Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano
John Stuart Mill, La libertà
giovedì 29 maggio 2014
mercoledì 28 maggio 2014
mercoledì 21 maggio 2014
lunedì 19 maggio 2014
La logica oscura di Gianfranco Amato
Gianfranco Amato, presidente dell’associazione «Giuristi per la Vita» (è lui uno dei due autori della denuncia presentata contro gli insegnanti del Liceo Giulio Cesare di Roma), commenta sulla Nuova Bussola Quotidiana («Anita non può (per natura) avere due mamme», 19 maggio 2014) la lettera aperta che il consigliere comunale di Milano Rosaria Iardino ha indirizzato a Matteo Renzi, esortandolo a risolvere i problemi delle famiglie omogenitoriali. Sembra che ad avere colpito Amato sia stata soprattutto questa frase: «la mia compagna Chiara e la piccola Anita, nostra figlia, concepita attraverso la procreazione medicalmente assistita, sono il mio universo», nonché un’altra dichiarazione rilasciata dalla Iardino al Corriere della Sera («Unioni civili e adozioni. La pd Iardino a Renzi: “Riforme, ora di svegliarsi”», 16 maggio 2014, p. 7):
La cosa più straordinaria è che Amato sta nei fatti implicando che la Iardino sia preda di una chiara ideazione delirante – come definire altrimenti la convinzione che un bambino possa avere due madri biologiche? – oppure che il consigliere comunale abbia tentato la frode del millennio, cercando di far passare l’idea che la figlia abbia due madri biologiche. Eppure sembra che Amato non sia consapevole di queste ovvie implicazioni; non c’è urgenza né una particolare drammaticità nelle sue parole. Uno si aspetterebbe come minimo un’altra denuncia all’autorità giudiziaria: ehi, c’è una bambina affidata a una pazza o a una truffatrice! E invece niente.
Da segnalare, nel seguito dell’articolo, anche quest’altra affermazione:
Loro sono tutto il mio universo, ma agli occhi dell’attuale sistema legislativo, io per la mia piccina non sono nulla […] fortunatamente, le persone sono migliori delle leggi e quindi alla materna, con gli altri genitori, dal medico, io sono trattata come mamma di Anita a tutti gli effetti.Commenta Amato:
l’aspetto che maggiormente emerge da quelle parole è come l’ideologia riesca a prevalere sulla biologia. Come si fa a negare l’evidenza che la piccola Anita sia nata da un gamete maschile ed un gamete femminile? Affermare che i suoi genitori (ossia i soggetti che l’hanno concepita) sono due donne, è un falso scientifico, prima che una follia sotto il profilo razionale. Anita non potrà mai avere due mamme, come sa bene l’ingegnosa burocrazia politicamente corrette che, infatti, ha dovuto coniare i neologismi “genitore 1” e “genitore 2”.Qui, per usare un’espressione un po’ abusata ma efficace, la mente del lettore vacilla. Dove mai avrebbe affermato la Iardino – o anche soltanto sottinteso – che la piccola Anita ha due madri biologiche? Leggendo e rileggendo i due scritti, tutto quello che si riesce a trovare sono l’espressione «nostra figlia» e il desiderio di essere «trattata come mamma di Anita a tutti gli effetti»; ma dare a queste parole il senso iper-letterale che sembra dar loro Amato è un’impresa paragonabile solo a quella di Giufà, che esortato dalla madre a tirarsi «dietro la porta» quando esce, la scardina e se la trascina per il paese. Di fronte a casa mia abita una coppia di coniugi che ha avuto anni fa in affidamento un bambino nato da poco; come capita in questi casi, col tempo il piccolo ha preso a chiamare «mamma» la madre affidataria. La madre naturale si è poi fatta viva, instaurando un rapporto col ragazzino, che si è trovato dunque di fatto ad avere due mamme; mi chiedo cosa avrebbe detto in proposito Gianfranco Amato.
[…] E no, cara Iardino, come recita il titolo della celebre commedia teatrale di Vincenzo Salemme, “Di mamma ce n’è una sola”. È la natura a dirlo non la fede religiosa, e contra factum non valet argumentum.
La cosa più straordinaria è che Amato sta nei fatti implicando che la Iardino sia preda di una chiara ideazione delirante – come definire altrimenti la convinzione che un bambino possa avere due madri biologiche? – oppure che il consigliere comunale abbia tentato la frode del millennio, cercando di far passare l’idea che la figlia abbia due madri biologiche. Eppure sembra che Amato non sia consapevole di queste ovvie implicazioni; non c’è urgenza né una particolare drammaticità nelle sue parole. Uno si aspetterebbe come minimo un’altra denuncia all’autorità giudiziaria: ehi, c’è una bambina affidata a una pazza o a una truffatrice! E invece niente.
Da segnalare, nel seguito dell’articolo, anche quest’altra affermazione:
A proposito, ora pare abbastanza evidente quale sia stato il vero obiettivo che ha indotto la Corte Costituzionale ad eliminare il divieto di fecondazione eterologa: dare figli a coppie come quella di Rosaria e Chiara.Anche qui si rimane perplessi: qual è il nesso tra la decisione della Consulta e le dichiarazioni della Iardino? Al di là della assai relativa coincidenza temporale, non se ne vede nessuno (e comunque rivendicazioni come quelle della Iardino sono state avanzate di frequente negli ultimi anni: la coincidenza non è certo straordinaria). Da notare poi che anche con l’eliminazione del divieto di fecondazione eterologa, le tecniche di procreazione assistita non diventeranno accessibili in Italia alle coppie omosessuali: resta infatti in piedi l’art. 5 della legge 40/2004, che ne limita l’applicazione alle «coppie di maggiorenni di sesso diverso». La successione logica dei pensieri di Gianfranco Amato rimane insomma anche in questo caso tenacemente oscura.
sabato 17 maggio 2014
Giuliano Guzzo e l’omofobia
Come celebrare degnamente la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, che ricorre oggi, 17 maggio? Giuliano Guzzo – «sociologo, appassionato di bioetica, politica, religione», come si definisce sul suo profilo Twitter – non deve aver avuto dubbi: cercando di svalutare il concetto e di minimizzare il fenomeno dell’omofobia, è ovvio! E si è messo di conseguenza di buona lena all’opera, regalandoci un apposito post («Omofobia, una parola diventata facile accusa», Giuliano Guzzo, 17 maggio 2014).
Dopo il fervorino iniziale sulla tolleranza da dimostrare comunque agli omosessuali, Guzzo entra in argomento:
Proseguendo:
Guzzo sembra ritenere che ci sia un’incompatibilità fra essere omosessuale ed essere omofobo; evidentemente non ha mai sentito parlare dell’omofobia interiorizzata. Il lettore può valutare da solo quanto questo fenomeno entri in gioco in certe prese di posizione leggendo l’intervista a Philippe Ariño, che per combinazione il settimanale Tempi pubblica proprio oggi (Benedetta Frigerio, «“Io, omosessuale ed ex attivista gay, che vivo secondo quel che insegna la Chiesa. E sono felice”»).
