Come non capire che, alla fine di tutto, a decidere se dar seguito o no alla richiesta di morire avanzata dal paziente sarà il medico, e solo lui? Là dove l’eutanasia è già consentita (in Belgio, per esempio, dove il suicidio assistito è ammesso anche per sofferenze psichiche giudicate “intollerabili”) è chiaro come non è mai sufficiente la semplice volontà del malato a garantirgli la “dolce morte”. È invece al medico che spetta (non potrebbe essere altrimenti) la valutazione della qualità e della famosa “dignità” della vita che si chiede di interrompere. Una volta superato il divieto, una volta riconosciuto “per legge” al medico il potere di vita e di morte, una volta eliminato il senso della trasgressione e della proibizione, il pendio scivoloso porterà alla più tetra e oscena banalizzazione.Difficile trovare argomenti meno validi di questi: il vetusto pregiudizio romantico per cui senza «trasgressione» e «proibizione» tutto si fa «tetro», «osceno» e «banale», e una morte da cani fra le sofferenze, o la galera per chi te le ha evitate, costituiscano chissà quale artistico exploit; la falsa sicumera (che l’autorassicurante «non potrebbe essere altrimenti» in inciso rivela per quel che è) con cui si proclama che al medico spetta «la valutazione della qualità e della famosa “dignità” della vita che si chiede di interrompere». Nella richiesta di sospensione dei trattamenti (la cosiddetta eutanasia passiva) al medico spetta soltanto il giudizio della capacità di intendere o di volere del paziente: come si trova scritto inequivocabilmente anche nella Costituzione della Repubblica, «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario», senza ulteriori qualificazioni. Diverso sarebbe il caso dell’eutanasia attiva o del suicidio assistito (in cui si somministra un farmaco capace di indurre la morte), in cui per ragioni culturali – e anche, mi pare, perché non sarebbe facilissimo giustificare il diritto positivo a ricevere in ogni caso quel trattamento – al medico spetta una funzione di filtro; ma possiamo chiamare questo un «potere di vita e di morte»? Formalmente sì – il medico potrà dire «a te è concesso morire, tu invece devi continuare a vivere» – ma non è questo che si intende comunemente con «potere di vita e di morte», che designa piuttosto l’attribuzione di chi ha il potere di mettermi a morte contro la mia volontà. Qui qualcuno ha invece solo il potere (che peraltro potrò aggirare facilmente: la via è sempre aperta...) di impedirmi di morire secondo la mia volontà; ma senza eutanasia, avrei concesso questo potere all’intera società, rendendolo inappellabile e assoluto. L’arte dello slittamento semantico, signora Tiliacos, abbisogna di interpreti più discreti...
Sul Foglio di oggi ricorre invece all’espressione «diritto di vita e di morte» – anzi, più elegantemente, di jus necis et vitae – Sua Eminenza il cardinale Carlo Caffarra («Eutanasia sui neonati e tirannia dell’utilitarismo», 8 dicembre, p. III), il quale – in un discorso pronunciato il giorno prima, che il giornale riporta – afferma tra l’altro:
La giustificazione dell’eutanasia neonatale … è la previsione di una vita umana biologicamente handicappata gravemente e quindi di grave sofferenza. Poiché ovviamente trattasi di persone umane assolutamente incapaci di elaborare una qualsiasi concezione di vita buona, sulla base della quale dedurre un giudizio di sensatezza/insensatezza della propria vita, un altro elabora questo giudizio sulla base dell’ipotesi che il neonato – se fosse in grado di pensare – consentirebbe. Si decide di interrompere la vita di un altro presumendo che esso in futuro condividerebbe la concezione di vita buona propria di chi pone fine alla vita dell’altro.L’argomento ha un suo fascino (non per nulla ritorna spesso nelle discussioni sull’eutanasia neonatale); ma è un fascino specioso. I tutori legali di un minore non solo possono, ma debbono prendere decisioni nel suo interesse: per esempio, ne amministrano le proprietà o ne decidono