domenica 31 gennaio 2010

Crocifisso in salsa bavarese

Stefano Ceccanti, senatore del Partito Democratico, uno dei padri dei non compianti DiCo, ha firmato lo scorso dicembre assieme ad altri colleghi una proposta di legge in tre commi che regola l’esposizione nelle aule scolastiche del crocifisso:
1. In considerazione del valore della cultura religiosa, del patrimonio storico del popolo italiano e del contributo dato ai valori del costituzionalismo, come segno del valore e del limite delle costituzioni delle democrazie occidentali, in ogni aula scolastica, con decisione del dirigente scolastico, è affisso un crocifisso.
2. Se l’affissione del crocifisso è contestata per motivi religiosi o di coscienza dal soggetto che ha diritto all’istruzione, ovvero dai suoi genitori, il dirigente scolastico, sulla base del princìpio di autonomia scolastica, nel rispetto dei princìpi di tutela della privacy e di non discriminazione nonché tenendo conto delle caratteristiche della comunità scolastica, cerca un accordo in tempi brevi, anche attraverso l’esposizione di ulteriori simboli religiosi.
3. Qualora non venga raggiunto alcun accordo ai sensi del comma 2, nel rispetto dei princìpi di cui al medesimo comma 2, il dirigente scolastico adotta, previo parere del consiglio di circolo o di istituto, una soluzione che operi un giusto contemperamento delle convinzioni religiose e di coscienza di tutti gli alunni della classe coinvolti e che realizzi il più ampio consenso possibile.
La proposta si ispira dichiaratamente alla legge bavarese sull’educazione e l’istruzione pubblica, Bayerisches Gesetz über das Erziehungs- und Unterrichtswesen (BayEUG), approvata il 23 dicembre 1995 dal Parlamento del Land Baviera ed entrata in vigore il 1º gennaio 1996. A proposito di quest’ultima, ecco cosa scrive Susanna Mancini in un bell’articolo di prossima pubblicazione («La supervisione europea presa sul serio: la controversia sul crocifisso tra margine di apprezzamento e ruolo contro-maggioritario delle Corti», Giurisprudenza Costituzionale, n. 5, 2009, alla nota 95):
Nel 1995, la Corte Costituzionale tedesca stabilì l’incostituzionalità dell’articolo 13.13 della legge bavarese che obbligava all’esposizione della croce nelle aule della scuola dell’obbligo (1 BvR 1087/91, d.d. “Kruzifix-Urteil”). Con l’ovvio intento di aggirare il disposto di questa sentenza, il legislativo bavarese ha adottato un nuovo atto, il quale “in considerazione della connotazione storica e culturale della Baviera” obbliga ad esporre il crocifisso in tutte le aule. Se tuttavia qualcuno obietta “per ragioni serie e comprensibili inerenti alla fede o a una visione del mondo”, il preside della scuola deve condurre un procedimento di conciliazione. Se non si raggiunge nessuna soluzione, il preside deve ricercare una soluzione ad hoc che rispetti la libertà religiosa del dissenziente, realizzi un bilanciamento tra le convinzioni ideologiche e religiose di tutta la classe e, come se non bastasse, prenda anche in considerazione la volontà della maggioranza (Art. 7, Bayerische Gesetz über das Erziehungs und Unterrichtswesen, BayEUG). L’ambiguità di questa procedura è emersa chiaramente quando una scuola e, successivamente, la corte amministrativa della Baviera hanno rigettato le obiezioni dei genitori di uno scolaro, definendole “pretestuose e polemiche” ed affermando che l’ateismo della famiglia non costituisce un motivo serio per obiettare all’esposizione del crocifisso. In ultima istanza la Corte Suprema Amministrativa (Bundesverwaltungsgericht) ha accolto invece le argomentazioni dei genitori dissenzienti, affermando che la libertà di coscienza include anche quella di non credere (Bundesverwaltungsgericht, sentenza n. 21/1999, 21 aprile 1999).
Ma veniamo al disegno di legge di Ceccanti & Co. C’è subito da rilevare la conferma della tendenza recente a infarcire i preamboli dei testi di legge con roboanti dichiarazioni di principio, quasi che gli estensori ci vogliano far ingollare, oltre alla norma concreta, anche la loro personale (e spesso discutibilissima) visione del mondo; rimando per il resto alle caustiche osservazioni di Galatea sul comma 1 della proposta di legge.
In secondo luogo, va notata l’ambiguità del testo, da cui non si riesce a capire se sia possibile o meno che in una classe non venga esposto il crocifisso; solo da un accenno della relazione introduttiva («non per questo diventa immediatamente legittimo o, quanto meno, opportuno il suo contrario, ovvero l’obbligo di esposizione senza alcuna possibilità di eccezione») sembra di poter concludere che l’eccezione sia ammessa. La vaghezza della legge sarà senza dubbio foriera di futuri contenziosi, esattamente come nel caso del modello bavarese.
Ma il punto principale è che la proposta di legge è del tutto incompatibile con il principio di laicità. Essa individua ancora una confessione privilegiata, quella cattolica, il cui simbolo è esposto per default, mentre gli appartenenti ad altre religioni sono costretti all’iter di una apposita richiesta, il cui esito, per giunta, non sembra neppure scontato. Il richiamo alla privacy del disegno di legge assume qui tutti i caratteri dell’ipocrisia: il singolo, per vedere rispettata anche la propria confessione – magari poco popolare o controversa agli occhi della maggioranza – deve uscire allo scoperto, mentre ai cattolici è risparmiato ogni sforzo. Da notare come non si faccia neppure cenno, con insensibilità rivelatrice, ai costi degli altri simboli da esporre: saranno a carico delle famiglie o dell’istituzione scolastica? Questi rilievi farebbero pensare a una possibile incostituzionalità di una legge articolata su queste linee, per violazione dell’art. 3 Cost. prima ancora che dell’art. 8.
Sarebbe possibile una legge che ammetta la presenza dei simboli religiosi senza incorrere in questi rilievi? In teoria sì, almeno in parte: bisognerebbe abolire ogni obbligo e ogni ruolo attivo delle istituzioni, lasciando le pareti scolastiche a disposizione degli alunni, che – su richiesta – sarebbero liberi di appendere i loro simboli. Ma è chiaro che questa proposta non potrebbe essere fatta propria dalla maggior parte dei cattolici, compresi quelli «progressisti» (come dimostra la proposta Ceccanti), perché renderebbe concreta la possibilità che in alcune aule si debba procedere alla rimozione del crocifisso per mancata richiesta, e soprattutto perché farebbe venire meno l’esemplarità del simbolo, dissolvendo la sua «certificazione» statale. In ogni caso, anche questa proposta sarebbe imperfettamente laica, lasciando pregiudicata la posizione degli indifferenti al fatto religioso – non tanto gli atei quanto gli agnostici – per i quali sarebbe problematico concepire un simbolo apposito. E ci si potrebbe interrogare sulla sensatezza di concedere attivamente spazio a segni di divisione in un contesto, come quello scolastico, che dovrebbe promuovere per quanto è possibile l’integrazione dei cittadini in una comunità civile unita.