Ancora, Guzzo non ci dice da dove proviene l’affermazione che «il riconoscimento delle unioni gay determinerebbe felicità per tutti»; e neppure potrebbe. Si tratta in realtà di un tipico argomento dell’uomo di paglia. Il riconoscimento delle unioni gay può migliorare la situazione degli omosessuali – e molto probabilmente lo fa, come abbiamo visto più sopra; ma non equivale alla fine di ogni discriminazione, neppure nei paesi più civili. La prova ce la offrono, ironicamente, gli studi che lo stesso Guzzo segnala a supporto di ciò che dice su Olanda e Danimarca. Ron de Graaf e colleghi («Suicidality and Sexual Orientation: Differences Between Men and Women in a General Population-Based Sample From The Netherlands», Archives of Sexual Behavior 35, 2006, pp. 253-62, alle pp. 257-58) hanno trovato che tra gli omosessuali maschi dei Paesi Bassi la discriminazione percepita è associata in modo significativo con tre dei sintomi più gravi precursori del suicidio e con la misura complessiva dell’inclinazione al suicidio (si noti comunque che i dati su cui si basa lo studio sono stati ottenuti nel 1996). Dal canto loro, Robin M. Mathy e colleghi («The association between relationship markers of sexual orientation and suicide: Denmark, 1990–2001», Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology 46, 2011, pp. 111-17, a p. 114) scrivono riguardo alla situazione danese:
Più avanti Guzzo, riferendosi di nuovo a questi due studi, afferma che «le nozze gay – lo abbiamo visto – non producono alcun apprezzabile aumento di benessere nella popolazione omosessuale». L’affermazione qui è più misurata di quella precedente – ma ugualmente falsa, visto che le due ricerche fotografano la situazione nei rispettivi periodi di tempo (il 1996 e il 1990-2001) senza proporre un’analisi diacronica, che cioè compari un «prima» e un «poi».
(Mi sia permesso di aggiungere una postilla: Guzzo cita articoli e altri riferimenti nelle note in calce, senza aggiungere link, anche quando i materiali sono disponibili in rete; questo dà al post un’apparenza superficiale di serietà accademica, ma costituisce anche un evidente intralcio a controllarne le affermazioni, soprattutto da chi non ha accesso alla letteratura scientifica citata o non ha tempo a sufficienza. In effetti l’intero post non possiede neppure un link esterno; non c’è modo neanche di saltare dal testo alle note e viceversa.)
Andiamo avanti:
L’aumento del 9% dell’apertura all’omosessualità (misurata in base alle risposte affermative alla domanda «L’omosessualità dovrebbe essere accettata dalla società?», passate in Italia dal 65% al 74% del totale, con i «no» passati dal 23% al 18%, p. 21) tra il 2007 e il 2013 è invece un dato presente nel rapporto; disgraziatamente, esso era stato preceduto, nel periodo 2002-2007, da una diminuzione dal 72% al 65% (con i «no» saliti dal 20% al 23%); in 11 anni siamo tornati grosso modo al punto di prima: un progresso trionfale, non c’è che dire...
Per chi volesse un quadro meno rozzo della condizione omosessuale in Italia, consiglio la lettura del rapporto Istat La popolazione omosessuale nella società italiana, relativo al 2011, da cui apprendiamo (p. 7) che
Guzzo conclude citando il libro di Tommaso Giartosio, Perché non possiamo non dirci: letteratura, omosessualità, mondo (Milano, Feltrinelli, 2004, p. 82): «le “-fobie” sono solo patologie: e se sei malato non è colpa tua. In questo senso “omofobia” è un eufemismo assolutorio». Ma si tratta dell’ennesima citazione parziale; prosegue Giartosio (il libro ha la forma di una intervista a se stesso):
Dopo il fervorino iniziale sulla tolleranza da dimostrare comunque agli omosessuali, Guzzo entra in argomento:
Detto questo, non si può fare a meno di esprimere riserve sulla scelta politica di isolare le violenze a danno delle persone non eterosessuali, quasi le altre fossero meno gravi, racchiudendole sotto l’ombrello dell’omofobiaOltre all’assurdità dell’insinuazione che assegnando una giornata particolare alla condanna di un fenomeno si vogliano o possano minimizzare altri fenomeni analoghi (come se questi non avessero a loro volta giornate loro dedicate, come la Giornata contro il razzismo, la Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne o il Giorno della Memoria), è un fatto che la violenza mossa dall’odio verso un gruppo discriminato è effettivamente più grave di una violenza analoga ma generica, in quanto colpisce sproporzionatamente i membri di quel gruppo: le percosse date a un omosessuale in quanto omosessuale non fanno più male delle percosse date per una lite sul parcheggio, ma le prime colpiscono solo gli omosessuali, le seconde chiunque, indifferentemente dall’orientamento sessuale (sulla questione persiste un equivoco duro a morire). Curiosamente, Guzzo sembra invece non avere problemi a impiegare il concetto di «cristianofobia»...
Proseguendo:
chiunque osi non già porre in essere effettivi oltraggi a danno di persone non eterosessuali […] bensì solamente criticare le rivendicazioni politiche di alcune associazioni di omosessuali – dal matrimonio gay alle adozioni per le cosiddette “famiglie omogenitoriali” – viene additato ora come istigatore alla violenza ora come nemico del benessere dei cittadini omosessuali. In entrambi casi, però, si tratta di un inganno: è un inganno apostrofare come omofobi coloro che si oppongono al matrimonio omosessuale dal momento che – da Jean-Pierre Delaume-Myard a Philippe Ariño – sono molti anche gli attivisti omosessuali che la pensano così, ed è un inganno dire che il riconoscimento delle unioni gay determinerebbe felicità per tutti come dimostra il più alto numero di suicidi che si continua a registrare nella popolazione omosessuale in Paesi estremamente gay friendly come l’Olanda o la Danimarca, che pure è stato il primo Paese al mondo ad aver riconosciuto alle coppie omosessuali «tutti i diritti ed i doveri in merito ad eredità, donazioni, pensioni, tasse, obbligo di assistenza reciproca».Per prima cosa, non si vede bene cosa ci sia di sbagliato nell’additare come «nemico del benessere dei cittadini omosessuali» chi si opponga al matrimonio gay: è un fatto ben noto che le persone sposate godono in media di un maggiore benessere fisico e psicologico rispetto a quelle non sposate; un gruppo piccolo ma crescente di studi mostra che simili benefici sono propri anche delle coppie omosessuali sposate (per una rassegna si veda H. Lau e C.Q. Strohm, «The Effects of Legally Recognizing Same-Sex Unions on Health and Well-Being», Law and Inequality: A Journal of Theory and Practice 29, 2011, pp. 107-48; tra gli studi più recenti mi limito a segnalare J.K. Ducharme e M.M. Kollar, «Does the “Marriage Benefit” Extend to Same-Sex Union? Evidence From a Sample of Married Lesbian Couples in Massachusetts», Journal of Homosexuality 59, 2012, pp. 580-91; per la situazione in Danimarca, che sembrava inizialmente indicare un’alta mortalità fra le coppie di omosessuali impegnati in un’unione civile, si veda M. Frisch e J. Simonsen, «Marriage, cohabitation and mortality in Denmark: national cohort study of 6.5 million persons followed for up to three decades (1982–2011)», International Journal of Epidemiology 42, 2013, pp. 559-78, che mostra ora una situazione radicalmente diversa, soprattutto per gli omosessuali maschi).