le cure mediche; non possono astenersene in omaggio a un’autonomia che il minore non possiede. Allo stesso modo dovrebbero prendere una decisione quando il bambino soffre senza speranze: anche non decidere, infatti, costituisce una decisione, che condanna il bambino a un destino terribile che rifiuterebbero per sé stessi. È vero che si potrebbe sostenere che la decisione spetti comunque al bambino, quando sarà in grado di prenderla (a meno che non si abbia la certezza morale – molto difficile da raggiungere – che opterebbe per l’eutanasia): una posizione forse crudele, ma del tutto legittima. Solo che in molti casi il bambino non sarebbe mai in grado di raggiungere l’autonomia morale: in aggiunta (sottolineo: in aggiunta) alle sofferenze fisiche, la malattia potrebbe essere tale da condurlo a morte prima di quel termine, oppure da incapacitarlo mentalmente per sempre. La stessa risposta vale in sostanza per l’argomento dell’uguaglianza. Lo stesso cardinale, del resto, afferma verso la fine che
Ciò che sostengo è la seguente tesi: legittimare questa giustificazione … significa obiettivamente inferire un vulnus grave ai due pilastri fondamentali del profilo democratico che abbiamo voluto dare alla nostra convivenza civile: l’autonomia e l’uguaglianza. …
Autonomia significa che ciascuno ha diritto di vivere secondo la propria concezione di vita buona. La sensatezza/insensatezza della vita di ciascuno non può essere decisa da un estraneo secondo parametri o standard propri di felicità/infelicità. Autonomia significa in primo luogo indisponibilità [della vita] di ciascuno nei confronti di ciascuno, e quindi impossibilità di imporre un giudizio proprio – secondo criteri di senso/non senso – a un altro in ordine al suo vivere. …
La legittimazione dell’eutanasia neonatale ha il significato obiettivo di conferire ad alcuni un “jus necis et vitae” su altri in base a un loro giudizio morale sul destino naturale di una nascita.
Che la ferita inferta all’autonomia implichi una ferita inferta all’uguaglianza fra le persone umane, non ha bisogno di dimostrazione. Alcune persone hanno il diritto di pronunciare una sentenza di morte in base alla propria concezione di vita sensata o non sensata. Una persona è giudicata meritevole o non di essere conservata in vita in base a criteri stabiliti da altri, sui quali essa non può pronunciarsi.
Ciò che mi ha teoreticamente colpito in tutta questa vicenda è … che … i “dogmi fondamentali” della modernità – autonomia ed uguaglianza – non sono in grado, non hanno la forza teoretica e persuasiva di rifiutare ciò che ormai, senza più nessun pudore linguistico, viene chiamato neonaticidio.L’affermazione è un po’ misteriosamente in contraddizione con il resto del discorso, cosa che non mancherà, penso, di «colpire teoreticamente» i lettori...
Ma c’è anche qualcos’altro che colpisce. Come abbiamo visto, il cardinale afferma: «La sensatezza/insensatezza della vita di ciascuno non può essere decisa da un estraneo secondo parametri o standard propri di felicità/infelicità», «Autonomia significa … impossibilità di imporre un giudizio proprio – secondo criteri di senso/non senso – a un altro in ordine al suo vivere», e più avanti ripete: «nessuna ha il diritto di decidere se un altro deve/non deve vivere». Vi suonano familiari queste frasi? Sono, più o meno, quelle che da mesi vengono ripetute costantemente da chi sostiene il diritto di Piero Welby e degli altri nella sua condizione a decidere da sé del proprio destino, a non farsi imporre da estranei un giudizio di sensatezza in ordine al proprio vivere. Non ho dubbi che il cardinal Caffarra saprebbe spiegare in tutt’altro modo queste sue frasi; ma non posso neppure fare a meno di pensare che certe verità le gridano anche, nolenti, le pietre.
Evidentemente continuano a "giocare con le parole"… Un gioco, tra l'altro, come la classica coperta corta, che ripara il neonato inconsapevole lasciando scoperto l'adulto cosciente e viceversa.
RispondiEliminaUn saluto