
Le risposte a questo argomento sono altrettanto note. Per prima cosa, si fa notare, in questa vicenda si ipotizza che siano stati commessi dei reati, come la concussione e l’induzione alla prostituzione, non semplicemente delle violazioni della morale. Esistono inoltre degli aspetti, emersi anche negli scandali precedenti, che benché non si configurino (ancora?) come di interesse penale hanno tuttavia un enorme interesse pubblico: alcuni dei criteri di selezione del personale politico adottati dal capo del governo si sono rivelati, per così dire, alquanto peculiari. Ancora: la evidente mancanza di prudenza nel gestire i traffici incentrati sulle proprie abitazioni private, tanto da far quasi sospettare il desiderio inconscio di venire scoperto; un disinvolto uso della menzogna, con l’attribuzione di ruoli improbabili ai vari personaggi coinvolti – ieri era «l’autista di Craxi», oggi «la nipote di Mubarak»; la perdita inevitabile di dignità della carica; il discredito internazionale, sono tutti aspetti che travalicano, e di molto, la dimensione privata. Ma forse l’obiezione più potente è che, avendo tratto vantaggio durante tutta la carriera politica dalla rappresentazione insistita della propria pretesa felice vita familiare, S.B. ha in un certo senso rinunciato al diritto di occultare poi quella stessa vita privata quando essa si è trasformata in qualcosa di diverso da un idillio borghese.
Tutte queste obiezioni individuano certo senza appello l’interesse pubblico della vicenda. E tuttavia, rimane al fondo la sensazione fastidiosa che l’argomento dei difensori del premier sia stato piuttosto aggirato che confutato. Al di là dell’ipocrisia, dei reati, dell’imprudenza suicida, delle bugie, delle ex amanti e maîtresse elevate a ruoli istituzionali, è giusto rimproverare – come in effetti da molti è rimproverata! – a S.B. anche la sua privata dissolutezza? Se questa è incompatibile, una volta portata alla luce, con la dignità della carica, lo sarebbe stata anche se non fosse stata ancora scoperta da nessuno? Ed esiste perciò un interesse pubblico alla trasparenza totale della vita privata di questo e di altri politici? Queste sono domande cui è interessante tentare di rispondere, anche al rischio di perdere un po’ di vista gli aspetti concreti della vicenda, che – come si è detto – vanificano già da soli ogni tentativo di sottrarre il capo del governo alle sue responsabilità.
Il diritto alla privacy appare come un’aggiunta relativamente recente al patrimonio delle idee liberali, con cui non si è forse ancora del tutto integrato; proverò qui a chiarire – anzi, prima di tutto, a chiarirmi – la questione generale, per poi tornare alla fine al caso da cui siamo partiti.
Il diritto alla privacy è, prima di ogni altra cosa, il diritto a non subire intrusioni violente nella nostra sfera privata. La mia casa, i miei beni, il mio corpo mi appartengono, nel senso che posso in generale impedire agli altri di sottrarmene – parzialmente o totalmente – l’uso. Posso quindi anche impedire loro di entrare in casa mia a curiosare o a piazzarmi un microfono nascosto; posso decidere se tenere le tapparelle abbassate o se rifiutare il consenso a un esame del sangue; posso, in breve, negare agli estranei un certo tipo di informazioni sulla mia vita intima. L’accesso a un altro genere di informazioni può avere invece implicazioni differenti: conoscere l’entità del mio conto in banca non permette, di per sé, di sottrarmi il mio denaro; riprendermi discretamente con una telecamera quando esco per strada non ostacola automaticamente la mia passeggiata. Si può discutere, in effetti, se le informazioni personali meritino di essere considerate legalmente come una specie di beni privati, anche se questa sembra più o meno essere la tendenza alla base delle norme sulla privacy, specialmente in Europa.
Ma quali sono le motivazioni ultime che spingono la maggior parte di noi a mantenere un certo grado di controllo sulla propria vita privata? Una delle più importanti è senza dubbio il desiderio di rendere meno probabili future aggressioni: se i ladri non sanno che posseggo una collezione di Modigliani sarà più difficile che mi si introducano in casa; se oggi il mio voto nelle urne rimane segreto potrò forse essere lasciato in pace in avvenire da un ipotetico governo poliziesco. Una motivazione meno banale e forse anche più diffusa merita più attenzione. Anche in una società liberale perfetta, in cui sia sempre lecito ogni comportamento che non lede i diritti degli altri, non è possibile impedire che gli altri ci giudichino in base ai loro gusti morali o estetici. La legge può e deve tacere sulla mia tendenza a contrarre debiti, a fare uso di droghe leggere o ad avere rapporti omosessuali; ma naturalmente non può vietare al mio vicino di farsi un’opinione non del tutto benevola su di me e su quello che faccio. Questa opinione – come si conviene a persone educate – può rimanere tacita, e può persino non portare a nessuna conseguenza pratica nel modo in cui vengo trattato dagli altri; ma non c’è dubbio che già il solo pensiero di trovarsi oggetto di un’attenzione non del tutto benevola ha un potente effetto inibitorio sui nostri comportamenti. Persino nella cultura più tollerante alcune azioni o condizioni – si pensi all’espletamento di certe funzioni corporali o alla nudità – porteranno quasi inevitabilmente a sminuire la nostra immagine presso gli altri. Il diritto alla privacy, dunque, ci consente di tenere almeno nella nostra sfera privata comportamenti che diversamente ci sforzeremmo di reprimere; ci permette, in altre parole, di essere più liberi, o – per usare una celebre definizione – di «essere lasciati soli».