Guzzo sembra ritenere che ci sia un’incompatibilità fra essere omosessuale ed essere omofobo; evidentemente non ha mai sentito parlare dell’omofobia interiorizzata. Il lettore può valutare da solo quanto questo fenomeno entri in gioco in certe prese di posizione leggendo l’intervista a Philippe Ariño, che per combinazione il settimanale Tempi pubblica proprio oggi (Benedetta Frigerio, «“Io, omosessuale ed ex attivista gay, che vivo secondo quel che insegna la Chiesa. E sono felice”»).
Ancora, Guzzo non ci dice da dove proviene l’affermazione che «il riconoscimento delle unioni gay determinerebbe felicità per tutti»; e neppure potrebbe. Si tratta in realtà di un tipico argomento dell’uomo di paglia. Il riconoscimento delle unioni gay può migliorare la situazione degli omosessuali – e molto probabilmente lo fa, come abbiamo visto più sopra; ma non equivale alla fine di ogni discriminazione, neppure nei paesi più civili. La prova ce la offrono, ironicamente, gli studi che lo stesso Guzzo segnala a supporto di ciò che dice su Olanda e Danimarca. Ron de Graaf e colleghi («Suicidality and Sexual Orientation: Differences Between Men and Women in a General Population-Based Sample From The Netherlands», Archives of Sexual Behavior 35, 2006, pp. 253-62, alle pp. 257-58) hanno trovato che tra gli omosessuali maschi dei Paesi Bassi la discriminazione percepita è associata in modo significativo con tre dei sintomi più gravi precursori del suicidio e con la misura complessiva dell’inclinazione al suicidio (si noti comunque che i dati su cui si basa lo studio sono stati ottenuti nel 1996). Dal canto loro, Robin M. Mathy e colleghi («The association between relationship markers of sexual orientation and suicide: Denmark, 1990–2001», Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology 46, 2011, pp. 111-17, a p. 114) scrivono riguardo alla situazione danese:
Sia lesbiche che gay sperimentano inoltre frequentemente nella loro vita quotidiana il pregiudizio anti-omosessuale e l’avversione che esso comporta, che è il meccanismo presumibile che porta al rischio piuttosto elevato di morbidità psicologica osservato in questa popolazione.(Gli autori segnalano anche correttamente un ulteriore fattore attivo nel periodo considerato, e cioè l’incidenza dell’epidemia di AIDS.)
(Both lesbians and gay men also frequently experience anti-gay stigma and consequent adversity in their daily lives, the presumed mechanism that leads to the somewhat elevated risk for psychological morbidity that has been observed in this population.)
Più avanti Guzzo, riferendosi di nuovo a questi due studi, afferma che «le nozze gay – lo abbiamo visto – non producono alcun apprezzabile aumento di benessere nella popolazione omosessuale». L’affermazione qui è più misurata di quella precedente – ma ugualmente falsa, visto che le due ricerche fotografano la situazione nei rispettivi periodi di tempo (il 1996 e il 1990-2001) senza proporre un’analisi diacronica, che cioè compari un «prima» e un «poi».
(Mi sia permesso di aggiungere una postilla: Guzzo cita articoli e altri riferimenti nelle note in calce, senza aggiungere link, anche quando i materiali sono disponibili in rete; questo dà al post un’apparenza superficiale di serietà accademica, ma costituisce anche un evidente intralcio a controllarne le affermazioni, soprattutto da chi non ha accesso alla letteratura scientifica citata o non ha tempo a sufficienza. In effetti l’intero post non possiede neppure un link esterno; non c’è modo neanche di saltare dal testo alle note e viceversa.)
Andiamo avanti:
secondo quanto emerso da un lavoro comparativo internazionale a cura del prestigioso Pew Research Center, [l’Italia] è addirittura l’ottavo Paese al mondo quanto ad accettazione sociale dell’omosessualità. Posto che anche un solo caso di discriminazione ai danni di qualcuno non è ammissibile, francamente dispiace che i giornali che contano non abbiano riportato questo dato così positivo. E non finisce qui: se osserviamo, sempre con riferimento a questo accurato studio, l’andamento di siffatta tolleranza per gli ultimi anni scopriamo come, mentre in Germania ed in Spagna – Paesi nei quali, in aggiunta alle legali unioni civili e nozze gay, la lotta all’omofobia risulta presente rispettivamente nella Costituzione e nel Codice penale – fra il 2007 ed il 2013 l’apertura verso l’omosessualità è aumentata dal 6%, da noi il fenomeno sia stato ancora maggiore: più 9%Se «i giornali che contano» non hanno riportato il dato «così positivo» dell’Italia ottavo paese al mondo per accettazione al mondo dell’omosessualità, è forse perché questo dato non esiste (anche se così si rischia di dare troppo credito ai giornali italiani...). Se si va infatti a vedere il rapporto del Pew Center (The Global Divide on Homosexuality, 4 giugno 2013), ci si rende subito conto che esso è stato condotto solo su 39 nazioni; ottavi su 39 non è la stessa cosa di ottavi su circa 200 (facendo una rozza proporzione l’Italia sarebbe 40ª al mondo, che suona decisamente meno bene). Inoltre, fra i paesi dell’Europa Occidentale esaminati dal Pew (Spagna, Germania, Francia, Gran Bretagna e appunto Italia) siamo sconsolatamente ultimi. Si noti come l’ambito del rapporto sia specificato nella prima pagina, al secondo paragrafo; è impossibile non accorgersene.
L’aumento del 9% dell’apertura all’omosessualità (misurata in base alle risposte affermative alla domanda «L’omosessualità dovrebbe essere accettata dalla società?», passate in Italia dal 65% al 74% del totale, con i «no» passati dal 23% al 18%, p. 21) tra il 2007 e il 2013 è invece un dato presente nel rapporto; disgraziatamente, esso era stato preceduto, nel periodo 2002-2007, da una diminuzione dal 72% al 65% (con i «no» saliti dal 20% al 23%); in 11 anni siamo tornati grosso modo al punto di prima: un progresso trionfale, non c’è che dire...
Per chi volesse un quadro meno rozzo della condizione omosessuale in Italia, consiglio la lettura del rapporto Istat La popolazione omosessuale nella società italiana, relativo al 2011, da cui apprendiamo (p. 7) che
la maggioranza dei rispondenti (59,1%) ritiene accettabile che un uomo abbia una relazione affettiva e sessuale con un altro uomo (“molto” 27%, “abbastanza” 32,1%) o che una donna abbia una relazione affettiva e sessuale con un’altra donna (59,5%, di cui “molto” 27,4%, “abbastanza” 32,1%). Resta tuttavia un cospicuo 40% di intervistati che la pensa diversamente: in particolare, il 23,5% dei rispondenti considera del tutto inaccettabile una relazione affettiva e sessuale tra due uomini e il 22,1% esprime medesimo parere su una eventuale relazione tra due donne.A p. 4 scopriamo invece che alla domanda «è accettabile che un medico sia omosessuale?» risponde «molto» il 45,7%, «abbastanza» il 26,2%, «poco» il 13,7%, «per niente» il 14,4%. Chissà come risponderebbe Giuliano Guzzo...
