sabato 29 gennaio 2011

La privacy del signor B.

Abbiamo sentito ripetere molte volte, in questi giorni, un argomento a favore di Silvio Berlusconi: ciò che un cittadino fa tra le mura della sua casa – ci è stato detto – è solo affare suo; in particolare, le abitudini sessuali, per quanto contrarie alla sensibilità più diffusa, non costituiscono un legittimo oggetto di interesse da parte del pubblico, né possono determinare conseguenze penali. Alcuni difensori del capo del governo hanno poi creduto di rilevare una contraddizione in cui sarebbe caduto chi lo accusa: «chi si scandalizza ora, poi non ha niente da dire nei confronti dell’assoluta libertà sessuale o del gay pride» (costoro non sembrano tuttavia aver notato la contraddizione esattamente speculare in cui sono incorsi essi stessi). I concetti invocati, insomma, sono quelli tipicamente liberali della privacy, della distinzione tra morale e diritto, della sovranità dell’individuo nella sua sfera privata, e del principio che ciò che non causa danni ad altri non può essere sanzionato dalla legge.
Le risposte a questo argomento sono altrettanto note. Per prima cosa, si fa notare, in questa vicenda si ipotizza che siano stati commessi dei reati, come la concussione e l’induzione alla prostituzione, non semplicemente delle violazioni della morale. Esistono inoltre degli aspetti, emersi anche negli scandali precedenti, che benché non si configurino (ancora?) come di interesse penale hanno tuttavia un enorme interesse pubblico: alcuni dei criteri di selezione del personale politico adottati dal capo del governo si sono rivelati, per così dire, alquanto peculiari. Ancora: la evidente mancanza di prudenza nel gestire i traffici incentrati sulle proprie abitazioni private, tanto da far quasi sospettare il desiderio inconscio di venire scoperto; un disinvolto uso della menzogna, con l’attribuzione di ruoli improbabili ai vari personaggi coinvolti – ieri era «l’autista di Craxi», oggi «la nipote di Mubarak»; la perdita inevitabile di dignità della carica; il discredito internazionale, sono tutti aspetti che travalicano, e di molto, la dimensione privata. Ma forse l’obiezione più potente è che, avendo tratto vantaggio durante tutta la carriera politica dalla rappresentazione insistita della propria pretesa felice vita familiare, S.B. ha in un certo senso rinunciato al diritto di occultare poi quella stessa vita privata quando essa si è trasformata in qualcosa di diverso da un idillio borghese.
Tutte queste obiezioni individuano certo senza appello l’interesse pubblico della vicenda. E tuttavia, rimane al fondo la sensazione fastidiosa che l’argomento dei difensori del premier sia stato piuttosto aggirato che confutato. Al di là dell’ipocrisia, dei reati, dell’imprudenza suicida, delle bugie, delle ex amanti e maîtresse elevate a ruoli istituzionali, è giusto rimproverare – come in effetti da molti è rimproverata! – a S.B. anche la sua privata dissolutezza? Se questa è incompatibile, una volta portata alla luce, con la dignità della carica, lo sarebbe stata anche se non fosse stata ancora scoperta da nessuno? Ed esiste perciò un interesse pubblico alla trasparenza totale della vita privata di questo e di altri politici? Queste sono domande cui è interessante tentare di rispondere, anche al rischio di perdere un po’ di vista gli aspetti concreti della vicenda, che – come si è detto – vanificano già da soli ogni tentativo di sottrarre il capo del governo alle sue responsabilità.
Il diritto alla privacy appare come un’aggiunta relativamente recente al patrimonio delle idee liberali, con cui non si è forse ancora del tutto integrato; proverò qui a chiarire – anzi, prima di tutto, a chiarirmi – la questione generale, per poi tornare alla fine al caso da cui siamo partiti.