Sbaglierebbe tuttavia chi pensasse che una società liberale sia perciò stesso una società di individui isolati, dediti nel segreto delle loro case a vizi e virtù del tutto privati. Questa è la caricatura che ne fanno spesso gli illiberali; nella realtà, il pensiero liberale si applica in primo luogo agli scambi fra individui, al loro entrare liberamente in mille tipi diversi di rapporti reciproci. Ma ecco che qui il diritto alla privacy comincia a incrinarsi. Io posso sì, finché ci riesco, fare debiti e tenere nascosta ad occhi indiscreti la mia situazione finanziaria; ma se chiedo un mutuo dovrò inevitabilmente accettare di rendere nota la mia storia creditizia. In una società meno ossessionata della nostra dai cosiddetti crimini senza vittime potrei anche comprare sigarette di marijuana dal tabaccaio e fumarmele nel mio salotto sino a sballarmi; ma se lavoro come controllore di volo non mi potrò opporre a periodici test antidroga. Qui stiamo in fondo dicendo un’ovvietà: che nella mia vita privata posso fare ciò che voglio, d’accordo, ma solo finché ciò non causa un danno illecito ad altri; la mia libertà finisce dove comincia quella di banchieri e di viaggiatori in aeroplano.
Meno ovvio è che risulta difficile delimitare con sicurezza una sfera di comportamenti per loro essenza privi di conseguenze negative per gli altri. Prendiamo per esempio l’omosessualità: a parte che si tratta di una condizione che non è il risultato di una scelta, non è forse vero che i nostro gusti sessuali riguardano soltanto noi? Eppure, consideriamo un giovane omosessuale che si trovi a vivere in una realtà di provincia, in cui, pur rimanendo l’omosessualità del tutto legale, si sia però sottoposti a una forte disapprovazione sociale per tutto ciò che esula dalla pretesa «normalità». Immaginiamo allora che costui, per tacitare le malelingue, decida di fare un matrimonio di facciata con una ragazza del posto, non rivelandole però il proprio orientamento sessuale. È chiaro che questo è un comportamento illecito, a tutti i livelli: il giovane sta spostando su un terzo incolpevole i costi che, pur incolpevole anch’egli, dovrebbe sostenere in prima persona, come il costo di affrontare a viso aperto gli sghignazzi dei giovinastri del luogo, o di trasferirsi in una più tollerante metropoli, o – più costruttivamente – di lottare per i propri diritti.
Né d’altra parte ciò che sarebbe illegittimo sottrarre alla conoscenza altrui pertiene esclusivamente alla sfera delle scelte di vita fondamentali. Pensiamo per esempio a un colloquio per l’assunzione in un posto di lavoro: non solo possono essere relativamente frivole le caratteristiche che desideriamo mettere in luce – il vestito con cui ci presentiamo, gli hobby che alcuni consigliano di elencare in fondo al CV – ma anche quelle che cerchiamo di nascondere, come l’anno che abbiamo passato dopo la laurea a «cercare noi stessi» facendo trekking in Grecia o il licenziamento subito vent’anni prima per aver litigato con il nostro capo di allora. Nessuno si scandalizza per queste piccole omissioni; ma nessuno si scandalizza nemmeno se l’abile cacciatore di teste le porta alla luce leggendo con attenzione il nostro curriculum. La sua non è – o almeno non dovrebbe essere – curiosità malevola, ma il desiderio di farsi un’idea di che tipo d’uomo è quello con cui la sua azienda potrebbe stare per avviare un rapporto impegnativo: quanto è onesto, diligente, abile. Un grande giurista americano, Richard Posner, ha tentato di dimostrare alcuni anni fa che le limitazioni imposte dalle leggi sulla privacy potrebbero in effetti rendere meno efficiente il mercato, riducendo la quantità di informazioni disponibili a chi offre lavoro.
