Le opinioni degli integralisti possono essere talvolta esilaranti. In una conversazione che ho avuto di recente con alcuni di loro mi sono sentito dichiarare, nell’ordine: che il matrimonio tra eterosessuali – no, non è un refuso, confermo: tra eterosessuali – non è un diritto umano; che il volere della maggioranza non deve essere coartato da un giudice costituzionale; che l’impossibilità di derivare le norme dai fatti dimostrata da Hume è «sputtanata» ormai da secoli; che la logica matematica è una scienza empirica (!); che nel corso della discussione io avrei
esplicitamente approvato qualsiasi potere legiferante, compreso quello del governo nordcoreano. È chiaro che un dibattito con interlocutori di tal fatta risulterà decisamente surreale e, alla fine, non molto produttivo; ma regalerà anche momenti di sana ilarità.
Chi però, incoraggiato dal titolo promettente, si aspettasse di trovare qualche comica bizzarria nel libro appena uscito di Mario Adinolfi,
Voglio la mamma (Tricase, Youcanprint Self-Publishing, 2014, pp. 122, € 13,00) rimarrebbe deluso. Le fallacie logiche, le informazioni false e i
non sequitur abbondano, è vero; ma è tutto già sentito, consunto dall’uso ripetuto. Nella discussione sul matrimonio per gli omosessuali, ad esempio, l’autore spara a raffica, in rapidissima successione, la vecchia fallacia etimologica («non c’è matrimonio senza “mater”»), la fallacia del piano inclinato («Se un bambino riceve amore uguale a quello di una madre e di un padre da due papà, perché non […] dal papà che ama tanto il proprio cane e vuole che la sua famiglia sia composta dal papà, dal cane e dal bambino ottenuto da una madre surrogata?»; il matrimonio con i cani non manca mai, in questo genere di argomento), la tradizionale fantasia paranoica di ogni integralista che si rispetti sulla proibizione incombente o già in atto di usare le parole mamma e papà («Vogliono cancellare persino la parola mamma […]. Chi è di sinistra non priverebbe mai un soggetto debole, debolissimo come un bambino del suo diritto a chiamare mamma [
sic]»), l’inane conta dei numeri («[In] Olanda, si è passati rapidamente dai 2.500 matrimoni tra gay o lesbiche celebrati nel 2001 ai 1.100 del 2005»: si sa, le minoranze troppo ristrette non dovrebbero avere diritti, che spettano veramente solo a quelle più sostanziose, e meglio ancora alle maggioranze), la
gag dei registri comunali delle coppie di fatto («dove sono stati istituiti sono clamorosamente vuoti: nessuno si è iscritto»: forse perché non conferiscono nessun vero diritto?). Vecchie barzellette, che non fanno più ridere.
C’è un tentativo di umorismo originale, ma il risultato è alquanto fiacco:
Se il vincolo matrimoniale non è più quello tra un uomo e una donna, il diritto alla successione riguarderà prima di tutto il coniuge. Ho un amico ricco e anziano, che fin dai banchi del liceo ha come migliore amico un suo compagno sostanzialmente nullafacente che vive di espedienti. Gli ha dato rifugio in casa, una casa enorme e vivono sotto lo stesso tetto. Da più di cinque anni ormai. Mi racconta sempre il mio amico ricco che spera da tanto tempo la [sic] legge sul matrimonio omosessuale perché vuole lasciare l’eredità e soprattutto la sua pingue pensione all’amico, non a quella megera della ex moglie e alla di lei (e di lui) prole, da lui qualificata come avida e ingrata. Anche qui c’è un lato glamour, anche se il mio amico non è per niente gay, anzi. Io vedo però diritti negati e anche un’opportunità: alla dipartita del mio amico anziano, andrò io a convivere nell’enorme casa con il suo amico, che è più anziano di me di vent’anni e morirà presumibilmente prima di me, lasciandomi avendomi omosessualmente sposato il diritto alla pingue pensione reversibile. E così via.