Guzzo conclude citando il libro di Tommaso Giartosio, Perché non possiamo non dirci: letteratura, omosessualità, mondo (Milano, Feltrinelli, 2004, p. 82): «le “-fobie” sono solo patologie: e se sei malato non è colpa tua. In questo senso “omofobia” è un eufemismo assolutorio». Ma si tratta dell’ennesima citazione parziale; prosegue Giartosio (il libro ha la forma di una intervista a se stesso):
Allora perché lo usi?L’omofobia è ancora pervasiva, sì; chissà ancora per quanto saremo costretti a usare questa parola, a usare un’accusa che è «facile» solo perché gli omofobi sono ancora tanti, troppi, e tanti – troppi – sono ancora quelli che li giustificano e li difendono.
Perché non dispongo di un termine migliore; e soprattutto perché in molti casi, purtroppo, è una parola adeguata al mondo in cui viviamo. Riflette una realtà in cui spesso il razzismo antigay non è considerato una scelta lucida (e sbagliata), ma una reazione psichica quasi inevitabile entro un dato contesto socioculturale. La scelta della parola, insomma, è in sé una prova di quanto l’omofobia sia ancora pervasiva.
sabato 10 maggio 2014
Di vaccini e di domande insensate
La correlazione tra vaccini e autismo non meriterebbe nemmeno la domanda. Tuttavia continua a essere posta e addirittura a costituire il fondamento per decisioni assurde.
(10 Outrageous Things You May Have Heard About Vaccines).
venerdì 9 maggio 2014
«Aggiornamenti»
Scrive Davide Vannoni ieri sul suo profilo:
Cari amici, Daniele è a casa con 40.000 piastrine. Non riceve una infusione da 14 mesi, perchè i ricorsi e i controricorsi degli spedali civili di brescia costati a tutti noi 1.000.000 di euro hanno rallentato la ripresa delle terapie. L'ultima infusione aveva permesso a Daniele di nutrirsi senza sondino, direttamente con un cucchiaio, mentre poco prima lo stesso ospedale aveva previsto una peg di urgenza non effettuabile a causa dei rischi dell'anestesia.Intanto, visto che le campagne con i cartelli e i culi sono di gran moda.
Daniele è un piccolo al quale siamo tutti affezionati, la prima volta lo trattammo a san marino (gratuitamente) nel 2008. Aveva 20.000 piastrine ed una milza grossa come quella di un adulto. Dopo 20 giorni ne aveva 120.000 ed una milza quasi normalizzata.
La sua storia in questi ultimi 6 anni è stata segnata dagli imbrogli burocratici di uno stato vile fino al midollo.
Dopo l'interruzione delle terapie a Trieste, in cui Daniele continuava a fare progressi evidenti, il presidente Napolitano si fece commuovere dalla sua storia e con l'intervento del ministero della salute gli concesse di riprendere le terapie con staminali, non più quelle di stamina che lo avevano migliorato, ma la solita brodaglia prodotta dal laboratorio Verri del San Gerardo di Monza e approvata dall'Agenzia Italiana del Farmaco. Dopo tre infusioni, la mancanza di effetti ed il ripresentarsi dei peggiormenti portò a sospendere la terapia, abbandonando per la seconda volta Daniele al suo destino.
Fino al 2011 quando, dopo aver avvisato il dr. Casciello del ministero della salute della attività di Stamina a Brescia, costui scrisse all'ospedale chiedendo di prenderlo in cura con la metodica Stamina. Da lì riniziano le speranze ed i miglioramenti, ma anche, dopo il blocco dell'Aifa, le interruzioni e le lotte nei tribunali. Fino all'ordinanza di qualche giorno fa che richiede l'immediata ripresa delle terapie, ma di fronte alla quale dei medici si sono rifiutati, con la compiacenza del loro direttore, di ottemperarla.
Daniele è a casa nell'indifferenza di tutti, quando si creano situazioni così al limite ognuno finisce di pensare solo al proprio orticello dimenticandosi degli altri e cercando un colpevole facile da colpire. Erica la biologa di Stamina ha dato la sua disponibilità ad operare, ma a fronte del fatto che sia indicata direttamente nelle sentenze. Non è una sua scelta, ma del suo avvocato, in questo conflitto tra magistrature una biologa in carcere non servirebbe nè ai pazienti in lista nè a quelli in cura che hanno ottenuto o meno l'ordinanza 669.
Grazie alla generosità di una associazione il conto di Stamina dopo 2 mesi è tornato in attivo (prima era in negativo per 2650 €). Abbiamo ben 740 euro sul conto ed ancora un bel po' di debiti con dipendenti, fornitori, commercialisti e avvocati. In queste condizioni difficilmente saremo in grado di proseguire le cure a Brescia.
Rimangono in piedi una sperimentazione che ha assunto dei contorni grotteschi. Abbiamo appreso che a 6 mesi dalla bocciatura del primo comitato, il ministro Lorenzin non è ancora riuscita a nominare il secondo comitato, sperando che nel frattempo qualcun altro le tolga le castagne dal fuoco, intanto però chiede il voto urgente per lei ed il suo partito alle europee.
Il dott. Belleri dopo 16 morti in lista di attesa a cui sono stati calpestati i diritti e la speranza è stato nominato direttore generale, forse con i prossimi 16 lo faranno ministro della salute.
Il succo di questa storia è questo: diritti negati, politici svenduti, propaganda nera dei giornali e delle televisioni, scienziatucoli pieni di conflitti di interesse contro scienziati veri e curiosi, vigliacchi che confermano i risultati, vengono inquisiti, li ritrattano ed escono miracolosamente dalle indagini.
Il giochetto è sempre lo stesso, ma senza fondi non si fanno cure, non si difendono i diritti e non si riesce ad avere professionisti decenti per raccogliere i risultati ottenuti (visto che i medici degli spedali civili la vera obiezione l'hanno già fatta due anni fa rifiutandosi di valutare i pazienti con esami strumentali, prestando il fianco anche alla loro rovina).
Oggi si premia chi abiura, chi scappa, chi mente, è tipico di queste situazioni e la storia è piena di questi personaggi.
Stamina è ancora qui, il coraggio ce lo mette tutto, ma questo è un elemento che da solo non farà aumentare le piastrine di Daniele.
La Lorenzin continua a mentire ripetendo il vecchio mantra che recita: 'i medici non sanno che cosa infondono'. Balle. Se non lo sanno e perchè non hanno avuto la curiosità e non si sono sentiti in dovere di fare due piani di scale ed andare in laboratorio dove sono presenti le analisi delle cellule prima di ogni infusione (più di 400 schede zeppe di analisi e di certificati di sterilità e di vitalità).
Per il resto la ruota della vita gira e per alcuni ha solo due colori vita e morte. È una condizione tremenda anche solo da immaginare.
In Italia non esiste Stamina senza questa metodica e non esiste la metodica senza Stamina. Oggi più che mai questo risulta evidente.
Alcuni mesi fa si è formata una cooperativa sociale senza fini di lucro, fatta solo da persone malate e da parenti di persone malate (Prostaminalifecooperativa@gmail.com). È una cooperativa indipendente da stamina che si muove autonomamente e cerca uno sbocco estero per poter applicare la metodica Stamina. In loro vedo la possibilità di non far morire questa speranza e di proseguire questo cammino che abbiamo iniziato nel paese sbagliato.
