È dunque con non poca sorpresa che ho letto il suo articolo di due giorni fa («Biotestamento, se tentassimo un “disarmo”?», 15 luglio 2009, p. 16) comparso sul Secolo d’Italia – non certo per la sede in cui è stato pubblicato, riguardo alla quale rimando al pensiero implicito in un post di Luca Sofri dello stesso giorno; ma proprio per i concetti che vi presenta.
Il tema è il testamento biologico: dopo una serie di considerazioni molto condivisibili sulle probabili conseguenze negative (anche per il governo) di un’approvazione del ddl Calabrò nel testo licenziato dal Senato, Della Vedova propone un «disarmo bilaterale». Non un compromesso, impossibile fra posizioni antitetiche, ma la rinuncia a una legge onnicomprensiva:
Per questo riterrei saggio che entrambi i sostenitori delle posizioni più nette ma speculari facessero un passo indietro e che il tentativo di avere norme dettagliatamente prescrittive – dell’uno o dell’altro segno – lasci il passo a una “soft law” i cui punti cardine siano due: no all’eutanasia attiva e no all’accanimento terapeutico. Per il resto, è più che sufficiente un rinvio ai principi costituzionali, alla deontologia medica e alla responsabilità di parenti e fiduciari di pazienti non coscienti, il riconoscimento dell’obiezione di coscienza e la possibilità dei medici di fare opposizione al giudice nei casi controversi.Ma questa proposta comporta davvero un disarmo bilaterale? O non è, piuttosto, un invito al disarmo unilaterale? Vediamo.
Per quanto riguarda il «no all’eutanasia attiva», si tratta di un tema del tutto estraneo al dibattito sulle direttive di fine vita (almeno per come questo si è svolto in Italia), e la cui previsione comunque risulterebbe ampiamente superflua, dato che ogni intervento attivo cade già sotto le sanzioni degli artt. 579 e 580 del Codice penale (omicidio del consenziente e aiuto al suicidio). Sul no all’accanimento terapeutico, purtroppo Della Vedova non ci spiega cosa intende con questa espressione, che com’è noto indica cose molto diverse nel vocabolario integralista e in quello comune, dove sta rispettivamente per un trattamento sanitario futile imposto a un malato terminale, e per un trattamento sanitario che il paziente (anche non moribondo) ritiene troppo gravoso e si rifiuta di subire. Scegliere fra queste due definizioni implicherebbe il riaccendersi del conflitto che Della Vedova vorrebbe sedare; non scegliere implicherebbe una confusione foriera di mille futuri conflitti interpretativi, che finirebbero regolarmente davanti ai magistrati – come del resto è avvenuto in occasione di tutti i casi «celebri» in materia.
Andando avanti, c’è poi da chiedersi quale sia il senso del rinvio «ai principi costituzionali» e «alla deontologia medica» invocato dal deputato del PdL. Sia la Costituzione della Repubblica sia il Codice di deontologia medica sono testi attualmente in vigore, e l’uso invalso negli ultimi tempi di richiamare i superiori principi nei preamboli delle leggi non ha mai avuto altro effetto che di appesantire i testi normativi. Se si pensa poi che anche il testo Calabrò ha il suo bravo richiamo agli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione – gli stessi di cui fa strame – le considerazioni sui «rinvii» si fanno più ciniche... Quanto al terzo rinvio, quello «alla responsabilità di parenti e fiduciari di pazienti non coscienti», torniamo nuovamente nell’indeterminato: cosa significano queste parole? Della Vedova non è un ingenuo, e sa benissimo che è su questo punto – sul ruolo dei parenti di una paziente non cosciente – che si è giocato in buona parte uno degli scontri politici e morali più violenti degli ultimi anni: davvero pensa di poter favorire una tregua fra gli schieramenti con l’ambiguità su questo punto?
