Il Consiglio di Amministrazione dell’AIFA ha deliberato l’autorizzazione all’immissione in commercio del farmaco mifepristone (Mifegyne).È chiaro che se davvero le donne fossero costrette a restare in ospedale fino alla certezza dell’avvenuta interruzione della gravidanza (cioè fino all’espulsione dell’embrione), l’aborto farmacologico diventerebbe sostanzialmente impraticabile: l’espulsione dell’embrione, in questo tipo di intervento, è imprevedibile, e benché avvenga a volte poco dopo l’assunzione del primo dei due farmaci previsti dalla procedura (la RU-486) senza neanche aspettare il secondo (il misoprostol), è possibile anche che passino giorni o, in rari casi, persino settimane. Non c’è bisogno di spiegare che una degenza ospedaliera di durata non prevedibile è inaccettabile per la stragrande maggioranza delle donne; inoltre molti dei vantaggi rispetto all’aborto chirurgico – riduzione dei tempi di attesa, riduzione al minimo dei contatti con l’ambito ospedaliero (in Italia spesso ostile) e dell’impegno logistico delle stesse strutture sanitarie, riconduzione dell’esperienza abortiva nel contesto domestico e degli affetti familiari – sarebbero annullati.
La decisione assunta conclude anche in Italia quell’iter registrativo di Mutuo Riconoscimento seguito dagli altri Paesi europei in cui il farmaco è già in commercio, interrompendone l’uso off-label.
Il Consiglio di Amministrazione ha ritenuto di dover precisare, a garanzia e a tutela della salute della donna, che l’utilizzo del farmaco è subordinato al rigoroso rispetto della legge per l’interruzione volontaria della gravidanza (L. 194/78). In particolare deve essere garantito il ricovero in una struttura sanitaria, così come previsto dall’art. 8 della Legge n.194, dal momento dell’assunzione del farmaco sino alla certezza dell’avvenuta interruzione della gravidanza escludendo la possibilità che si verifichino successivi effetti teratogeni. La stessa legge n.194 prevede inoltre una stretta sorveglianza da parte del personale sanitario cui è demandata la corretta informazione sul trattamento, sui farmaci da associare, sulle metodiche alternative disponibili e sui possibili rischi, nonché l’attento monitoraggio del percorso abortivo onde ridurre al minimo le reazioni avverse (emorragie, infezioni ed eventi fatali).
Ulteriori valutazioni sulla sicurezza del farmaco hanno indotto il CdA a limitare l’utilizzo del farmaco entro la settima settimana di gestazione anziché la nona come invece avviene in gran parte d’Europa. Tra la settima e la nona settimana, infatti, si registra il maggior numero di eventi avversi e il maggior ricorso all’integrazione con la metodica chirurgica.
Il Consiglio di Amministrazione si è avvalso anche dei pareri forniti dal Consiglio Superiore di Sanità e ha raccomandato ai medici la scrupolosa osservanza della legge.
La decisione assunta dal CdA rispecchia il compito di tutela della salute del cittadino che deve essere posto al di sopra e al di là delle convinzioni personali di ognuno pur essendo tutte meritevoli di rispetto.
La decisione positiva dell’Aifa è stata dunque una beffa? La risposta non è tanto semplice. Un ospedale non ha infatti il potere di trattenere le donne contro la loro volontà (farlo configurerebbe il reato di sequestro di persona); se una paziente vuole essere dimessa dopo poche ore dalla somministrazione della RU-486 bisognerà accontentarla. Detto questo, è possibile però che la decisione condizionata dell’Aifa possa essere usata domani, una volta constatata la sua inapplicabilità di fatto, come un grimaldello per tornare sui propri passi e ritirare l’autorizzazione concessa.
Due chiarimenti sul comunicato dell’Aifa. Gli «effetti teratogeni» di cui si parla sono le malformazioni che la RU-486 o il misoprostol possono causare al feto, nell’eventualità che dopo la loro somministrazione la gravidanza non si arresti e giunga al termine (può capitare in rarissimi casi). Ovviamente per evitare questa ed altre complicanze basta una visita di follow-up; è vero che alcune donne si sottraggono a questo passo (in genere perché l’interruzione di gravidanza è avvenuta senza problemi), ma un semplice screening delle pazienti da ammettere a questo tipo di aborto può limitare il problema, e la considerazione che anche le donne – checché ne pensino alcuni – sono esseri umani responsabili di sé e delle proprie azioni può servire a inquadrarlo correttamente.
Il richiamo infine all’art. 8 della legge n. 194/1978 è quanto di più pretestuoso si possa concepire. L’articolo in questione specifica quali professionisti siano abilitati a «praticare» l’interruzione di gravidanza e in quali strutture sanitarie possano farlo. Se i farmaci che causano l’aborto vengono somministrati da uno di questi professionisti in una di queste strutture ma l’espulsione dell’embrione avviene altrove, diremo dunque che l’aborto è stato «praticato» dalla donna stessa? E questo sarebbe un caso indistinguibile da quello in cui invece la pillola sia stata somministrata da Amalasunta la Mammana nel sottoscala della sua casa di abitazione di Vicolo dei Miracoli? «Praticare X» significa eseguire l’azione che causa X o fare esperienza dell’effetto X? Se una legge imponesse che la cura dei tumori con la radioterapia venga «praticata» solo da certi specialisti e presso certe strutture abilitate, il paziente dovrebbe per questo essere sempre trattenuto fino all’avvenuta remissione? La risposta sembra ovvia...