Aiutare e rafforzare Stamina in questa battaglia è una cosa importante che vi chiediamo di fare. Per la prima volta abbiamo un partito (Io Cambio), piccolo e nuovo, che ci rappresenta in lista alle europee e che ha fatto della battaglia di Stamina il centro del suo programma elettorale. Dargli forza può essere un aiuto per tutti quelli che aspettano con speranza e per quelli che si sentono ormai abbattutti e sfiancati da questa lotta senza tregua.
Il passato ci ha d'altronde insegnato che tutti coloro (politici e non) che si sono avvicinati a Stamina lo hanno fatto con intenzioni ed obiettivi diversi dalla tutela dei malati e dalla nostra battaglia. Di sciacalli ne abbiamo già troppi tra i nostri nemici è inutile portarceli anche in casa.
Per tutti costoro ricordo che Stamina ed il Movimento Stamina sono gli unici ad aver operato in favore delle cure, anzi ad averle praticate veramente con tutti i rischi e le aggressioni che ciò ha comportato. Le chiacchere non faranno aumentare le piastrine di Daniele o aiuteranno le altre persone in cura ed in lista di attesa.
Penso anche a tutti quelli che, avendo perso i ricorsi, sono rimasti fuori anche da questo ultimo barlume di speranza. Di loro non parla mai nessuno anzi, vengono portati come trofei dai detrattori di Stamina per dimostrare che esiste una contraddizione a livello giuridico. Eppure sono persone che muoiono e soffrono come gli altri, genitori che si sono visti negare per legge ciò che è stato concesso ai figli di altri.
La legge non è più uguale per tutti, l'unica cosa che ci accomuna è la speranza e in ultimo la morte. Non possiamo più accettare una società dove bisogna morire per avere gli stessi diritti e la stessa dignità giuridica di altri.
Stamina ha migliorato la salute e la vita di molte persone, ha ridato speranza, ha messo in luce gli angoli bui di un sistema marcio, ma soprattutto credo che abbia aperto gli occhi a molti. Perchè se non le mostri le contraddizioni e le storture di questo sistema non vengono mai alla luce e come tarme continuano a erodere quell'esile ramoscello che ci sorregge e che si chiama vita.
martedì 6 maggio 2014
Cosa hanno denunciato i «Giuristi per la Vita»?
C’è un elemento della vicenda del Giulio Cesare di Roma e del romanzo Sei come sei di Melania Mazzucco che ha ricevuto un’attenzione troppo circoscritta; mi riferisco alla denuncia presentata dalle associazioni «Giuristi per la Vita» e «Pro Vita Onlus» contro gli insegnanti del liceo. Diamole un’occhiata:
Ma su quali elementi di prova si basa quest’accusa bizzarra? Rileggendo con estrema attenzione il testo, si scopre che in realtà tutto dipende dall’uso della parola empowerment, che secondo i denuncianti non può che indicare – il concetto viene ripetuto due volte – il «rafforzamento, sia numerico che nella collocazione in ogni ambito sociale, della categoria LGBT a scapito delle altre».
Ora, la parola empowerment fa parte da molto tempo nel lessico di chi lotta a favore delle varie minoranze e di altri gruppi oppressi; in particolare, si trova nella pubblicistica femminista. Questo avrebbe dovuto far scattare un campanello di allarme agli orecchi dei «Giuristi per la Vita» (se si fossero curati di informarsi), visto che lo scopo dei gruppi femministi non è mai stato – ovviamente – quello di moltiplicare numericamente le donne a scapito degli uomini, così come l’empowerment dei Neri d’America non è consistito nel fare diventare più numerosi i neri e nell’opprimere i bianchi. Empowerment, in tutti questi casi, indica semplicemente il superamento degli ostacoli economici, legali e ideologici che impediscono a una data minoranza o a un gruppo oppresso di godere della piena uguaglianza; può indicare anche il rafforzamento della fiducia in se stessi di chi appartiene a questi gruppi. Non c’è nel documento dell’UNAR il benché minimo appiglio che autorizzi a dare un significato diverso da questo alla parola empowerment; anche ammettendo la totale ignoranza dei denuncianti dell’uso comune della parola, si rimane stupiti di fronte alla loro disinvoltura nell’attribuire al termine un significato arbitrariamente negativo.
Quando si passa dalla denuncia delle oscure trame dell’UNAR a quella della condotta degli insegnanti del liceo, i problemi aumentano ancora. Sostenere, come fanno i denuncianti, che la presenza delle ormai famose 14 righe in un romanzo che conta 230 pagine, proposto agli studenti fra altri 24 volumi, indichi la volontà degli insegnanti di istigare gli studenti ad avere rapporti sessuali è un’accusa che non si sa se definire più mostruosa o ridicola. Talmente mostruosa e ridicola, che neppure vale la pena di far notare come nessuno degli studenti fosse minore di 14 anni. (È opportuno invece rilevare che l’art. 609 quinquies invocato dai denuncianti presuppone il dolo specifico, cioè l’intenzione consapevole di raggiungere un fine determinato; la condotta, di per sé, non basta a configurare il delitto in oggetto.)
Anche l’accusa di diffusione di materiale osceno sembra destinata a una rapida archiviazione: non si capisce perché la denuncia non sia stata estesa a tutti i librai italiani, che vendono il libro a un pubblico indifferenziato, fra cui si potrebbero tranquillamente trovare minori di quasi ogni età, privi per giunta della mediazione offerta dagli insegnanti del Giulio Cesare; ma in questo caso l’assurdità dell’accusa sarebbe apparsa subito palese. Righe di contenuto non troppo diverso da quello incriminato (anche se in genere relative a pratiche eterosessuali) si trovano poi, a una valutazione prudente, in circa metà dei volumi di narrativa contemporanea, anche questi disponibili liberamente sui banconi di qualsiasi libreria.
Tiriamo le somme. Il vittimismo aggressivo, che tanta parte ha ormai nella propaganda integralista e clericale, procede negando ai propri bersagli la qualifica di vittime (o di difensori delle vittime), e costruendoli invece come aggressori. Nel caso specifico, si ricorre a uno dei fantasmi eterni della polemica anti-omosessuale: l’omosessuale corruttore della gioventù, che cerca di fare proseliti tra i ragazzi (non è chiaro se per i denuncianti l’UNAR sia un covo di gay o piuttosto di favoreggiatori dei gay; il risultato non cambia). Se da un lato si professa, a parole, solidarietà per le vittime del bullismo omofobo, dall’altro, per una sorta di malefico comma-22, si afferma che chi resiste alle discriminazioni non è vittima ma bensì pericoloso pervertito.
Ci si può chiedere se i denuncianti credano davvero che il loro esposto possa portare a un’incriminazione. Uno dei firmatari è un avvocato; si farebbe torto alle sue capacità professionali attribuendogli questa speranza. Più probabilmente siamo di fronte a un tentativo di accreditarsi presso la platea del pubblico integralista – un pubblico di bocca particolarmente buona, incapace di rendersi conto che la denuncia è fondata letteralmente sul nulla. L’inevitabile archiviazione (salvo improbabili sorprese) verrà addebitata ai soliti magistrati «laicisti» e «omosessualisti».
Non è però da sottovalutarsi un altro elemento: oggettivamente, al di là di quelle che possono essere le intenzioni dei denuncianti, questa vicenda avrà un effetto intimidatorio (uso la parola non nel senso giuridico) nei confronti di tutti gli insegnanti. A nessuno fa piacere venire denunciato alla magistratura, anche se l’accusa è palesemente infondata.