Il diritto alla privacy è, prima di ogni altra cosa, il diritto a non subire intrusioni violente nella nostra sfera privata. La mia casa, i miei beni, il mio corpo mi appartengono, nel senso che posso in generale impedire agli altri di sottrarmene – parzialmente o totalmente – l’uso. Posso quindi anche impedire loro di entrare in casa mia a curiosare o a piazzarmi un microfono nascosto; posso decidere se tenere le tapparelle abbassate o se rifiutare il consenso a un esame del sangue; posso, in breve, negare agli estranei un certo tipo di informazioni sulla mia vita intima. L’accesso a un altro genere di informazioni può avere invece implicazioni differenti: conoscere l’entità del mio conto in banca non permette, di per sé, di sottrarmi il mio denaro; riprendermi discretamente con una telecamera quando esco per strada non ostacola automaticamente la mia passeggiata. Si può discutere, in effetti, se le informazioni personali meritino di essere considerate legalmente come una specie di beni privati, anche se questa sembra più o meno essere la tendenza alla base delle norme sulla privacy, specialmente in Europa.
Ma quali sono le motivazioni ultime che spingono la maggior parte di noi a mantenere un certo grado di controllo sulla propria vita privata? Una delle più importanti è senza dubbio il desiderio di rendere meno probabili future aggressioni: se i ladri non sanno che posseggo una collezione di Modigliani sarà più difficile che mi si introducano in casa; se oggi il mio voto nelle urne rimane segreto potrò forse essere lasciato in pace in avvenire da un ipotetico governo poliziesco. Una motivazione meno banale e forse anche più diffusa merita più attenzione. Anche in una società liberale perfetta, in cui sia sempre lecito ogni comportamento che non lede i diritti degli altri, non è possibile impedire che gli altri ci giudichino in base ai loro gusti morali o estetici. La legge può e deve tacere sulla mia tendenza a contrarre debiti, a fare uso di droghe leggere o ad avere rapporti omosessuali; ma naturalmente non può vietare al mio vicino di farsi un’opinione non del tutto benevola su di me e su quello che faccio. Questa opinione – come si conviene a persone educate – può rimanere tacita, e può persino non portare a nessuna conseguenza pratica nel modo in cui vengo trattato dagli altri; ma non c’è dubbio che già il solo pensiero di trovarsi oggetto di un’attenzione non del tutto benevola ha un potente effetto inibitorio sui nostri comportamenti. Persino nella cultura più tollerante alcune azioni o condizioni – si pensi all’espletamento di certe funzioni corporali o alla nudità – porteranno quasi inevitabilmente a sminuire la nostra immagine presso gli altri. Il diritto alla privacy, dunque, ci consente di tenere almeno nella nostra sfera privata comportamenti che diversamente ci sforzeremmo di reprimere; ci permette, in altre parole, di essere più liberi, o – per usare una celebre definizione – di «essere lasciati soli».
Sbaglierebbe tuttavia chi pensasse che una società liberale sia perciò stesso una società di individui isolati, dediti nel segreto delle loro case a vizi e virtù del tutto privati. Questa è la caricatura che ne fanno spesso gli illiberali; nella realtà, il pensiero liberale si applica in primo luogo agli scambi fra individui, al loro entrare liberamente in mille tipi diversi di rapporti reciproci. Ma ecco che qui il diritto alla privacy comincia a incrinarsi. Io posso sì, finché ci riesco, fare debiti e tenere nascosta ad occhi indiscreti la mia situazione finanziaria; ma se chiedo un mutuo dovrò inevitabilmente accettare di rendere nota la mia storia creditizia. In una società meno ossessionata della nostra dai cosiddetti crimini senza vittime potrei anche comprare sigarette di marijuana dal tabaccaio e fumarmele nel mio salotto sino a sballarmi; ma se lavoro come controllore di volo non mi potrò opporre a periodici test antidroga. Qui stiamo in fondo dicendo un’ovvietà: che nella mia vita privata posso fare ciò che voglio, d’accordo, ma solo finché ciò non causa un danno illecito ad altri; la mia libertà finisce dove comincia quella di banchieri e di viaggiatori in aeroplano.
Meno ovvio è che risulta difficile delimitare con sicurezza una sfera di comportamenti per loro essenza privi di conseguenze negative per gli altri. Prendiamo per esempio l’omosessualità: a parte che si tratta di una condizione che non è il risultato di una scelta, non è forse vero che i nostro gusti sessuali riguardano soltanto noi? Eppure, consideriamo un giovane omosessuale che si trovi a vivere in una realtà di provincia, in cui, pur rimanendo l’omosessualità del tutto legale, si sia però sottoposti a una forte disapprovazione sociale per tutto ciò che esula dalla pretesa «normalità». Immaginiamo allora che costui, per tacitare le malelingue, decida di fare un matrimonio di facciata con una ragazza del posto, non rivelandole però il proprio orientamento sessuale. È chiaro che questo è un comportamento illecito, a tutti i livelli: il giovane sta spostando su un terzo incolpevole i costi che, pur incolpevole anch’egli, dovrebbe sostenere in prima persona, come il costo di affrontare a viso aperto gli sghignazzi dei giovinastri del luogo, o di trasferirsi in una più tollerante metropoli, o – più costruttivamente – di lottare per i propri diritti.