Si può sorridere di fronte alla buffa pretesa di Adinolfi di decidere lui chi sia degno o meno di ricevere la pensione dell’amico, o di fronte alle sue informazioni non proprio esattissime (tutti o quasi sanno che chi si risposa perde il diritto alla pensione di reversibilità); e possiamo immaginare a quali goffi paralogismi ricorrerebbe se qualcuno gli obiettasse che la badante che riesce a farsi sposare dall’anziano rintronato non invalida l’istituzione del matrimonio eterosessuale. Ma appunto, di sorrisi si tratta, tutt’al più, non della sana risata liberatrice che ci coglie leggendo un articolo di
Tempi o un post della
Nuova bussola quotidiana.
Stessa storia nel resto del volume: dubbie informazioni («la morte che diventa “dolce” se a darla è lo Stato in una squallida clinica di una periferia svizzera»; ma l’associazione svizzera Dignitas è privata, lo Stato si limita a non interferire), bizzarre inferenze sui desideri altrui («Ho già raccontato la vicenda di Elton John e del suo compagno, desiderosi di essere papà e mamma»), equivoci linguistici («[I] cosiddetti “diritti civili”, che già solo nella definizione fa sorridere, come se esistessero diritti che sono incivili»), tentativi diretti di umorismo («Gli uomini sono uomini, le donne sono donne, la via per accertare la propria condizione di genere è nella stragrande maggioranza dei casi estremamente breve e intuitiva»), non riescono a imprimere il colpo d’ala che risolleverebbe il volume; come non ci riescono nemmeno gli
ipse dixit, tanto pretenziosi quanto vistosamente non argomentati:
nessuna razionalità può segnare un momento in cui quella storia a [sic!] inizio che non sia l’istante del concepimento quando l’amore trasforma un uomo e una donna in una carne sola che si fa vita [per Adinolfi il concepimento si verifica nel momento del coito?]. Solo in quell’istante può essere rintracciato l’inizio della storia di ciascuno di noi, inventarsi la quattordicesima settimana o il novantesimo giorno per segnare un macabro confine tra morte possibile e vita inevitabile è semplicemente senza senso. O si ha un diritto di abortire sempre o non lo si ha mai. Io credo non lo si abbia mai.
o le ricostruzioni grottescamente tendenziose della realtà:
La cultura dominante ci propone invece versioni scintillanti del percorso della transessualità, […] imponendo un modello per cui l’individuo può tranquillamente scegliere a quale genere sessuale appartenere, prescindendo dalla condizione naturale in cui è nato. Farsi donna se si è nati uomo o viceversa è quasi unanimemente considerato un percorso positivo [nella bibliografia Adinolfi cita un libro sul disturbo dell’identità di genere, evidentemente senza averlo letto].
Tra i pochi momenti comici memorabili metterei soltanto un bellissimo malapropismo («Queste povere persone [i transessuali] sono costrette a comportamenti
denigranti», corsivo mio), e alcune plateali contraddizioni: si confronti «nulla di quel che è contenuto qui ha a che fare con una dimensione religiosa» con
Perché devastare un istituto millenario come il matrimonio tra un uomo e una donna, desacralizzarlo negandone la radice di senso, per farlo utilizzare ad un pugno di gay per mere ragioni di bandiera ideologica? [corsivo mio]
o meglio ancora con
A Roma lo scandalo passato alle cronache con il titolo orrendo delle “baby squillo dei Parioli” […] avrebbe dovuto sconvolgere il tessuto sociale di una città che è anche, non lo dimentichiamo, il centro religioso più importante del mondo occidentale.