Non sono un giurista, ma credo che bisognerebbe seriamente prendere in considerazione la creazione di una fattispecie analoga alla lite temeraria anche in campo penale. Si eviterebbero casi come questo, che possono arrecare una pena non indifferente a chi ne rimane vittima.
Aggiornamento 11/10/2014: naturalmente, è finita come doveva finire: la Procura ha chiesto l’archiviazione (Ilaria Sacchettoni, «Il libro scandalo al Giulio Cesare “Non è osceno, ma formativo”», Corriere della Sera, 7 ottobre), e gli integralisti accusano i giudici di ogni nequizia (Rino Cammilleri, «Letture porno a scuola, non è reato. Anzi, è educativo», La nuova bussola quotidiana, 11 ottobre). Non posso vantarmi neppure di essere stato buon profeta: era veramente troppo facile.
[…] Il documento [Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, 2013-2015 dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale (UNAR)], nel presentarsi come un insieme di proposte e strategie volte a salvaguardare il rispetto del principio di uguaglianza anche nel delicato frangente dell’orientamento sessuale, contiene in realtà misure volte al rafforzamento dei gruppi LGBT all’interno del vivere sociale ed alla diffusione delle pratiche omosessuali in ogni ambiente, anche scolare, arrivando all’istigazione a vivere la sessualità in una prospettiva esclusivamente omosessuale.Come si vede, a differenza di quanto abbiamo in genere letto o sentito in questi giorni, l’accusa mossa agli insegnanti (e all’UNAR) non è tanto o solo quella di avere presentato agli studenti un romanzo «pornografico». Riepiloghiamo: «misure volte al rafforzamento dei gruppi LGBT all’interno del vivere sociale ed alla diffusione delle pratiche omosessuali in ogni ambiente, anche scolare, arrivando all’istigazione a vivere la sessualità in una prospettiva esclusivamente omosessuale»; «propaganda omosessuale tout court»; «L’idea pare dunque essere quella del rafforzamento, sia numerico che nella collocazione in ogni ambito sociale, della categoria LGBT a scapito delle altre»; «la propaganda di un’idea e l’istigazione ad aderirvi»; «una palese condotta di proselitismo e di istigazione verso il giovanissimo pubblico a compiere pratiche omosessuali ed a sperimentare la sessualità in una prospettiva esclusivamente gay»; «la finalità di istigazione ad avere rapporti omosessuali diretta agli studenti». Non si potrebbe essere più chiari: chi ha presentato la denuncia è convinto che un ufficio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e alcuni insegnanti di un liceo romano perseguano lo scopo di far diventare omosessuali gli studenti delle scuole.
Questo vero e proprio tradimento delle pur lodevoli finalità antidiscriminatorie a vantaggio di una propaganda omosessuale tout court può essere rinvenuto in innumerevoli passaggi del documento in questione. Ci sia consentito evidenziarne i più significativi, con particolare riferimento all’ambito delle strategie da dispiegarsi nel contesto scolastico e, più in generale, educativo. A pag. 17, ad esempio, tra gli obiettivi che l’UNAR si pone, si contempla espressamente «l’empowerment delle persone LGBT nelle scuole, sia tra gli insegnanti che tra gli alunni». L’idea pare dunque essere quella del rafforzamento, sia numerico che nella collocazione in ogni ambito sociale, della categoria LGBT a scapito delle altre. Fin dalla più tenera età un simile obiettivo va perseguito, prosegue l’UNAR, attraverso «percorsi innovativi di formazione in materia di educazione alla affettività che partano dai primi gradi dell’istruzione, proprio per cominciare dagli asili nido e dalle scuole dell’infanzia a costruire un modello educativo inclusivo, fondato sul rispetto delle differenze» (cfr. Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (2013-2015), p. 17). Si parla inoltre di «accreditamento delle associazioni LGBT, presso il MIUR, in qualità di enti di formazione» (ibidem, p. 19), quasi a dire che le istanze relative all’orientamento sessuale e l’identità di genere portate avanti dalle associazioni LGBT, da idee a cui ciascun individuo è libero di aderire o meno, debbano diventare materie obbligatorie di studio e tema di formazione professionale degli insegnanti. In estrema sintesi, dunque, pare davvero che l’UNAR confonda il divieto di discriminazione con la propaganda di un’idea e l’istigazione ad aderirvi. Del resto, l’«empowerment», per riprendere la terminologia del Ministero, non può che voler dire questo in concreto.
[…] Non v’è chi non veda in una simile pubblicazione [il romanzo Sei come sei], specie se inserita nel solco tracciato dall’UNAR su cui a lungo gli esponenti si sono intrattenuti, una palese condotta di proselitismo e di istigazione verso il giovanissimo pubblico a compiere pratiche omosessuali ed a sperimentare la sessualità in una prospettiva esclusivamente gay.
Nei fatti sopra esposti pare doversi rinvenire la fattispecie di cui all’art. 528 c.p. Si è trattato infatti di consapevole divulgazione di materiale dichiaratamente osceno, la cui finalità non può che concretarsi nella celebrazione, fin nei dettagli più minuziosi, di un rapporto omosessuale fine a sé stesso. Nessuna finalità artistica sembra pertanto configurabile. La sensibilità dell’uomo medio non può che dirsi urtata da simili pubblicazioni, specie se si considera che la divulgazione era diretta ad un pubblico composto da minorenni.
A tale riguardo, qualora, come in questa sede si auspica, venisse riconosciuta nei fatti sopra esposti la finalità di istigazione ad avere rapporti omosessuali diretta agli studenti del Liceo Classico Giulio Cesare, andrebbe probabilmente indagata l’eventuale presenza all’interno dell’uditorio di ragazzi di età inferiore ad anni 14, nel qual caso, ovviamente, le condotte verrebbero ad essere sussunte sotto l’egida dell’art. 609 quinquies c.p. Tale ipotesi si presenta come tutt’altro che inverosimile atteso che, per direttiva dell’UNAR, la diffusione delle pubblicazioni di cui poc’anzi si è citato un breve stralcio deve essere fatta propria da ogni contesto scolastico.
In ogni caso, si impone l’applicazione dell’aggravante dell’art. 61 n. 9 c.p. poiché la divulgazione del materiale è stata organizzata dal corpo docente della scuola, in diretta attuazione delle direttive dell’UNAR.
Ma su quali elementi di prova si basa quest’accusa bizzarra? Rileggendo con estrema attenzione il testo, si scopre che in realtà tutto dipende dall’uso della parola empowerment, che secondo i denuncianti non può che indicare – il concetto viene ripetuto due volte – il «rafforzamento, sia numerico che nella collocazione in ogni ambito sociale, della categoria LGBT a scapito delle altre».