Né d’altra parte ciò che sarebbe illegittimo sottrarre alla conoscenza altrui pertiene esclusivamente alla sfera delle scelte di vita fondamentali. Pensiamo per esempio a un colloquio per l’assunzione in un posto di lavoro: non solo possono essere relativamente frivole le caratteristiche che desideriamo mettere in luce – il vestito con cui ci presentiamo, gli hobby che alcuni consigliano di elencare in fondo al CV – ma anche quelle che cerchiamo di nascondere, come l’anno che abbiamo passato dopo la laurea a «cercare noi stessi» facendo trekking in Grecia o il licenziamento subito vent’anni prima per aver litigato con il nostro capo di allora. Nessuno si scandalizza per queste piccole omissioni; ma nessuno si scandalizza nemmeno se l’abile cacciatore di teste le porta alla luce leggendo con attenzione il nostro curriculum. La sua non è – o almeno non dovrebbe essere – curiosità malevola, ma il desiderio di farsi un’idea di che tipo d’uomo è quello con cui la sua azienda potrebbe stare per avviare un rapporto impegnativo: quanto è onesto, diligente, abile. Un grande giurista americano, Richard Posner, ha tentato di dimostrare alcuni anni fa che le limitazioni imposte dalle leggi sulla privacy potrebbero in effetti rendere meno efficiente il mercato, riducendo la quantità di informazioni disponibili a chi offre lavoro.
Abbiamo visto insomma che esiste un’ulteriore motivazione che sottostà all’invocazione di un diritto alla privacy; motivazione un po’ meno nobile delle altre, visto che consiste in fondo nel desiderio di fuorviare coloro con cui entriamo in relazione, omettendo di riferire difetti la cui conoscenza potrebbe essere necessaria alla loro scelta informata, o addirittura costruendo una falsa immagine di noi stessi. Che fare per evitare questi effetti indesiderati? Ovviamente non è possibile sancire un diritto per datori di lavoro o fidanzate a introdursi surrettiziamente in casa nostra per consultare diari o album fotografici. Fattibile – in linea di principio – sarebbe invece una disciplina meno rigorosa sull’accesso alle informazioni che ci riguardano ricavate, per così dire, dalle nostre interazioni con il mondo esterno: le dichiarazioni dei redditi, la fedina penale, la situazione bancaria, la carriera scolastica, e così via. Qui, come abbiamo detto più sopra, non è in gioco un’intrusione violenta nella nostra sfera più privata; il trade-off, allora, è tra la libertà dallo sguardo occhiuto del prossimo e l’impossibilità di ingannare quello stesso prossimo sulle nostre vere qualità. In un certo senso, più si allenta il nostro controllo sulle informazioni che ci riguardano, più cresce la spinta al conformismo, inteso da un lato come adesione alla norma legale ed etica, dall’altro come adesione alla norma sociale e moralistica. Il bilanciamento, come si può immaginare, non è facile.
Meno controverso, almeno a prima vista, è affidare le decisioni della privacy al libero accordo fra le parti interessate, che troveranno da sole un punto di equlibrio fra i reciproci interessi. Vuoi fare l’agente segreto? Bene, forniscici un resoconto dettagliato della tua vita: precedenti penali, educazione, fidanzate, situazione finanziaria e medica, etc., in modo che noi si possa valutare se costituisci una minaccia o una risorsa per la sicurezza nazionale, se sei ricattabile, quali sono le tue capacità di agente sul campo. Se non sei disposto, nessuno ti obbliga: ci sono altre carriere soddisfacenti per le quali è richiesta meno trasparenza. È importante notare (come si vede bene anche dall’esempio) che il sacrificio della privacy richiesto può essere grande quanto si vuole, purché contrattato liberamente. L’unico limite a un accordo di questo tipo, classicamente, è che non può prevedere la riduzione in schiavitù di uno dei contraenti. Proprio perché frutto di un libero accordo, però, richieste esagerate (o percepite come tali) non saranno accettate: se per una perfetta sicurezza si richiedesse a un agente segreto di indossare 24 ore su 24 dei microfoni per monitorare tutte le sue conversazioni, difficilmente si troverebbe qualcuno disposto a tanto, tranne forse degli esibizionisti – probabilmente non le persone più adatte per quel ruolo...
Naturalmente la realtà è spesso abbastanza diversa da ciò che predica la dottrina astratta. Il potere contrattuale di una delle parti può essere di molto inferiore a quello dell’altra; in questo caso si porranno vincoli normativi o sindacali a ciò che viene stabilito per contratto. Un caso particolare può essere rappresentato da datori di lavori che richiedano i precedenti penali degli impiegati – una richiesta ovviamente pertinente all’interesse dell’azienda, ma che rischia di escludere dal lavoro chiunque abbia scontato una condanna non trascurabile. In questo caso si può forse prevedere (almeno in certi casi) un diritto all’oblio, per impedire di aggravare la punizione dei delitti al di là di quanto stabilito dai tribunali.
Più interessanti sono le limitazioni tese a impedire discriminazioni. Abbiamo già visto come la privacy ci protegga dal giudizio che gli altri esprimono in base al loro sistema di valori personali; diventa dunque indispensabile impedire che nella contrattazione (qui, in particolare, di natura economica) sia richiesto l’accesso a informazioni irrilevanti – in base a criteri di razionalità intersoggettiva – ai fini dell’espletamento delle mansioni richieste. L’azienda delle poste non può legittimamente pretendere di conoscere il mio orientamento sessuale, visto che questo non ha conseguenze oggettive sulla mia abilità nel consegnare telegrammi (e ovviamente non mi può rifiutare di assumere o licenziare se scopre comunque che sono omosessuale). Il datore di lavoro deve rinunciare al giudizio moralistico ed essere costretto, per così dire, all’esercizio di una stretta razionalità economica.