Abbiamo visto insomma che esiste un’ulteriore motivazione che sottostà all’invocazione di un diritto alla privacy; motivazione un po’ meno nobile delle altre, visto che consiste in fondo nel desiderio di fuorviare coloro con cui entriamo in relazione, omettendo di riferire difetti la cui conoscenza potrebbe essere necessaria alla loro scelta informata, o addirittura costruendo una falsa immagine di noi stessi. Che fare per evitare questi effetti indesiderati? Ovviamente non è possibile sancire un diritto per datori di lavoro o fidanzate a introdursi surrettiziamente in casa nostra per consultare diari o album fotografici. Fattibile – in linea di principio – sarebbe invece una disciplina meno rigorosa sull’accesso alle informazioni che ci riguardano ricavate, per così dire, dalle nostre interazioni con il mondo esterno: le dichiarazioni dei redditi, la fedina penale, la situazione bancaria, la carriera scolastica, e così via. Qui, come abbiamo detto più sopra, non è in gioco un’intrusione violenta nella nostra sfera più privata; il trade-off, allora, è tra la libertà dallo sguardo occhiuto del prossimo e l’impossibilità di ingannare quello stesso prossimo sulle nostre vere qualità. In un certo senso, più si allenta il nostro controllo sulle informazioni che ci riguardano, più cresce la spinta al conformismo, inteso da un lato come adesione alla norma legale ed etica, dall’altro come adesione alla norma sociale e moralistica. Il bilanciamento, come si può immaginare, non è facile.
Meno controverso, almeno a prima vista, è affidare le decisioni della privacy al libero accordo fra le parti interessate, che troveranno da sole un punto di equlibrio fra i reciproci interessi. Vuoi fare l’agente segreto? Bene, forniscici un resoconto dettagliato della tua vita: precedenti penali, educazione, fidanzate, situazione finanziaria e medica, etc., in modo che noi si possa valutare se costituisci una minaccia o una risorsa per la sicurezza nazionale, se sei ricattabile, quali sono le tue capacità di agente sul campo. Se non sei disposto, nessuno ti obbliga: ci sono altre carriere soddisfacenti per le quali è richiesta meno trasparenza. È importante notare (come si vede bene anche dall’esempio) che il sacrificio della privacy richiesto può essere grande quanto si vuole, purché contrattato liberamente. L’unico limite a un accordo di questo tipo, classicamente, è che non può prevedere la riduzione in schiavitù di uno dei contraenti. Proprio perché frutto di un libero accordo, però, richieste esagerate (o percepite come tali) non saranno accettate: se per una perfetta sicurezza si richiedesse a un agente segreto di indossare 24 ore su 24 dei microfoni per monitorare tutte le sue conversazioni, difficilmente si troverebbe qualcuno disposto a tanto, tranne forse degli esibizionisti – probabilmente non le persone più adatte per quel ruolo...
Naturalmente la realtà è spesso abbastanza diversa da ciò che predica la dottrina astratta. Il potere contrattuale di una delle parti può essere di molto inferiore a quello dell’altra; in questo caso si porranno vincoli normativi o sindacali a ciò che viene stabilito per contratto. Un caso particolare può essere rappresentato da datori di lavori che richiedano i precedenti penali degli impiegati – una richiesta ovviamente pertinente all’interesse dell’azienda, ma che rischia di escludere dal lavoro chiunque abbia scontato una condanna non trascurabile. In questo caso si può forse prevedere (almeno in certi casi) un diritto all’oblio, per impedire di aggravare la punizione dei delitti al di là di quanto stabilito dai tribunali.
Più interessanti sono le limitazioni tese a impedire discriminazioni. Abbiamo già visto come la privacy ci protegga dal giudizio che gli altri esprimono in base al loro sistema di valori personali; diventa dunque indispensabile impedire che nella contrattazione (qui, in particolare, di natura economica) sia richiesto l’accesso a informazioni irrilevanti – in base a criteri di razionalità intersoggettiva – ai fini dell’espletamento delle mansioni richieste. L’azienda delle poste non può legittimamente pretendere di conoscere il mio orientamento sessuale, visto che questo non ha conseguenze oggettive sulla mia abilità nel consegnare telegrammi (e ovviamente non mi può rifiutare di assumere o licenziare se scopre comunque che sono omosessuale). Il datore di lavoro deve rinunciare al giudizio moralistico ed essere costretto, per così dire, all’esercizio di una stretta razionalità economica.
