
E prosegue Brownback: permettere il suicidio assistito potrebbe spingere le compagnie assicurative ad incoraggiare l’uccisione dei pazienti che necessitano di assistenza sanitaria a lungo termine. Incoraggiamento, si badi, immorale ma non necessario. Non è corretto condannare la possibilità di ricorrere al suicidio assistito minacciando una possibile conseguenza; perché è questa ad essere condannabile, non quanto può provocarla.
La proposta di legge prevede l’incriminazione per i medici che usano farmaci antidolorifici per provocare la morte, affidando l’onere della prova al procuratore federale. Però non impedisce a quegli stessi medici di somministrare cure palliative anche nel caso in cui accelerano la morte (dunque, la provocano). Forse il senatore non è molto preparato sulle questioni mediche, perché altrimenti si soffermerebbe sulla difficoltà di distinguere la somministrazione di farmaci antidolorifici dalla induzione della morte del paziente. Come rendersi conto se lo scopo del medico è il sollievo che indirettamente causa la morte oppure è determinare direttamente la morte?
La Christian Medical Association, che vanta 17mila iscritti e ha lo scopo di “motivare ed educare i medici a glorificare Dio e a condurre le persone a Cristo” (MISSION: CMDA exists to motivate, educate, and equip Christian physicians and dentists to glorify God...), ha appoggiato la proposta di legge con entusiasmo. Secondo le dichiarazioni del direttore esecutivo David Stevens, il “Bill to Fight Assisted Suicide” interpreta un principio religioso millenario e indiscutibile: che nessuno può osare decidere della vita e della morte (escluso Dio). Nemmeno il diretto interessato, condannato così a subire una malattia incurabile anche contro la propria volontà.
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