È venuto finalmente il momento di applicare questi principi generali al caso che le cronache ci hanno proposto. Allora: è di interesse pubblico o no, sapere che il capo del governo si fa menare per il naso da Emilio Fede e Lele Mora? È di interesse pubblico o no sapere che frequenta abitualmente una compagnia composta da poco raccomandabili ballerini cubani e da prostitute i cui fidanzati scorrazzano su automobili imbottite di droga? Che si pone come «utilizzatore finale», e quindi in quanto tale non perseguibile penalmente, di attività criminose – l’induzione alla prostituzione – di altri? Che sembra dipendente, senza possibilità di controllo, da un certo tipo di svaghi? Che passa le sue notti in attività piuttosto impegnative per una persona della sua età, al punto di non poter presenziare il giorno dopo a una cerimonia funebre di Stato? Qui per «interesse pubblico» non si intende quello – inesistente – ad emettere giudizi di gusto, morale o estetico che sia, ma bensì l’interesse a conoscere se chi ci governa possiede le virtù – nel senso di capacità – del buon capo di governo: la capacità di giudicare gli uomini, l’impegno per la legalità, la forza mentale e fisica, etc. La risposta a queste domande, mi pare, è allora abbastanza scontata; se l’uomo privato non possiede certe qualità, non le possiederà neanche l’uomo pubblico. Attenzione: questo non vuol dire che una volta accertato l’interesse pubblico a sapere sia anche scontato il giudizio finale da emettere su queste circostanze, che andranno considerate nel quadro generale dell’attività del soggetto. Idealmente, questi comportamenti «privati» sarebbero meno importanti, per il nostro giudizio, dell’attività pubblica del Presidente del Consiglio; ma in un’epoca di mancata separazione fra potere politico e mezzi di informazione questi quadretti di vita privata, nella loro immediatezza priva (o quasi) di schermi, possono fornire un correttivo prezioso alla propaganda ufficiale.
Certo, la differenza fra giudizio sulle qualità di comando e giudizio di gusto estetico/morale può essere talvolta sottile, specialmente se il secondo cerca di spacciarsi per il primo: si pensi ai quei politici che hanno tradito i propri coniugi e di cui si è detto, con analogia il più delle volte tirata per i capelli, che avrebbero potuto tradire allo stesso modo anche i propri elettori. Una certa confusione deriva anche dall’abitudine italiana di definire come «questione morale» argomenti che hanno invece in genere rilevanza penale. Ma forse non bisogna diffidare poi troppo della razionalità del pubblico, se in questi giorni proprio coloro dai quali ci si sarebbe aspettato un giudizio più severo sulla «moralità» del premier hanno invece preferito continuare a garantirgli il loro sostegno, in difesa dei propri concreti interessi; il fatto che questi interessi siano in genere a seconda dei casi o ripugnanti o innominabili non cambia, mi pare, il punto.
Tutto ciò vuol forse dire che dovremmo pretendere dai politici una totale trasparenza, anche negli affari più intimi? Che la magistratura dovrebbe avere il permesso di irrompere nelle loro dimore private al minimo sentore di un comportamento inadeguato? Ovviamente no; in questo modo otterremmo il risultato che i soli a presentarsi per concorrere a una carica politica sarebbero i più bigotti e conformisti – e forse neppure loro. Ma le informazioni di cui stiamo parlando non sono state ottenute per dimostrare che S.B. è inadatto a governare, ma bensì nell’ambito di un’inchiesta su fatti di rilevanza penale; e dagli atti di questa inchiesta sarebbe praticamente impossibile espungere tutte le informazioni sui fatti che hanno una rilevanza di altro tipo (e sarebbe ugualmente impossibile, suppongo, tenerle riservate per sempre). La «violazione» della privacy è intrinseca in questo caso all’azione penale, e porta alla luce, come abbiamo visto, fatti di interesse pubblico; non c’è dunque nessuna ragione per condannarla. So bene che secondo alcuni l’inchiesta avrebbe avuto in realtà l’unico scopo di svergognare S.B., e che i reati ipotizzati sarebbero insussistenti; se questo fosse vero, i magistrati dovrebbero essere chiamati a risponderne, ma il principio rimane valido.

