Il vagone della metropolitana puzza, ma Concetta non se n’è accorta. La lettera è spianata sulle sue ginocchia, bianca sul tessuto blu della lunga gonna a pieghe, con la scritta dorata «Ministero degli Affari Sociali» sotto il logo del giglio. «Gentile Signorina Formisani»: per l’ennesima volta attacca dall’inizio. Parigi! A 22 anni, ricevere un permesso di espatrio non è per niente scontato, e Concetta ha passato gli ultimi giorni in un’attesa prima nervosa e poi quasi angosciata. Ha sempre saputo fin troppo bene che la lettera della professoressa Solari, che attesta i motivi di studio del viaggio, non sarebbe mai bastata da sola. Dà un’occhiata all’anellino d’argento che le circonda l’anulare, simbolo del suo Impegno di Verginità: senza dubbio è stata quella l’attestazione più importante, assieme alla presentazione di Padre Amedeo, che ha confermato la sincerità della sua fede. Ma neanche questo sarebbe bastato, senza la visita. Concetta rabbrividisce, al ricordo di un’amica che aveva sostenuto si trattasse di un esame ginecologico: avrebbe preferito rinunciare al viaggio, piuttosto che lasciarsi mettere le mani lì. E invece la cosa si è rivelata un semplice test di gravidanza – anche se l’imbarazzo di restare in mutandine e reggipetto davanti a una suora arcigna, che l’ha percorsa con lo sguardo alla ricerca di fiale nascoste, e poi di riempire una provetta di pipì dietro un esiguo paravento, è indimenticabile.
Ma adesso è tutto passato; e Concetta ha davanti a sé la prospettiva esaltante di tre settimane a Parigi. La Bibliothèque Nationale, innanzitutto, a cercare tomi per la tesi; ma anche Notre Dame, la basilica del Sacro Cuore, la chiesa della Maddalena; forse il Louvre, se ci sarà tempo... Rabbrividisce dolcemente, al pensiero del privilegio che si è guadagnata.
Non è stato sempre così, naturalmente; fino a una dozzina di anni prima, andare all’estero sarebbe stato quasi banale, persino per una giovane donna («in età fertile», come recitano le norme attuali, con un tono che a Concetta sembra ogni volta inutilmente brutale). Era una bambina all’epoca, ma ricorda molto bene il caos di quei giorni, quando l’Italia era stata espulsa dall’Unione Europea, subito dopo l’approvazione – assieme a molte altre – delle leggi contro il turismo abortivo e riproduttivo. I discorsi angosciati dei genitori, mentre la lira, appena rinata, passava attraverso una serie di svalutazioni selvagge, e i prezzi di ogni cosa salivano alle stelle; le molotov contro le chiese (una notte Padre Amedeo era corso fuori in pigiama a spegnere il piccolo incendio che minacciava la canonica); il fiume di conoscenti che lasciavano il paese per l’estero, maledicendo preti e politici; le prediche incessanti del Papa dell’epoca a sostegno del governo, che riempivano i telegiornali...
«CRISTO!» L’imprecazione strappa Concetta ai suoi pensieri. Si guarda attorno, scandalizzata. Un uomo alto, vestito con un pastrano scolorito, è rimasto incastrato fra le portiere che si chiudevano mentre tentava di salire a bordo, e subito dopo il treno ha accennato a muoversi. Ma la locomotrice si arresta quasi subito, e l’uomo riesce a districarsi. Guarda su e giù per il vagone, mentre il treno riparte, e infine appunta lo sguardo su Concetta, come a sollecitarne la solidarietà. La ragazza distoglie subito gli occhi, fissando un punto sulla destra – in cui non c’è nulla, si rende conto un attimo dopo – e poi riportandoli sulla lettera, che finge di leggere come se la vedesse per la prima volta.
Un vicino di posto tira fuori un tabloid spiegazzato, e Concetta ha qualcosa da leggere per davvero. La prima pagina è interamente occupata da un discorso di Benedetto XVII sul «giusto protezionismo»; l’occhiello segnala il plauso unanime delle forze politiche, dai Cristiano-Comunisti ad Alleanza Cattolica Nazionale. Concetta non si appassiona molto a questo genere di questioni; distoglie lo sguardo per controllare furtivamente che l’uomo col pastrano non si interessi più a lei. Un fruscio le segnala che il vicino ha voltato pagina. Questa è più interessante; la faccia occhialuta del Presidente del Consiglio campeggia sotto una scritta bellicosa:
IL PREMIER: «AMMONISCO ALLE NAZIONI ATEISTICHE EUROPEE»
Concetta pondera per un momento quella frase: le pare che ci sia qualcosa di sbagliato – non è la prima volta, del resto, con i discorsi del Presidente del Consiglio. Poi, più concretamente, si chiede se fra le nazioni ammonite ci sia anche la Francia, e se ci possano essere delle conseguenze per i turisti.
