori legge. Con l’eccezione dei casi in cui vi sia pericolo per la vita della donna, gravi malformazioni del feto o quando la gravidanza sia l’esito di uno stupro o di un incesto. Nel 2001 gli aborti sono stati 124: un calo impressionante rispetto agli oltre centomila della fine degli anni novanta. Impressionante e falso, perché la stima degli aborti avvenuti in clandestinità parla di 80-100.000 donne che hanno vissuto sulla propria pelle una legge tanto restrittiva. Ancora più restrittiva che sulla carta: non è raro che i medici non firmino per certificare le condizioni di pericolo della donna o che gli ospedali tardino a dare una risposta. Una specie di muro di gomma.
È quanto è successo nel 2000 ad Alicia Tysiac. Madre di due figli, 36 anni, Alicia soffre di una brutta forma di miopia. Rimane incinta e chiede di poter interrompere la gravidanza dopo che tre medici l’avvertono che la gestazione avrebbe avuto gravi conseguenze per la retina. Alicia chiede di poter abortire per ragioni terapeutiche: la sua richiesta viene rifiutata. La gestazione e il parto rendono Alicia quasi cieca e invalida.
L’altroieri la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato la Polonia per avere rifiutato l’interruzione di gravidanza a scopo terapeutico. Dovrà risarcire Alicia: 39.000 euro per una invalidità permanente ed evitabile. Giusta ma ben misera consolazione. Soprattutto se si pensa alla foga antiaborista polacca che caldeggia la richiesta di bandire legalmente qualsiasi aborto in nome della sacralità del concepito. E della sacrificabilità delle donne.
(Oggi su E Polis Quelle donne sacrificate per un’idea)
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