In questo lungo discorso ho cercato di mostrare come la vita privata dei politici riguardi – a certe precise condizioni – tutti i cittadini. Va ricordato comunque ancora, al di là di queste considerazioni, che più volte in questa vicenda S.B. è uscito dai limiti della propria sfera privata; come quando una sera ha raccontato a un questore una storia improbabile. Delle due l’una: o il capo del governo credeva veramente a quello che diceva (ma chi se la beve?), e allora è un mentecatto che si fa prendere in giro da una diciassettenne; oppure non ci credeva, e allora ha mentito per ottenerne un vantaggio privato. In entrambi i casi, dimettersi sarebbe l’unica cosa decente da fare. Se questo signore ha ancora il senso della decenza, si intende, e soprattutto se lo ha ancora la maggioranza dei cittadini di questo paese.

giovedì 27 gennaio 2011

Il machiavellismo astuto della Chiesa

Maurizio Mori interviene sui giudizi assai ambigui dati dalle gerarchie ecclesiastiche sull’ultimo scandalo berlusconiano («Ma l’obiettivo della Chiesa non è Berlusconi», L’Unità, 26 gennaio 2011, p. 19):
Con questa equidistanza la chiesa (ufficiale) riconferma il sostegno politico dato a Berlusconi in cambio di leggi ispirate ai valori non-negoziabili. La condotta privata del premier (se confermata: cosa non facile) è deprecabile ma frutto del relativismo che il governo dice di voler combattere. In assenza di alternative migliori, con realismo macchiavellico, la chiesa (ufficiale) si astiene dal giudizio: altro che condanna o spallata!
È vero che per chiudere l’era Berlusconi ci vuole l’apporto di tutti, senza troppe sottigliezze. Ma arruolare la chiesa (ufficiale) non solo comporta una forzatura interpretativa dei testi, ma è un errore culturale perché così facendo si continua ad attribuirle una “autorevolezza morale” che da tempo è svanita. Bisogna riconoscere che la pretesa della chiesa (ufficiale) di imporre per legge i valori non-negoziabili si coniuga con un macchiavellismo astuto generando una miscela fonte della tragedia italiana e che spiana la via all’ormai quasi-ventennio berlusconiano. La ricostruzione morale e materiale che ci aspetta (speriamo presto!) deve guardare all’etica laica, non continuare ad invocare illusori valori non negoziabili validi solo a parole.

mercoledì 26 gennaio 2011

Isola Lab

Si svolgerà a Milano la seconda tappa del progetto Fare del pensiero un’azione: un laboratorio di citizen journalism dal 18 al 25 febbraio partendo da una birreria letteraria, l’Isola della birra.

Tutte le informazioni qui.

martedì 25 gennaio 2011

venerdì 21 gennaio 2011

Premio Saint-Vincent di giornalismo

Gabriele Del Grande scrive a Giorgio Napolitano.

Mi scusi presidente, ma stamattina la mia poltrona resterà vuota. Mi sembra il miglior modo per celebrare la giornata nazionale della stampa: essere altrove. I motivi sono tanti. Innanzitutto non mi sembra affatto un onore applaudire un paggio ormai vetusto come Bruno Vespa, che da trent'anni occupa le reti pubbliche a nostre salatissime spese con i suoi inconsistenti salottini. Né tantomeno mi sembra un onore ascoltare le parole della federazione nazionale della stampa italiana sullo stato del giornalismo in questo paese. Il suono dell'ipocrisia mi disturba l'udito. Soprattutto se penso a tutti quei quotidiani nazionali che non pagano il lavoro, e a tutti quei colleghi - molto più bravi delle cariatidi che oggi premiate - che hanno cambiato mestiere perché l'affitto e il mutuo non si pagano con la gloria di una firma pubblicata a gratis su un quotidiano nazionale. Infine non mi sembra un onore stringere la mano a un signore incapace di spingere certi temi, se necessario anche fino allo scontro istituzionale. Perché è inutile celebrare la libertà di stampa nei salotti, quando sappiamo bene quale sia la situazione del conflitto di interessi nel nostro paese, a destra con le proprietà di Berlusconi, a sinistra con la dipendenza cronica dai finanziamenti pubblici e le parentopoli varie, al centro coi veti dei vescovi, e ultima della fila alla Rai, con le lunghe mani di tutti i partiti che se la sono sempre spartita

E poi a dirla tutta, in questa Italietta non mi sembra nemmeno più un onore ricevere dei premi. Sinceramente preferirei una proposta di lavoro a un trofeo. Nel giugno del 2010 mi sono stati conferiti quattro premi al giornalismo. E mi sono trovato in difficoltà ad accettarli, per il semplice fatto che è difficile spiegare ai 250.000 lettori del mio blog Fortress Europe, che in Italia si premiano i disoccupati. Che in Italia uno che per le sue inchieste riceve tre premi nazionali e uno internazionale, i cui libri sono tradotti in spagnolo e tedesco, per tirare a campare vende in nero collanine touareg mercanteggiate nelle oasi del deserto e gira l'Italia con valigie cariche di libri da vendere durante le presentazioni per rientrare delle spese dei suoi reportage.

È amaro girare il mondo presentando i miei libri, dal Marocco alla Germania, dalla Spagna alla Turchia, dal Belgio alla Grecia, e presentarmi come disoccupato. Perché nessun giornale in Italia è interessato a investire sul giornalismo d'inchiesta, e che il massimo che ti sanno proporre è di curare una pagina gratuitamente su un sito. O che devi litigare ogni volta per farti pagare metà del minimo sindacale, e devi stare attento che non ti ripubblichino le foto senza dirtelo e senza pagartele. È amaro pensare che forse a trent'anni la scelta migliore sia ritirarsi in campagna a fare l'orto.

Sarà che io il mestiere l'ho imparato sul campo e non sui banchi delle scuole di giornalismo, ma a me sembra che il senso di questo mestiere si trovi altrove. Non sta nei salotti romani. Ma piuttosto per strada, nelle scarpe impolverate di chi ancora va incontro alle storie che raccontano il mondo che cambia.