È venuto finalmente il momento di applicare questi principi generali al caso che le cronache ci hanno proposto. Allora: è di interesse pubblico o no, sapere che il capo del governo si fa menare per il naso da Emilio Fede e Lele Mora? È di interesse pubblico o no sapere che frequenta abitualmente una compagnia composta da poco raccomandabili ballerini cubani e da prostitute i cui fidanzati scorrazzano su automobili imbottite di droga? Che si pone come «utilizzatore finale», e quindi in quanto tale non perseguibile penalmente, di attività criminose – l’induzione alla prostituzione – di altri? Che sembra dipendente, senza possibilità di controllo, da un certo tipo di svaghi? Che passa le sue notti in attività piuttosto impegnative per una persona della sua età, al punto di non poter presenziare il giorno dopo a una cerimonia funebre di Stato? Qui per «interesse pubblico» non si intende quello – inesistente – ad emettere giudizi di gusto, morale o estetico che sia, ma bensì l’interesse a conoscere se chi ci governa possiede le virtù – nel senso di capacità – del buon capo di governo: la capacità di giudicare gli uomini, l’impegno per la legalità, la forza mentale e fisica, etc. La risposta a queste domande, mi pare, è allora abbastanza scontata; se l’uomo privato non possiede certe qualità, non le possiederà neanche l’uomo pubblico. Attenzione: questo non vuol dire che una volta accertato l’interesse pubblico a sapere sia anche scontato il giudizio finale da emettere su queste circostanze, che andranno considerate nel quadro generale dell’attività del soggetto. Idealmente, questi comportamenti «privati» sarebbero meno importanti, per il nostro giudizio, dell’attività pubblica del Presidente del Consiglio; ma in un’epoca di mancata separazione fra potere politico e mezzi di informazione questi quadretti di vita privata, nella loro immediatezza priva (o quasi) di schermi, possono fornire un correttivo prezioso alla propaganda ufficiale.
Certo, la differenza fra giudizio sulle qualità di comando e giudizio di gusto estetico/morale può essere talvolta sottile, specialmente se il secondo cerca di spacciarsi per il primo: si pensi ai quei politici che hanno tradito i propri coniugi e di cui si è detto, con analogia il più delle volte tirata per i capelli, che avrebbero potuto tradire allo stesso modo anche i propri elettori. Una certa confusione deriva anche dall’abitudine italiana di definire come «questione morale» argomenti che hanno invece in genere rilevanza penale. Ma forse non bisogna diffidare poi troppo della razionalità del pubblico, se in questi giorni proprio coloro dai quali ci si sarebbe aspettato un giudizio più severo sulla «moralità» del premier hanno invece preferito continuare a garantirgli il loro sostegno, in difesa dei propri concreti interessi; il fatto che questi interessi siano in genere a seconda dei casi o ripugnanti o innominabili non cambia, mi pare, il punto.
Tutto ciò vuol forse dire che dovremmo pretendere dai politici una totale trasparenza, anche negli affari più intimi? Che la magistratura dovrebbe avere il permesso di irrompere nelle loro dimore private al minimo sentore di un comportamento inadeguato? Ovviamente no; in questo modo otterremmo il risultato che i soli a presentarsi per concorrere a una carica politica sarebbero i più bigotti e conformisti – e forse neppure loro. Ma le informazioni di cui stiamo parlando non sono state ottenute per dimostrare che S.B. è inadatto a governare, ma bensì nell’ambito di un’inchiesta su fatti di rilevanza penale; e dagli atti di questa inchiesta sarebbe praticamente impossibile espungere tutte le informazioni sui fatti che hanno una rilevanza di altro tipo (e sarebbe ugualmente impossibile, suppongo, tenerle riservate per sempre). La «violazione» della privacy è intrinseca in questo caso all’azione penale, e porta alla luce, come abbiamo visto, fatti di interesse pubblico; non c’è dunque nessuna ragione per condannarla. So bene che secondo alcuni l’inchiesta avrebbe avuto in realtà l’unico scopo di svergognare S.B., e che i reati ipotizzati sarebbero insussistenti; se questo fosse vero, i magistrati dovrebbero essere chiamati a risponderne, ma il principio rimane valido.
In questo lungo discorso ho cercato di mostrare come la vita privata dei politici riguardi – a certe precise condizioni – tutti i cittadini. Va ricordato comunque ancora, al di là di queste considerazioni, che più volte in questa vicenda S.B. è uscito dai limiti della propria sfera privata; come quando una sera ha raccontato a un questore una storia improbabile. Delle due l’una: o il capo del governo credeva veramente a quello che diceva (ma chi se la beve?), e allora è un mentecatto che si fa prendere in giro da una diciassettenne; oppure non ci credeva, e allora ha mentito per ottenerne un vantaggio privato. In entrambi i casi, dimettersi sarebbe l’unica cosa decente da fare. Se questo signore ha ancora il senso della decenza, si intende, e soprattutto se lo ha ancora la maggioranza dei cittadini di questo paese.