Aggiornamento: tutto da leggere il severo commento di Francesco Costa alla proposta di legge.

venerdì 29 gennaio 2010

Il giudice e la «confusione di ruoli»

Da Repubblica.it, edizione di Milano («Il giudice: “Figli di una coppia di lesbiche? Nessun disagio per loro dall’omosessualità”», 28 gennaio 2010):
Il tribunale dei minorenni di Milano ha riconosciuto che l’omosessualità non è causa di disagio per i figli voluti da una coppia di lesbiche che, prima della separazione, li ha cresciuti secondo «uno schema tipicamente familiare». È questo il senso di un provvedimento firmato dal giudice Emanuela Aliverti. La vicenda ha al centro la separazione di una coppia di donne, che hanno convissuto per nove anni (fino al 2003) e assieme hanno deciso, tramite l’inseminazione artificiale, di avere due figli, entrambi dati alla luce da una delle due.
Una delle due donne – quella che non è la madre biologica e che non ha alcun legame giuridicamente tutelato con i due bimbi, aveva presentato ricorso al Tribunale dei minori per l’affidamento condiviso e la regolarizzazione del diritto di visita – dopo che la mamma naturale dei bimbi le aveva imposto l’interruzione dei rapporti con i piccoli. Il ricorso venne dichiarato inammissibile per «difetto di legittimazione» e gli atti trasmessi al pm affinché valutasse l’apertura di un procedimento a tutela dei due ragazzini, un maschio e una femmina che ora hanno rispettivamente otto e dieci anni.
I giudici, rilevando l’indubbio legame affettivo tra la ex compagna della madre e i bimbi, avevano espresso preoccupazione per lo stato «psico-fisico» dei due a causa dell’interruzione dei rapporti con una figura che si era posta come genitore e per il loro «inserimento in un contesto caratterizzato da una potenziale confusione di ruoli». All’esito dell’istruttoria, a metà gennaio, il tribunale ha archiviato il caso avendo verificato l’adeguatezza della madre biologica, assistita dall’avvocato Marzia Simionato, a svolgere il proprio ruolo di genitore a prescindere dalla sua omosessualità, e l’assenza di pregiudizio per i due bimbi per l’interruzione dei rapporti con la ex compagna della mamma.
I bimbi, come è emerso, non hanno sofferto disagi per il contesto di vita in cui hanno vissuto e vivono: una madre che prima aveva una compagna e ora ne ha un’altra e un padre biologico che conoscono e che vive con un uomo.
Bene; ma c’era davvero bisogno che lo dicesse un giudice?