Fin qui la proposta di Della Vedova ha mostrato un senso abbastanza chiaro: il deputato sa che, anche se alla Camera le forze laiche sono più consistenti che al Senato (e sembrano godere della benevolenza di chi siede sullo scranno più alto), la battaglia sulle direttive anticipate si preannuncia difficilissima. Da qui la proposta di una legge che lascerebbe le cose come stanno, dando l’impressione che «si sia fatto qualcosa», tanto per salvare la faccia del governo di fronte a una certa potente lobby. Si può comprendere lo spirito dell’iniziativa, anche se personalmente preferirei di gran lunga nessuna legge a una norma tanto vacua. Ma purtroppo Della Vedova non ha fatto punto qui.
L’obiezione di coscienza ha un senso preciso e univoco: se qualcuno mi vuole obbligare a fare qualcosa che va contro le mie convinzioni più profonde, è mio diritto ricorrere a questa esenzione; il caso tipico – e per la verità anche l’unico che viene in mente – è quello dell’obiezione alla leva militare obbligatoria. L’obiezione estesa a casi come quello dell’interruzione di gravidanza o della fecondazione artificiale ha già molto meno senso: qui l’obbligo non derivante da un contratto si pone solo per coloro che la legge ha colto già impegnati nell’attività di ginecologo, non per gli altri, che non dovrebbero poter pretendere nulla, visto che sono liberissimi di dedicarsi a un’altra attività; altrimenti dovremmo consentire ai capricci di chi, per esempio, voglia fare l’ispettore di polizia pur essendo un pacifista contrario alle armi da fuoco...
Ma almeno stiamo parlando ancora di rifiuto di compiere determinate azioni; nel caso del testamento biologico la situazione è esattamente opposta. Con le direttive anticipate non sto infatti chiedendo al medico di fare qualcosa, di praticarmi un trattamento sanitario – aborto, fecondazione in vitro, etc.; gli sto invece chiedendo di astenersi dal compiere un’azione. Distinzione fondamentale dal punto di vista giuridico (anche se talvolta non da quello morale). Distinzione che può talvolta apparire sottile, anche troppo; ma le sottigliezze, nel diritto, sono ciò che può fare la differenza fra andarsene liberi e andarsene in galera. E non facciamoci ingannare dalle descrizioni tendenziose: quante volte abbiamo sentito che i medici si rifiutano di «staccare il sondino»? Un’azione, sembrerebbe; ma invece nel rifiuto di questa particolare terapia quello che si chiede realmente ed essenzialmente è di sospendere l’immissione di alimenti in quel sondino (che può benissimo rimanere al suo posto), quindi un’omissione, non un’azione.
Cosa diventa allora qui la cosiddetta obiezione di coscienza? Semplice: diventa la libertà del medico integralista di invadere la sfera corporea di un’altra persona. Contro la sua volontà. Senza che sussista un obbligo giuridico di farlo. Diventa, in altre parole, pura e semplice violenza. Qui è l’obiettore a imporre un’azione all’altro, e l’obiezione si è trasformata così in ciò che originariamente doveva combattere. Come possa un liberale autentico – e Della Vedova lo è sicuramente – consentire a tutto ciò sfida la comprensione.
Con un grosso sforzo, si potrebbe forse ammettere l’obiezione se la legge riconoscesse almeno esplicitamente il diritto opposto del paziente a vedere rispettate le proprie direttive: questo potrebbe tradursi in pratica nell’obbligo dell’obiettore a trovare e indicare in tempi rapidi un altro medico che non si rifiuterà di cessare la violenza sul paziente. Sarebbe un’ingiustizia, sarebbe passibile di un’applicazione parziale e distorta (sappiamo bene cosa è successo con l’obiezione per l’aborto), ma almeno sarebbe un progresso rispetto alla situazione attuale. Solo che non è quello che scrive Della Vedova, che identifica chiaramente uno dei due raggruppamenti estremi (che dovrebbe rinunciare alle proprie posizioni a favore della proposta di mediazione) con quello di «chi vorrebbe una legge sulla falsariga di quella inglese o tedesca in nome della responsabilità e della libertà di cura delle persone». Ma in questo caso la previsione esplicita dell’obiezione di coscienza, senza un riconoscimento dei diritti del paziente, costituirebbe la coperta giuridica sotto cui l’arbitrio del medico integralista potrebbe esercitarsi indisturbato – almeno fino alla bocciatura della Corte Costituzionale (peraltro non più scontata, adesso che sembra divenuto normale per i giudici della Consulta essere commensali abituali dei governanti...). E questo è un netto peggioramento rispetto alla situazione attuale.