Presidente, facciamo che festeggiamo un'altra volta. Quando questo Paese sarà cambiato. Quando i migliori tra i miei amici torneranno dall'estero dove sono emigrati. Facciamo che festeggiamo quando alle mie amiche ai colloqui di lavoro torneranno a guardare il curriculum anziché le tette. Facciamo che festeggiamo quando gli editori inizieranno a pagare il lavoro per quello che vale, in denari e non in pacche sulle spalle perché siamo compagni. Facciamo che festeggiamo quando ad amministrare questo bel paese saranno persone valide e meritevoli, e non zoccole, servi, parenti e loschi personaggi in aria di mafia. Facciamo che festeggiamo quando la vostra generazione di ottuagenari farà il suo dovere, togliendosi una volta per tutte di mezzo e passando il testimone.

Ps. Le invio anche la canzone “Io non mi sento italiano”, di Giorgio Gaber. Se la riascolti, perché è quello che molti italiani pensano. Magari sembrano irriverenti, ma sono loro quelli che vogliono bene al paese. Non voi.

mercoledì 19 gennaio 2011

Avvenire eugenista

Sergio Bartolommei, «Fecondazione e confusione», L’Unità, 19 gennaio 2011, p. 23:
Il quotidiano Avvenire dovrà mettersi d’accordo con se stesso. In due articoli apparsi sullo stesso numero (13 gennaio) dell’inserto settimanale È Vita si sostiene una cosa e il suo contrario anche se, in entrambi i casi, la pretesa di verità è identica. Da una parte si biasima il mettere al mondo nuovi individui ispirandosi all’idea arrogante di “qualità della vita”; dall’altra si lamenta che il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (Pma) pregiudica la qualità di chi viene alla luce perché espone ad accresciuti rischi di nascere prematuri, sottopeso, con deficit visivi, cerebrali e respiratori, malformazioni e malattie genetiche. Non entriamo nel merito delle tesi dei due articoli, specie del secondo, che sembra trascurare completamente le ampie smentite che vengono dalle altissime percentuali di nati sani fra i milioni di individui venuti al mondo negli ultimi trent’anni grazie alla fecondazione assistita. Ci preme solo osservare che, da parte di chi dichiara di ispirarsi all’etica cattolica rivendicandone interna omogeneità e coerenza, occorrerà decidersi. O si è a favore dell’idea di buone nascite” o si è contro l’idea di “qualità della vita”. Tertium non datur. Nel primo caso occorrererebbe lasciar cadere l’accusa di eugenica rivolta con atteggiamento ostile e liquidatorio contro chi opta per favorire, con la fecondazione assistita, il miglior controllo del processo riproduttivo, la diagnosi pre-impianto degli embrioni, l’eventuale selezione embrionaria. Nel secondo caso non si dovrebbe viceversa fare ricorso all’argomento dei rischi che (presuntivamente) corre chi nasce tramite Pma perché farlo significherebbe optare per il controllo “eugenico” della riproduzione e per il metodo più efficace per dare un buon avvio alla vita (il migliore!) a chi nasce. Si dirà che entrambe le versioni qualcosa hanno in comune, ed è il vantare i presunti meriti della modalità “naturale” di nascere. Così è, in effetti, ma ciò non scioglie la tendenza ai paradossi dell’etica cattolica. Al contrario, essa ne esce accresciuta. Ci si dovrebbe infatti ulteriormente intendere su quale significato di natura sia quello “buono” per il giornale della Cei: in un caso la natura è lo spazio della spontaneità, del caso e della imprevedibilità opposti a quello della “qualità” e del “ben fatto”. Nell’altro è il luogo della “qualità” e del “ben fatto” opposti alla imprevedibilità delle tecniche e dei loro effetti. Farà piacere se Avvenire vorrà dare un contributo a chiarire termini e questioni importanti e delicate, spesso all’origine di aspre battaglie politiche e legislative che vedono il giornale dei vescovi italiani rivendicare l’importanza di principi e valori “non negoziabili”.

venerdì 14 gennaio 2011

Prolungare la volontà

Maurizio Mori interviene sulla sentenza di due giorni fa del Tribunale di Firenze, che ha accolto la richiesta di un cittadino di delegare al proprio amministratore di sostegno le decisioni di fine vita qualora egli non fosse più in grado di esprimerle («Biotestamento c’è un giudice a Firenze», L’Unità, 13 gennaio 2011, p. 19).
Più che insistere sugli aspetti giuridici e tecnici della questione, è bene chiarire il fondamento etico filosofico che sta alla base della sentenza di ieri del Tribunale di Firenze e delle altre richieste in materia. Il punto di partenza è che il consenso informato costituisce il presupposto e il fondamento dell’attività clinica. Non è permesso tagliare neanche un capello senza il consenso dell’interessato, perché la volontà è ciò che presiede e regola gli interventi sul proprio corpo. Se la persona cosciente e capace di intendere e di volere ha il diritto di rifiutare le terapie non volute, non si vede perché questo diritto venga meno ove l’interessato diventi incapace. La perdita di coscienza non dissolve né volatilizza la volontà dell’interessato. Essa permane anche quando l’individuo non è più in grado di manifestarla. Si opererebbe una discriminazione non riconoscendo all’individuo la possibilità di fare in modo che la propria volontà si prolunghi anche dopo la perdita della coscienza.