Il treno giunge a un’altra stazione. I finestrini sono completamente oscurati da strati di graffiti, e l’altoparlante gracchia un nome incomprensibile; ma Concetta sa lo stesso di essere arrivata. Esce tra due ali di membri in divisa paramilitare della Militia Petri, che aspettano educatamente di salire per effettuare una ronda anti-omosessuali sulla metro, e si affretta su per le scale.
Il parcheggio davanti all’ingresso dell’ospedale, teoricamente riservato alle ambulanze, è occupato da auto in doppia fila, e Concetta è costretta a camminare di fianco, per passare. All’interno, come sempre, ha per un attimo la sensazione di trovarsi in una chiesa: enorme, un crocifisso pende dall’alto sul banco dell’accettazione. Ma il pavimento lurido fa svanire l’illusione: Concetta nota che la grossa macchia di sangue nell’angolo opposto alla porta, che era stata ancora fresca una settimana prima, adesso è secca e annerita. Come se non bastasse, i letti dei degenti hanno invaso anche la sala d’aspetto: una donna in avanzato stato di gravidanza giace immobile sul proprio, con le braccia assicurate da cinghie di contenzione e lo sguardo spento rivolto al soffitto. Un aborto fermato appena in tempo, senza dubbio. Non c’è da stupirsi, pensa scandalizzata Concetta, che la gente preferisca sempre più gli ospedali gestiti dalla Chiesa e dai privati a questo schifo.
Ma la camera di Giovanni, fortunatamente, è in condizioni assai migliori. Il linoleum è passabilmente pulito, e lo spazio abbonda: soltanto cinque letti (di cui uno vuoto, al momento), tutti allineati contro una parete; sull’altra, di fronte a ciascun letto, enormi poster a colori con paesaggi esotici. Al di fuori delle ore di visita, una musica soffusa permea la stanza, ma adesso è stata spenta, per far posto alle chitarre e alle risate dei Gruppi di Sostegno.
Il letto di Giovanni è il terzo. Concetta si fa strada nella stanza affollata – i volontari fanno visita tutti nello stesso giorno, per evitare che qualche malato si senta solo e trascurato – saluta i componenti del suo gruppo (sono già tutti lì, ma comunque visibilmente appena arrivati, nota con sollievo), agita la mano in direzione di Giovanni, e si siede.
«Allora, ragazzi, com’è andata la settimana?» (fra i ragazzi è compreso anche Giovanni, naturalmente, anche se ha passato da un pezzo la cinquantina). Paolo, il capogruppo, è l’unico trentenne; gli altri, come Concetta, hanno tutti vent’anni. I sorrisi si accendono, come fari; non si spegneranno fino alla fine della visita. Anche Concetta accende il suo (a volte, dopo, le dolgono le guance, ma è un piccolissimo sacrificio, pensa sempre), lo fa passare sui suoi amici, fino a Giovanni; che è l’unico che non ride, perché non può: la malattia ha divorato quasi tutti i nervi facciali, assieme agli altri del suo corpo, e il viso rimane atono, rivolto per lo più verso il poster, e indecifrabile come le spie luminose del ventilatore automatico a lato del letto. Ma Concetta è sicurissima che ci sia un sorriso, steso invisibile sul volto del malato.
È il momento dei racconti buffi, piccole peripezie degli ultimi sette giorni. I sorrisi si illuminano ancora di più, risate scoccano come flash. Concetta ha appena gettato la testa all’indietro, in modo da accentuare il proprio scoppio di riso, quando le pare d’accorgersi che Paolo, di fronte a lei, le stia fissando il seno. Perde il coordinamento, sussulta e quasi si strozza; ma si riprende, soffocando la tentazione di controllare con la mano che la sua camicetta sia perfettamente abbottonata – sa già che lo è. Quando finalmente trova il coraggio di riportare gli occhi su Paolo, quello sta guardando da un’altra parte. Concetta, sollevata, pensa di aver visto male.
Intanto sono uscite fuori le chitarre, e ben presto stanno tutti lì a cantare: «Camminiamo sulla strada», «Vieni vieni Spirito d’amore», «È bello andar». Concetta ha di nuovo la sensazione di stare in chiesa, anche se adesso a messa si sentono quasi solo canti gregoriani, e le chitarre sono confinate negli oratori. Di certo non sembra di stare in un ospedale, pensa con orgoglio.
Concetta, prima di entrare nel gruppo, ha studiato i problemi dei malati come Giovanni. Persone in queste condizioni chiedono spesso con insistenza di morire (e in passato non sono mancati assassini a sangue freddo bramosi di accontentarli), a causa di un profondo stato depressivo: Giovanni stesso era giunto al punto di rifiutare di essere collegato al respiratore automatico, e c’era voluto un ordine del tribunale per intubarlo. Per guarire non bastano gli antidepressivi, come quelli che calano dalla flebo a fianco del letto (un altro ordine del tribunale, presume Concetta); c’è bisogno di affetto, di amici, di persone che ridiano al malato la dignità e la gioia di chi si sa amato non malgrado ma grazie alla propria disabilità... Le parole del manuale di Monsignor Colla tornano ordinatamente alla memoria di Concetta. Purtroppo, trovare questo amore non è sempre possibile: la moglie di Giovanni, le ha raccontato una volta Paolo al bar dell’ospedale, aveva tentato di corrompere un infermiere perché staccasse il tubo del respiratore, ed era finita per questo in carcere con una condanna a 15 anni. Concetta non sa se credere a questa storia: i giornali non ne hanno mai parlato, e questo le sembra strano. Preferisce pensare che la donna si sia rifatta egoisticamente una vita altrove, abbandonando il malato (che incongruamente porta ancora la fede al dito: forse perché non è in grado di levarsela, ipotizza con spirito pratico Concetta).