Ora, la parola empowerment fa parte da molto tempo nel lessico di chi lotta a favore delle varie minoranze e di altri gruppi oppressi; in particolare, si trova nella pubblicistica femminista. Questo avrebbe dovuto far scattare un campanello di allarme agli orecchi dei «Giuristi per la Vita» (se si fossero curati di informarsi), visto che lo scopo dei gruppi femministi non è mai stato – ovviamente – quello di moltiplicare numericamente le donne a scapito degli uomini, così come l’empowerment dei Neri d’America non è consistito nel fare diventare più numerosi i neri e nell’opprimere i bianchi. Empowerment, in tutti questi casi, indica semplicemente il superamento degli ostacoli economici, legali e ideologici che impediscono a una data minoranza o a un gruppo oppresso di godere della piena uguaglianza; può indicare anche il rafforzamento della fiducia in se stessi di chi appartiene a questi gruppi. Non c’è nel documento dell’UNAR il benché minimo appiglio che autorizzi a dare un significato diverso da questo alla parola empowerment; anche ammettendo la totale ignoranza dei denuncianti dell’uso comune della parola, si rimane stupiti di fronte alla loro disinvoltura nell’attribuire al termine un significato arbitrariamente negativo.
Quando si passa dalla denuncia delle oscure trame dell’UNAR a quella della condotta degli insegnanti del liceo, i problemi aumentano ancora. Sostenere, come fanno i denuncianti, che la presenza delle ormai famose 14 righe in un romanzo che conta 230 pagine, proposto agli studenti fra altri 24 volumi, indichi la volontà degli insegnanti di istigare gli studenti ad avere rapporti sessuali è un’accusa che non si sa se definire più mostruosa o ridicola. Talmente mostruosa e ridicola, che neppure vale la pena di far notare come nessuno degli studenti fosse minore di 14 anni. (È opportuno invece rilevare che l’art. 609 quinquies invocato dai denuncianti presuppone il dolo specifico, cioè l’intenzione consapevole di raggiungere un fine determinato; la condotta, di per sé, non basta a configurare il delitto in oggetto.)
Anche l’accusa di diffusione di materiale osceno sembra destinata a una rapida archiviazione: non si capisce perché la denuncia non sia stata estesa a tutti i librai italiani, che vendono il libro a un pubblico indifferenziato, fra cui si potrebbero tranquillamente trovare minori di quasi ogni età, privi per giunta della mediazione offerta dagli insegnanti del Giulio Cesare; ma in questo caso l’assurdità dell’accusa sarebbe apparsa subito palese. Righe di contenuto non troppo diverso da quello incriminato (anche se in genere relative a pratiche eterosessuali) si trovano poi, a una valutazione prudente, in circa metà dei volumi di narrativa contemporanea, anche questi disponibili liberamente sui banconi di qualsiasi libreria.
Tiriamo le somme. Il vittimismo aggressivo, che tanta parte ha ormai nella propaganda integralista e clericale, procede negando ai propri bersagli la qualifica di vittime (o di difensori delle vittime), e costruendoli invece come aggressori. Nel caso specifico, si ricorre a uno dei fantasmi eterni della polemica anti-omosessuale: l’omosessuale corruttore della gioventù, che cerca di fare proseliti tra i ragazzi (non è chiaro se per i denuncianti l’UNAR sia un covo di gay o piuttosto di favoreggiatori dei gay; il risultato non cambia). Se da un lato si professa, a parole, solidarietà per le vittime del bullismo omofobo, dall’altro, per una sorta di malefico comma-22, si afferma che chi resiste alle discriminazioni non è vittima ma bensì pericoloso pervertito.
Ci si può chiedere se i denuncianti credano davvero che il loro esposto possa portare a un’incriminazione. Uno dei firmatari è un avvocato; si farebbe torto alle sue capacità professionali attribuendogli questa speranza. Più probabilmente siamo di fronte a un tentativo di accreditarsi presso la platea del pubblico integralista – un pubblico di bocca particolarmente buona, incapace di rendersi conto che la denuncia è fondata letteralmente sul nulla. L’inevitabile archiviazione (salvo improbabili sorprese) verrà addebitata ai soliti magistrati «laicisti» e «omosessualisti».
Non è però da sottovalutarsi un altro elemento: oggettivamente, al di là di quelle che possono essere le intenzioni dei denuncianti, questa vicenda avrà un effetto intimidatorio (uso la parola non nel senso giuridico) nei confronti di tutti gli insegnanti. A nessuno fa piacere venire denunciato alla magistratura, anche se l’accusa è palesemente infondata.
Non sono un giurista, ma credo che bisognerebbe seriamente prendere in considerazione la creazione di una fattispecie analoga alla lite temeraria anche in campo penale. Si eviterebbero casi come questo, che possono arrecare una pena non indifferente a chi ne rimane vittima.
Aggiornamento 11/10/2014: naturalmente, è finita come doveva finire: la Procura ha chiesto l’archiviazione (Ilaria Sacchettoni, «Il libro scandalo al Giulio Cesare “Non è osceno, ma formativo”», Corriere della Sera, 7 ottobre), e gli integralisti accusano i giudici di ogni nequizia (Rino Cammilleri, «Letture porno a scuola, non è reato. Anzi, è educativo», La nuova bussola quotidiana, 11 ottobre). Non posso vantarmi neppure di essere stato buon profeta: era veramente troppo facile.
lunedì 5 maggio 2014
Come «si applica» la sentenza sull’eterologa?
Nel cappello dell’intervista ad Assuntina Morresi, apparsa oggi sul settimanale Tempi (Francesco Amicone, «Eterologa. “Prima di applicare la sentenza della Consulta, serve un dibattito pubblico”», 5 maggio 2014), si leggono queste parole:
Immagino che la Morresi si potrebbe giustificare asserendo che per «applicazione della sentenza» intendeva riferirsi in realtà all’approvazione di una norma che regoli la materia. La scusa di avere usato una terminologia impropria non potrebbe invece essere invocata dall’autore dell’intervista, Francesco Amicone (un figlio d’arte?), la cui domanda iniziale, «Si potrà legalmente donare un ovulo o uno spermatozoo a una coppia che lo desidera?», tradisce un’evidente ignoranza del fatto elementare che una norma dichiarata incostituzionale non può in nessun caso continuare a sopravvivere come se nulla fosse accaduto. La materia si potrà regolamentare in modo più o meno liberale (e naturalmente bisognerà attendere le motivazioni della sentenza prima di cominciare a disegnare un’eventuale disciplina): si potrà decidere sull’anonimato dei donatori, sul rimborso delle spese da loro sostenute, etc., ma la fecondazione eterologa dovrà essere comunque d’ora in poi fondamentalmente ammessa.