E si confronti anche
sono state costruite vere e proprie “fabbriche di bambini” con centinaia di donne trasformate in incubatrici viventi e umiliate a suon di dollari, euro e sterline nella loro dimensione più intimamente femminile, quella della maternità […] Le donne vengono cercate nei bassifondi della povertà estrema, pagate con il 10% dell’importo che viene lasciato dagli occidentali alla clinica, costrette [in che modo?] a portare avanti anche otto o nove gravidanze nell’arco di dieci anni.
con
c’è da capire se c’è più libertà e potenziale progresso in una giovane madre che si smezza [sic] dalla mattina alla sera la propria famiglia e la crescita dei propri figli, riuscendo a non perdere la mitezza del suo essere femminile o se dobbiamo preferire quella femmina androgina capace di vendersi i figli per bisogno.
Il problema del volume, in ogni caso, va ben al di là del fatto di fare poco ridere. Consideriamo affermazioni come queste:
Ma una mamma nell’intimo non può non sentire la voce della vita che ha in grembo, che le grida silenziosa: “Voglio te”. Voglio la mamma. Non la donna. Una donna può chiedere di avere il diritto di abortire. Una mamma non può neanche immaginarlo. […] Ma una donna abortisce, una mamma no.
Il politicamente corretto vuole che si usi l’espressione “le famiglie”, per far capire che l’istituzione familiare classica è ormai in disuso e che tutto è famiglia, anche una zitella con gatto.
Già qui, in questo ergersi a giudice degli altri, a dividere in umani e meno umani, in fattrici degne e nubili indegne, da ridere non c’è proprio più nulla. Come non c’è qui:
nelle graduatorie per gli asili nido i figli di genitori single scavalcano i figli di famiglia numerosa
in cui è implicito che ai più deboli, in quanto «irregolari», vadano negati diritti di cui hanno più bisogno degli altri (o Adinolfi crede magari che le famiglie con un solo genitore siano in media più ricche di quelle «normali»?). Ma c’è molto, molto di peggio:
[È] una delle più grandi vergogne della contemporaneità raccontata invece come un decisivo elemento di progresso: l’affitto dell’utero di donne bisognose di denaro per portare a compimento gravidanze che la natura rende impraticabili, strappando poi il bambino pochi minuti dopo il parto e dopo un primo contatto tranquillizzante con il corpo della madre, per consegnarlo di solito ad una coppia di omosessuali benestanti che giocheranno a fare i genitori. Finché ne avranno voglia.
Limitiamoci solo all’ultima frase: da quale abisso di odio – odio feroce, bestiale, spietato – può sgorgare una simile zaffata di pregiudizio, immotivato e indiscriminato? Adinolfi ci assicura, alla fine del libro, che in ciò che precede «Non c’è astio, non c’è faccia feroce»;
excusatio non petita se mai ve ne fu una.
Ma il vertice (o il fondo), incredibilmente, non è ancora stato toccato.
In Olanda e tra poco anche in Belgio i bambini malformati che soffrano “livelli insopportabili di dolore” possono essere legalmente soppressi per decisioni assunte in ossequio alla nuova ideologia liberatoria di questo tempo: l’eutanasia infantile. Un avamposto di progresso, secondo molti. Io vedo molte mamme sobbarcarsi sacrifici immensi per proteggere bambini che soffrono molto, per proteggere il loro diritto alla vita, alla lezione immensa che quel dolore lascia in chiunque si avvicini, quando basta poi un accenno di sorriso di quel bambini per rischiarare la giornata più di cento raggi di sole.
Per questo gran figlio di mamma, insomma, il dolore tremendo e immedicabile dei bambini
serve: serve a comunicare una lezione edificante, serve – se accompagnato da «un accenno di sorriso» – a rischiarare la giornata a chi gli sta attorno. Serve, e quindi si giustifica. Per Adinolfi, bontà sua, «le terapie del dolore fanno passi da gigante di anno in anno. Investiamo su quelle»; ma nell’attesa (che potrebbe rivelarsi molto lunga), sfruttiamo pure quell’utile dolore. E se qualcuno protesta in nome di quei bambini torturati, accusiamolo pure di essere «disturbato dalla loro esistenza».
Il cerone del pagliaccio è colato via, rivelando un’espressione torva. No, non c’è davvero proprio più nulla da ridere.