Infine, riguardo alla possibilità che Della Vedova vorrebbe concedere ai medici di «fare opposizione al giudice nei casi controversi», non saprei come interpretare queste parole se non nel senso giuridico della parola «opposizione», cioè «qualunque forma di impugnazione o di contestazione promossa contro un atto della pubblica autorità» (De Mauro). Ma a quanto mi risulta i medici hanno già diritto a proporre opposizione a ogni provvedimento giuridico di cui siano destinatari: se un tribunale decreta che il dr. Rossi deve sospendere la chemioterapia al paziente Verdi, Rossi – nei limiti dovuti, è ovvio – può benissimo impugnare il decreto. Sembra dunque che siamo qui di nuovo al ribadimento dell’esistente; e l’accenno ai giudici ci ricorda in compenso l’esito più probabile della «soft law», con la sua enumerazione di alti principi: che chi vorrà difendere il proprio diritto all’autodeterminazione sarà spesso costretto a intraprendere lunghe, costose, incerte battaglie legali.
Anche a me hanno lasciato perplessi alcuni elementi indicati da Benedetto Della Vedova (che resta comunque uno dei pochi laici della PDL che, in questo momento, sta tenendo la schiena dritta, mentre altri hanno cambiato idea rispetto a qualche mese fa). Eppure sono convinto di una cosa: se vivessimo in un paese in cui regnasse il buon senso, davvero non avremmo bisogno di una legge. Non ci sarebbe bisogno di una legge per consegnare una mia scrittura a un notaio o al medico di famiglia in cui annoto le terapie che non voglio in determinate condizioni di salute. Perché, in un paese di buon senso, quella scrittura verrebbe rispettata. Invece, ahimé, in Italia c'è bisogno di una griglia che, nel caso del DDL Calabrò, si risolve non in una garanzia della libertà di scelta per i pazienti ma in una serie di paletti burocratici e, in generale, di uno spirito che si preoccupa più di garantire da non si sa bene quale rischio delittuoso. Quanto all'obiezione di coscienza, anche qui basterebbe il buon senso: basterebbe limitarne i casi (magari quando ci si trova di fronte alla sospensione di una terapia "vitale", e non certo quando ancora la terapia non è iniziata) e, come scrivi tu, garantire, ma veramente, al paziente che la struttura sia in grado di rispettare le sue volontà.
RispondiEliminaMi pare che la proposta di Della Vedova consista nel varare una legge generica al massimo, di fatto priva di contenuto. Una soluzione che ha tanti difetti, ma sarebbe preferibile alla legge dettata dal Vaticano che è passata al Senato e che rischia di essere presto approvata anche dalla Camera, visto che Papi Silvio ha bisogno di acquisire benemerenze nei Palazzi Apostolici. Per questo la posizione di Della Vedova sarebbe in fondo un male minore e non merita di essere criticata così duramente, dati i rapporti di forza esistenti in Parlamento
RispondiEliminaEpicuro: che in gran parte lo scopo di Della Vedova sia quello che dici, l'ho notato anch'io nel post. Ma la previsione dell'obiezione di coscienza, senza nessun diritto per i pazienti, mi pare renda la sua proposta non troppo differente da quella di Calabrò: in entrambi i casi il medico è libero di fare quello che gli pare.
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