Le famiglie omogenitoriali in Italia: una realtà del nostro tempo

Corso di formazione per educatori asili nido e scuole materne.
Il 18 e il 25 gennaio 2011, dalle ore 16.45 alle 19.30, si terrà, presso la Sala Consiliare Municipale, “Piacentina Lo Mastro” in Via Benedetto Croce 50, il corso di aggiornamento per educatori di asilo nido ed insegnanti di scuola dell’infanzia, aperto anche a tutti i cittadini interessati. I contributi di docenti dell’Università “La Sapienza” di Roma Chiara Lalli e Vittorio Lingiardi, le esperienze dei genitori dell’Associazione Famiglie Arcobaleno e delle educatrici dei nidi del Municipio Roma XI, che hanno seguito bambine e bambini figli di genitori omosessuali, permetteranno un ampio confronto sulla realtà delle famiglie omogenitoriali. Intervengono Andrea Catarci, Presidente del Municipio Roma XI, Enzo Foschi, Vicepresidente della Commissione Cultura e Sport della Regione Lazio e Carla di Veroli, Assessora alle Politiche Culturali e Pari Opportunità del Municipio Roma XI.

Municipio IX e Famiglie Arcobaleno.

martedì 11 gennaio 2011

Mani pulite

Non ci interessa sapere che numero di scarpe portano, se assomigliano di più al padre o alla madre, se sono omosessuali o eterosessuali, come recita lo spot. Ma dovrebbe interessarci, e molto, sapere se si sono lavati per bene le mani. Parliamo dei medici e degli infermieri a cui è affidata la cura della nostra salute e soprattutto quella dei più vulnerabili: neonati e puerpere, anziani e immunodepressi. Disinfettarsi le mani per gli operatori sanitari è un dovere, e non soltanto prima di entrare in sala operatoria come ci siamo abituati a vedere in Grey’s Anatomy e nelle altre medical series. Acqua e sapone, o ancor meglio i disinfettanti a base di alcol, dovrebbero essere utilizzati anche tra una visita e l’altra. Ma non tutti lo fanno: c’è chi ha fretta, chi ha le mani screpolate, chi tende a fregarsene, chi ha imparato il mestiere da maestri che non lo facevano. Negli Stati Uniti si stima che due milioni di persone l’anno contraggano un’infezione nosocomiale. In Italia si parla di 200.000 infezioni ospedaliere evitabili. Ovviamente non tutte le vacche sono ugualmente nere, ma i margini di miglioramento sembrano notevoli persino nei centri di eccellenza.
Anna Meldolesi, Il Riformista, 31 dicembre 2010. Continua qui.

domenica 9 gennaio 2011

L’università lo mobbizza. E lui ora chiede le scuse pubbliche

Sembra una storia dell’orrore quella di Ermanno Laureti Vignolo e invece è una storia ambientata tra le mura universitarie.
Manca solo la lupara.

sabato 8 gennaio 2011

Parent One, Parent Two

Nel passaporto statunitense ci sarà genitore uno e genitore due e non più madre e padre. Qui se sei il parent two devi fare i salti mortali per portare in vacanza il pargolo.

giovedì 6 gennaio 2011

Niente di nuovo sul fronte costituzionale

È stata pubblicato il testo dell’Ordinanza n. 4/2011, con cui la Consulta ha rigettato la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Ferrara, di alcuni articoli del codice civile, nella parte in cui non consentono che le persone dello stesso sesso possano contrarre matrimonio, per contrasto presunto con gli articoli 2, 3 e 29, primo comma, della Costituzione. La Corte, com’era prevedibile, ha rimandato alla sua precedente sentenza n. 138/2010, in cui rigettava analoga questione, non ritenendo che risultino «allegati profili diversi o ulteriori, idonei a superare gli argomenti addotti nella precedente pronuncia». Nessuna novità, dunque, su questo fronte.

mercoledì 5 gennaio 2011

Master di bioetica

Sta per partire la seconda edizione del master biennale in bioetica e etica applicata della università di Torino.
Qui tutte le informazioni al riguardo.