Aggiornamento 20/2: Panorama dà qualche dettaglio in più sulla vicenda e sulla sentenza (Maurizio Tortorella, «Se mamma si separa da mamma», 25 febbraio, p. 80).

giovedì 28 gennaio 2010

Io non ho capito però

«La mia non è una battaglia per la morte - afferma - ma per la vita». «Io farò tutto questo - aggiunge - e camminerò con la testa alta perché ho combattuto per la vita di mio fratello [Salvatore Crisafulli]. Lui non morirà di stenti, ma se ne andrà via dormendo».
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Un velo insopportabile?

Michele Ainis interviene sul tema della proibizione del velo integrale islamico – burqa o niqab – che sull’onda di quanto si appresterebbe a fare la Francia è tornato di attualità anche da noi («Se lo Stato laico invade le identità», La Stampa, 27 gennaio 2010, p. 1).
Proviamo allora a soppesare gli argomenti a favore o contro tale soluzione. E proviamo a farlo – giustappunto – laicamente, senza preconcetti ideologici né tanto meno religiosi.
Primo: la sicurezza. Se ti copri fino ai piedi con un vestito afghano, come potrò esser certo che non nascondi sotto il burqa qualche chilo di tritolo? E come farò a identificarti, se del tuo volto posso vedere solo gli occhi? Preoccupazione legittima, ma allora per simmetria dovremmo proibire anche il passamontagna, il casco dei motociclisti, la maschera di Paperino a Carnevale. Dovremmo impedire la circolazione ai signori troppo intabarrati, con questo freddo poi, come si fa. No, non è la sicurezza l’alibi di ferro per importare quel divieto, lo prova il fatto che esso non s’estende ad altri tipi di mascheramento. E del resto consentire il burqa non significa consentire d’incollarlo al corpo con il mastice, se un poliziotto ti chiede di sollevarlo per guardarti dritto in faccia, tu comunque hai l’obbligo di farlo.
Secondo: la tutela delle islamiche rispetto alla prepotenza del gruppo cui appartengono. Difatti il burqa evoca un atto di sottomissione, la condizione della donna come figlia di un dio minore. Vero, due volte vero; ma siamo certi che sia giusto proibirlo anche quando chi l’indossa abbia deciso spontaneamente di vestirsene? Non c’è forse l’ombra di un imperialismo culturale in tale atteggiamento? Non puzza un po’ di Stato etico, non è paternalistica l’idea che i pubblici poteri debbano liberare gli individui dai condizionamenti sociali o familiari? E perché allora non vietare pure il battesimo ai minori, la circoncisione dei bambini ebrei, la prima comunione? No, l’identità – di singolo e di gruppo – è sempre il frutto di una scelta, mai di un’imposizione; è questione culturale, che va aggredita quindi con strumenti culturali, non attraverso il bastone della legge. Sempre ammesso che sia desiderabile forgiare una società omogenea come un plotone militare. Ci aveva provato Mao Tse-tung, ordinando ai cinesi d’indossare tutti la medesima divisa. La nostra idea di laicità è l’opposto, muove dal diritto di vestirci un po’ come ci pare. Un Carnevale che dura tutto l’anno.
A parte una formula un po’ ambigua – in che senso l’identità di gruppo è sempre il frutto di una scelta? – non si può che concordare con quanto dice Ainis: proibire il burqa con la scusa della sicurezza è un alibi ipocrita, e bisogna ammettere che spesso l’adesione alle norme del gruppo è spontanea e sincera (nei limiti in cui lo è sempre il conformarsi a una norma culturale).
In teoria il velo integrale potrebbe essere bandito in nome di una terza esigenza, che Ainis non esamina: come il «comune senso del pudore» giustifica tuttora il divieto di andare in giro nudi negli spazi pubblici, così – all’estremo opposto – si potrebbe vietare il burqa in nome del turbamento che provoca nella maggioranza di noi. Ma se il burqa e il niqab sono indubbiamente orribili a vedersi, lo sono davvero di più di certe tenute che non ci sogneremmo mai di proibire, per quanto sconcertanti? Il nostro turbamento è davvero così istintivo, oppure è in realtà il frutto di un pregiudizio ideologico? E non rischiamo in questo caso di discriminare su base religiosa? In dubio pro libertate è forse la conclusione inevitabile.

