La morte e il morire sono presenze ineliminabili della nostra esistenza. Sia intesi come il nostro morire, il pensare che moriremo e il nostro pensarci da morti; sia come morte delle persone cui siamo legati, il lutto e l’assenza.
La morte è indicibile e intollerabile; un pensiero che si sottrae alla comprensione e che spesso è oggetto di una rimozione individuale e collettiva. Basti pensare alla diffusa tentazione di sottrarsi ai discorsi sulla morte, agli scomposti gesti scaramantici quando qualcuno parla di morte o alle perifrasi usate per non dire “è morto”.
Eppure la morte si offre anche come un potente mezzo per godere della nostra esistenza terrena, nel dubbio o nella certezza del nulla che ci sarà dopo. Nella consapevolezza della finitezza è possibile radicare un saldo proposito di non sprecare la nostra vita a scadenza.
Marina Sozzi ha scritto di recente un libro sulla morte e sui vissuti intorno alla morte (Reinventare la morte, Laterza). Ci racconta delle reazioni rituali di fronte alla morte nel corso del tempo e in società eterogenee e del loro significato. Ci conduce lungo un affascinante percorso concettuale e terminologico fino alla nostra società, in cui la morte è spesso totalmente medicalizzata ed espulsa dalle case. E in cui la rimozione assume forme diverse: l’invocazione della morte naturale, il volgere altrove lo sguardo davanti al morente, o il relegare lo spazio e il tempo sociali del lutto al funerale e ai pochi giorni seguenti.
Sozzi costruisce una riflessione affascinante e “razionale sullo sconquasso emotivo e sociale che ha luogo intorno alla morte di un individuo”, come scrive nella introduzione. E pone la complessa questione della gestione del lutto: come lo affronta una società? Come lo affrontano gli individui? Qual è il potere dei rituali e quali sono le conseguenze del loro impoverimento? Impossibile non parlare di cure palliative, dei luoghi del morire contemporaneo o delle decisioni di fine vita, intesi come risposta culturale di una società.
Forse la solitudine del morente è davvero inconsolabile e irrimediabile, ma distogliere lo sguardo non è un rimedio soddisfacente.
DNews, 13 luglio 2009.
Concetti interessanti..
RispondiEliminaIo per esempio,non è che mi sottraggo, evito di pensarci.
Adesso sto provando un'altra strada, dopo anni dove ho patito tanto e subito troppo la vita. Cerco di diventarne il padrone.. della mia vita si intende.
Un saluto