Si potrà legalmente donare un ovulo o uno spermatozoo a una coppia che lo desidera per avere (partorire) un figlio concepito in provetta? Ancora nessuno lo dice. A quasi un mese di distanza dalla sentenza con cui la Consulta il 9 aprile ha legittimato la fecondazione eterologa, il Governo non ha approntato una risposta politica. «Non c’è chiarezza e non si sa quale altro divieto della Legge 40 viene intaccato», spiega a tempi.it Assuntina Morresi […], membro del Comitato nazionale per la Bioetica. «Bisogna attendere le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale», aggiunge. Nel frattempo i media premono perché l’esecutivo Renzi dia il via libera definitivo all’eterologa. In sostanza, si afferma che non vi sarebbe bisogno di un dibattito parlamentare, e basterebbe applicare la sentenza della Consulta.Più avanti, nel corpo dell’intervista vera e propria, la Morresi ribadisce il concetto:
C’è un vuoto normativo. Non c’è traccia di una norma che stabilisca come fare l’eterologa. Per esempio: si potrà donare cellule riproduttive ai propri parenti? Inoltre, vista la novità che introduce la sentenza, non penso si debba applicare con un atto amministrativo, un regolamento o con un decreto del Governo. C’è bisogno di un dibattito pubblico e parlamentare.Si tratta di affermazioni singolari. Perché una sentenza di illegittimità costituzionale abbia effetto non servono atti amministrativi, regolamenti, decreti o leggi. Basta la pubblicazione, come chiaramente è scritto nell’art. 136, comma 1, della Costituzione della Repubblica Italiana:
Quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.nonché nell’art. 30, comma 3, della legge costituzionale n. 87, 11 marzo 1953:
Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.Il fatto che ci sia un «vuoto normativo», cioè che nessuna norma regoli attualmente la materia all’infuori degli articoli ormai giudicati incostituzionali, non ha alcuna conseguenza: considerando anche il principio giuridico fondamentale secondo cui tutto ciò che non è vietato è lecito, all’indomani della pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale, la fecondazione eterologa sarà lecita sul territorio della Repubblica in tutte le sue forme (esclusa la cosiddetta maternità surrogata, sulla quale la Corte non è stata chiamata a pronunciarsi), e nessuno – né medico né paziente né donatore di gameti – dovrà temere conseguenze penali applicando questa pratica.
Immagino che la Morresi si potrebbe giustificare asserendo che per «applicazione della sentenza» intendeva riferirsi in realtà all’approvazione di una norma che regoli la materia. La scusa di avere usato una terminologia impropria non potrebbe invece essere invocata dall’autore dell’intervista, Francesco Amicone (un figlio d’arte?), la cui domanda iniziale, «Si potrà legalmente donare un ovulo o uno spermatozoo a una coppia che lo desidera?», tradisce un’evidente ignoranza del fatto elementare che una norma dichiarata incostituzionale non può in nessun caso continuare a sopravvivere come se nulla fosse accaduto. La materia si potrà regolamentare in modo più o meno liberale (e naturalmente bisognerà attendere le motivazioni della sentenza prima di cominciare a disegnare un’eventuale disciplina): si potrà decidere sull’anonimato dei donatori, sul rimborso delle spese da loro sostenute, etc., ma la fecondazione eterologa dovrà essere comunque d’ora in poi fondamentalmente ammessa.
domenica 4 maggio 2014
venerdì 2 maggio 2014
Procreazione assistita, le contraddizioni della proposta Gigli/Binetti: “dare voce” al nascituro
«Norme sulla attuazione del principio del contraddittorio nei procedimenti civili in materia di PMA». Si chiama così la proposta di legge presentata da Gian Luigi Gigli e Paola Binetti.
I due partono dal “principio del contraddittorio” stabilito dal codice penale “come principio essenziale per garantire che il processo raggiunga il massimo possibile di verità e di giustizia”. Il loro intento è rimediare a un’intollerabile ingiustizia, cioè che “la voce del nascituro è totalmente assente nelle vicende giudiziarie”. Bisognerebbe spiegare loro che la voce del nascituro è assente perché il nascituro non ha voce. Ma non è certo il caso di rassegnarsi, basta trovare qualcuno che faccia le sue veci e che faccia valere i suoi interessi – che ovviamente solo Gigli e Binetti conoscono.
La proposta è interessante per due ragioni. La prima: prendere sul serio l’articolo 1 della legge 40 e mostrarne ulteriormente l’assurdità. La seconda – e più importante – è mostrare le insanabili contraddizioni che animano il mondo prolife, in precario equilibrio tra chi è disposto al compromesso ma è destinato a inciampare in gravi contraddizioni e chi invoca la coerenza ma è guardato con sospetto anche dai prolife che hanno una posizione più morbida ma, appunto, incoerente.
L’articolo 1 della legge 40 è quello che stabilisce la necessità di “garantire i diritti di tutte le persone coinvolte compreso il concepito”, che però rimane una garanzia non chiara e a rischio di incoerenza, che si rivela ogni volta che qualcuno stabilisce un principio che suona bene (siamo a difesa della vita!) ma poi scarta alcune conseguenze perché sono scomode.
Se prendessimo sul serio il diritto a nascere del concepito, la legge 40 sarebbe infatti troppo permissiva e non un buon compromesso come da anni sostengono i prolife più accomodanti (leggi contraddittori).
Come fin dal tempo della promulgazione e del referendum, alcuni hanno provato a dirlo (come il Comitato Verità e Vita): se il concepito è una persona, nessuna tecnica deve essere permessa. E hanno ragione: non si può giustificare l’uccisione di alcun embrione, né accettare quella soglia massima dei 3 embrioni da produrre e impiantare – limite poi eliminato dalla Corte costituzionale nel 2009. Non lo faremmo nel caso di omicidio – e se l’embrione è una persona di questo stiamo parlando. Mentre Scienza & Vita e lo stesso Movimento per la Vita sono disposti a scendere a patti e a barattare la “vita” con un consenso politico.
Wired.
I due partono dal “principio del contraddittorio” stabilito dal codice penale “come principio essenziale per garantire che il processo raggiunga il massimo possibile di verità e di giustizia”. Il loro intento è rimediare a un’intollerabile ingiustizia, cioè che “la voce del nascituro è totalmente assente nelle vicende giudiziarie”. Bisognerebbe spiegare loro che la voce del nascituro è assente perché il nascituro non ha voce. Ma non è certo il caso di rassegnarsi, basta trovare qualcuno che faccia le sue veci e che faccia valere i suoi interessi – che ovviamente solo Gigli e Binetti conoscono.
La proposta è interessante per due ragioni. La prima: prendere sul serio l’articolo 1 della legge 40 e mostrarne ulteriormente l’assurdità. La seconda – e più importante – è mostrare le insanabili contraddizioni che animano il mondo prolife, in precario equilibrio tra chi è disposto al compromesso ma è destinato a inciampare in gravi contraddizioni e chi invoca la coerenza ma è guardato con sospetto anche dai prolife che hanno una posizione più morbida ma, appunto, incoerente.
L’articolo 1 della legge 40 è quello che stabilisce la necessità di “garantire i diritti di tutte le persone coinvolte compreso il concepito”, che però rimane una garanzia non chiara e a rischio di incoerenza, che si rivela ogni volta che qualcuno stabilisce un principio che suona bene (siamo a difesa della vita!) ma poi scarta alcune conseguenze perché sono scomode.
Se prendessimo sul serio il diritto a nascere del concepito, la legge 40 sarebbe infatti troppo permissiva e non un buon compromesso come da anni sostengono i prolife più accomodanti (leggi contraddittori).
Come fin dal tempo della promulgazione e del referendum, alcuni hanno provato a dirlo (come il Comitato Verità e Vita): se il concepito è una persona, nessuna tecnica deve essere permessa. E hanno ragione: non si può giustificare l’uccisione di alcun embrione, né accettare quella soglia massima dei 3 embrioni da produrre e impiantare – limite poi eliminato dalla Corte costituzionale nel 2009. Non lo faremmo nel caso di omicidio – e se l’embrione è una persona di questo stiamo parlando. Mentre Scienza & Vita e lo stesso Movimento per la Vita sono disposti a scendere a patti e a barattare la “vita” con un consenso politico.
Wired.