Non imbrigliamo la legge sull’aborto

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sezione terza, ha annullato un decreto e una deliberazione della Giunta Regionale lombarda, nei quali si imponeva una disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza che il TAR ha giudicato illegittima (sentenza n. 07735/2010). Fra l’altro, la Giunta della Lombardia pretendeva di specificare in 22 settimane e tre giorni di gestazione quel limite cui si riferisce – lasciandolo indeterminato – la legge 194/1978 nell’art. 7, dove si afferma che «Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso» in cui la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna «e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto». Obietta il TAR:
L’art. 7, ultimo comma, della legge prevede poi che “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’articolo 6 ….”.
Quest’ultima disposizione detta quindi una condizione negativa, che va ad aggiungersi alle due condizioni positive sopra illustrate: se non vi è pericolo di vita per la madre, e non si ricade dunque nell’ipotesi di cui alla lett. a), l’interruzione della gravidanza può farsi solo se vi è impossibilità di vita autonoma del feto, e cioè se questo non ha raggiunto un grado di maturità tale da consentirgli, una volta estratto dal grembo materno, di completare il suo processo di formazione (cfr. Cassazione civile, sez. III, 4 gennaio 2010, n. 13).
Come si vede la legge non ha fissato un termine preciso oltre il quale presumere che il feto sia in grado di condurre vita autonoma, ma consente che tale elemento venga accertato caso per caso dagli operatori.
Ritiene il Collegio che questa omissione non sia frutto di una svista, né che essa sia sintomo di incapacità del legislatore nazionale (che avrebbe, in tal modo, determinato una lacuna nella disciplina da colmare non appena possibile, magari grazie all’efficiente intervento delle regioni).
Al contrario si tratta di una scelta precisa, consapevole e ponderata.
Invero, come spesso l’esperienza insegna, in taluni casi non è opportuno imbrigliare in una disposizione legislativa parametri che possono variare a seconda delle condizioni che si presentano nelle innumerevoli, sempre diverse, fattispecie concrete e che, soprattutto, possono variare a seconda del livello raggiunto dalle acquisizioni scientifiche e sperimentali in [un] dato momento storico. È proprio per questa ragione che si è preferito lasciare che l’accertamento circa la possibilità di vita autonoma del feto sia condotto caso per caso dal medico che segue la gestante.
Risulta pertanto chiaro il contrasto fra la disposizione statale e quella contenuta nelle linee guida regionali le quali, individuando un termine oltre il quale si deve presumere, salvo prova contraria, che il feto possa avere vita autonoma, contravvengono alla chiara decisione del legislatore nazionale di non interferire in un giudizio volutamente riservato agli operatori, i quali, come detto, debbono poter effettuare le proprie valutazioni esclusivamente sulla base delle risultanze degli accertamenti svolti caso per caso e sulle base del livello delle acquisizioni scientifiche e sperimentali raggiunto nel momento in cui vengono formulate le valutazioni stesse.
La disposizione in esame dettata dalle linea guida è quindi illegittima.
L’argomentazione mi pare del tutto condivisibile; anche se, volendo fare una questione di sfumature, l’accento maggiore avrebbe dovuto forse essere posto non tanto sul «livello raggiunto dalle acquisizioni scientifiche e sperimentali» in un dato momento, che di per sé non sarebbe incompatibile con linee guida che specifichino i termini temporali, purché costantemente aggiornate (e su base nazionale); quanto piuttosto sulla grande varietà delle «fattispecie concrete». Come scriveva tempo fa Carlo Flamigni («Aborto, Verità e Menzogne», gennaio 2008),
è vero infatti che nessun feto sopravvive se costretto a nascere entro le 22 settimane di gestazione, ma è anche vero che nessun feto nato alla ventiquattresima settimana sopravvive se la madre lo partorisce in una remota località di montagna, o se è portatore di una grave malformazione per la quale deve essere sottoposto a intervento chirurgico, ed è altresì vero che esistono spesso problemi quando si deve datare una gestazione, che la prognosi è diversa se il parto è spontaneo o operativo e così via.
Mi pare che queste considerazioni rendano inammissibile la riproposizione della regolamentazione lombarda su base nazionale che adesso gli integralisti invocano, per sfuggire alle obiezioni espresse in questa stessa sentenza in merito alla competenza regionale sulla materia dell’interruzione di gravidanza. Linee guida, anche nazionali, andrebbero contro lo spirito della legge 194/1978, correttamente individuato dal TAR di Milano, e dovrebbero dunque soccombere dinanzi alla fonte legislativa.

sabato 1 gennaio 2011

The vanishing mind

Todd Heisler/The New York Times
Disregarding typical nursing-home rules, Beatitudes allowed Ms. Nance, 96 and afflicted with Alzheimer’s, to sleep, be bathed and dine whenever she wanted, even at 2 a.m. She could eat anything, too, no matter how unhealthy, including unlimited chocolate.
[...]
Dementia patients at Beatitudes are allowed practically anything that brings comfort, even an alcoholic “nip at night,” said Tena Alonzo, director of research. “Whatever your vice is, we’re your folks,” she said.

Once, Ms. Alonzo said: “The state tried to cite us for having chocolate on the nursing chart. They were like, ‘It’s not a medication.’ Yes, it is. It’s better than Xanax.”
Giving Alzheimer’s Patients Their Way, Even Chocolate, The New York Times, december 31, 2010 (more pics).

Un decennio non male

Per iniziare l’anno nuovo nel modo migliore, consiglio la lettura di «Reasons to be Cheerful» (Charlie’s Diary, 31 dicembre 2010), in cui lo scrittore Charlie Stross risponde a chi gli chiedeva cosa mai di buono fosse accaduto nei dieci anni appena passati, a parte l’iPod.
In other news of improvements, both China and India underwent annual economic growth averaging around 10% per year throughout the decade. The sheer scale of it is mind-numbing; it’s as if the entire population of the USA and the EU combined had gone from third-world poverty to first-world standards of living. (There are still a lot of dirt-poor peasants left behind in villages, and a lot of economic – never mind political – problems with both India and China’s developed urban sectors, but overall, life is vastly better today than it was a decade ago for around a billion people.)
Da leggere tutto. Buon 2011!