sabato 23 gennaio 2010

Mater Morbi


Eugenia Roccella pare non avere niente di più importante da fare per mettersi a polemizzare pure con Dylan Dog... Giuda ballerino!
Tuttavia io sono d'accordo con Roberto Recchioni: se è servito per parlare di fumetto e di Dylan Dog va gran bene.
E poi ci saremmo persi questa chicca: Maccheccazzodigente. Già.

Contro l’Ru486 sono le donne le più agguerrite


Visto che la battaglia contro la commercializzazione della RU486 è stata persa, gli avversari dell'interruzione di gravidanza e della libera scelta cercano di correre ai ripari discutendo delle modalità di assunzione. Si invocano linee guida rigide e tempestive che, in sintesi, impongano il ricovero. Tutto questo, naturalmente, in difesa delle donne, che sono talmente sceme da non meritare la possibilità di scegliere né se abortire (soffriranno per sempre e il loro rimpianto non sarà mai estinto), né come abortire (l'aborto chirurgico o quello farmacologico, un eventuale ricovero e la sua durata, magari parlando con il proprio medico).
Tra i più agguerriti sostenitori del ricovero imposto svettano alcune donne: Bianconi, vice presidente dei senatori del PdL e membro della Commissione Igiene e Sanità, forse meglio ricordata per essere una “pianista” in Senato; e Dorina Bianchi, presidente dei senatori Udc. Entrambe paladine di un altro obbrobrio contrario alla salute delle donne e alla intelligenza delle persone: la legge 40. Tra le sostenitrici illustri del ricovero coatto c'è anche Renata Polverini, candidata alla Regione Lazio.
Bisognerebbe ricordare a queste signore, e a chi con loro si schiera, che il ricovero coatto è legittimo solo in caso di malattie infettive o di grave diagnosi psichiatrica.
Vogliamo forse ipotizzare il trattamento sanitario obbligatorio per una donna che decide di interrompere una gravidanza?