In ogni caso, Giovanni ha adesso amici che lo aiutano a non disprezzare il dono della vita: i giovani volontari del Gruppo di Sostegno, che si riuniscono attorno al suo letto una volta a settimana. Peccato, si cruccia Concetta, che non esista un modo per farlo parlare (i sintetizzatori vocali di una volta sono stati dichiarati inaffidabili dal Ministero della Salute, a quanto pare): le farebbe piacere ascoltare la gratitudine del malato – quella gratitudine che il poveretto non riesce ad esprimere nemmeno con gli sguardi.
Il suono delle chitarre si è ridotto ora a isolato strimpellio. I ragazzi parlottano fra di loro; ogni tanto si interrompono, guardano verso il malato per accertarsi che qualcuno lo tenga impegnato, quindi ricominciano a chiacchierare. Concetta si distrae, pensa a cosa mettere in valigia. Una ragazza tiene aperto davanti al viso di Giovanni un libro di foto della Terrasanta, e con gesti esagerati del dito arcuato gliene indica alcune, mentre sfoglia le pagine.
L’ora delle visite sembra finire molto più rapidamente del solito: probabile effetto, pensa Concetta, delle sue fantasticherie parigine. Le sedie vengono scostate, i giubbotti sollevati dagli schienali, le borsette rimesse in spalla, i sorrisi scoccano di nuovo più abbaglianti che mai. Concetta si schiarisce la gola e, «Ragazzi», esordisce, «Oggi è il mio ultimo giorno, per un po’». Visi che si voltano verso di lei. «Parto la settimana prossima per Parigi». Paolo fa una smorfia. «Starò via per tre settimane – una vacanza di studio, cercherò libri per la tesi». Concetta si gode – anche se sa che non dovrebbe – l’accenno di stizza che compare su qualche viso, subito ricacciato sotto sorrisi lampeggianti. Dovrà ricordarsi di confessare la momentanea debolezza a Padre Amedeo, prende nota mentalmente. «Mi mancherete, ma soprattutto mi mancherai tu», una brevissima pausa, «Giovanni». Giovanni stacca gli occhi dal poster, li volge su di lei. «Non scappare via, Giovanni, mi raccomando!». Ascolta compiaciuta la fragorosa risata generale. «Ci rivediamo al mio rientro, eh?». Lo sguardo di Giovanni. Lo sguardo, immobile su di lei, di Giovanni.
Concetta abbassa gli occhi, infine. Via dalla stanza, assieme agli altri. Attraverso i corridoi e la fetida sala d’aspetto, sfiorando la donna gravida legata al suo letto, passando fra le macchine assiepate davanti all’ingresso, mentre il gruppo si sfrangia e si dissolve, giù di corsa per le scale sporche di urina della stazione, sulla banchina colma di gente, dentro il treno. Concetta cerca un sedile vuoto, invano. Rabbrividisce confusa. Tiene gli occhi bassi, fissi a terra, timorosi; per non ritrovare negli occhi degli altri, di nuovo, quello stesso sguardo. Cosa è successo? Cosa ho fatto? Lo sguardo di Giovanni. Lo sguardo di disprezzo – di disprezzo infinito – di Giovanni.
2084: Il Grande Padre vi osserva?
RispondiEliminaFacciamo 2020...
RispondiEliminaChe bello giuseppe...l'hai scritto tu?
RispondiElimina2012, non un anno di più!
RispondiElimina...la faccia occhialuta del Presidente del Consiglio campeggia sotto una scritta bellicosa:
RispondiEliminaIL PREMIER: «AMMONISCO ALLE NAZIONI ATEISTICHE EUROPEE»...
Aiuto, immaginare lui come presidente del consiglio non è pessimismo, è perversione!!!
;)
Ma adesso voglio sentire la storia di Concetta a Parigi!
RispondiElimina:-)
Eh, vedremo... ;-)
RispondiEliminaBrividi... potesse almeno Giovanni fare ancora uso del suo dito medio
RispondiEliminaHo inserito un link a questo racconto nel mio ultimo post!
RispondiEliminaBisognerebbe firmare ciò che si scrive.
RispondiEliminanon farlo è come disconoscere quanto " creato"
Intendi dire il racconto? Alla fine c'è il nome di chi l'ha scritto, come in tutti i post di questo blog.
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