DNews, 22 gennaio 2010

mercoledì 20 gennaio 2010

I trucchetti della Roccella

Eugenia Roccella torna, per rispondere ad alcuni critici, sulla vicenda della sentenza del Tribunale di Salerno, che ha consentito la diagnosi di preimpianto a una coppia portatrice di una gravissima patologia genetica («I finiani mi accusano senza conoscere la realtà», Il Giornale, 19 gennaio 2010, p. 4); e così facendo ricorre al suo consueto arsenale di trucchi volgari. Vediamo quali.
L’eugenetica è sempre stata introdotta «a fin di bene», motivandola con la pietà e con la necessità di eliminare il dolore. È qui che si inserisce la nuova utopia scientista che, sostituendosi alle grandi utopie sociali del secolo scorso, promette ancora un uomo nuovo, e ci illude che la sofferenza, la malattia, l’imperfezione, l’ingiustizia del caso, si possano sconfiggere e abolire. […] Ha fatto bene Giorgio Israel, sul Giornale di sabato scorso, a sottolineare come sia antiscientifico attribuire alla medicina uno statuto di scienza indiscutibile, in grado di offrire certezze.
È la vecchia tecnica dell’uomo di paglia: attribuire ai propri avversari idee che quelli non hanno mai avuto, al solo scopo di confutarli meglio. La diagnosi genetica di preimpianto – come tutte le tecniche biomediche – non offre certezze ma solo probabilità; non si propone di abolire la sofferenza ma di diminuirla. E nulla vieta di rivendicare un diritto anche se il suo godimento è soltanto probabile: il fatto che potrebbe in teoria morire prima di raggiungere l’età pensionabile non priva affatto un lavoratore del diritto alla pensione. Quanto all’articolo di Giorgio Israel citato dalla Roccella, consiste in un sermone sui massimi sistemi che non cita mai una volta la concreta malattia del caso in esame (l’atrofia muscolare spinale di tipo 1): solo così l’autore può far credere che essa ricada nel novero delle patologie genetiche di cui le cause non sono ben note e la prevenzione risulta aleatoria.
Per avere conferma sul piano pratico delle acute osservazioni di Israel, basta considerare alcuni studi recenti, assai poco rassicuranti: il tasso di disabilità tra i bimbi selezionati geneticamente sembra essere uguale o addirittura maggiore di quello esistente tra i bambini non selezionati.
Qui l’inganno si fa atroce, perché la Roccella – per colpa o per dolo – dà informazioni fuorvianti su un tema attinente alla salute; cosa già grave di per sé, ma doppiamente grave per chi come lei riveste un ruolo istituzionale.
La diagnosi genetica di preimpianto si effettua prelevando e analizzando una delle cellule dell’embrione, quando questo ne conta ancora molto poche (in genere otto o poco più). L’operazione sembra priva di conseguenze: statisticamente, le anomalie congenite sviluppate da embrioni sottoposti a questa diagnosi non eccedono quelle degli altri embrioni concepiti in vitro (che poi questi ultimi abbiano a loro volta più anomalie degli embrioni normali è un argomento dibattuto – ricordiamo comunque che l’alternativa per questi bambini è di non esistere – ma qui ci interessa solo la diagnosi preimpianto). Alcuni studi hanno rivelato un leggero aumento di anomalie, ma è chiaro che in ogni caso il gioco vale la candela: nel caso dell’atrofia muscolare spinale di tipo 1 la probabilità di due portatori sani di avere un bambino affetto da una malattia che lo porterà a una morte certa entro il primo anno di vita è del 25%, ben superiore in media a qualsiasi danno (magari lieve) possa derivare dalla diagnosi genetica, ammesso che ne produca.
Questi sono i fatti; ora vediamo che versione ne dà la Roccella. Se leggiamo attentamente le sue parole, scopriamo con stupore che in realtà non sta dicendo niente di diverso: «il tasso di disabilità tra i bimbi selezionati geneticamente sembra essere uguale o addirittura maggiore di quello esistente tra i bambini non selezionati». Ma allora perché mai questi dati dovrebbero essere «assai poco rassicuranti»? Se il tasso di disabilità è uguale a quello dei bambini non «selezionati» vuol dire che la selezione non presenta controindicazioni! L’equivoco in cui la Roccella è caduta – o cerca di farci cadere – consiste con ogni probabilità nel termine di paragone: per lei, i bambini non «selezionati» sono quelli concepiti da genitori portatori della malattia; in questo caso la diagnosi genetica sarebbe effettivamente inutile o dannosa. Come è ovvio, invece, gli studi paragonano i bambini sottoposti alla diagnosi a tutti gli altri bambini, concepiti da genitori mediamente sani. Un fraintendimento davvero colossale.
La Roccella passa poi a prendersela con Sofia Ventura, rea di averla criticata su FfWebMagazine, il periodico online della fondazione finiana FareFuturo («Quanto non ci piace la “destra paternalista”», 18 gennaio):
La Ventura conviene che il diritto al figlio sano non può esistere, ma che deve valere la libertà di ricorrere alle tecniche secondo i propri criteri soggettivi. La libertà, però, va regolata, e se non ci fossero norme e divieti, sarebbe possibile fare un figlio a 70 anni, vendere e comprare ovociti ed embrioni, affittare uteri. Perché no? Se deve valere il mio criterio soggettivo, perché mettere limiti?
Se qualcuno «conviene» in qualcosa con Eugenia Roccella, si può essere ragionevolmente sicuri che stia sbagliando. Dire, come fa la Ventura, che esiste «la “libertà” di fare ricorso alle applicazioni della scienza» è solo un altro modo di affermare un diritto alla maternità e un diritto ad avere figli sani. Che queste cose non possano essere garantite con certezza non esclude affatto, come abbiamo già visto, che esse costituiscano dei diritti, e precisamente dei diritti negativi alla non interferenza: se esiste un medico disposto ad applicare quelle tecniche, nessuno deve interferire senza fondato motivo nel libero rapporto che si instaura fra quello e il paziente. La Roccella ricorre a questo punto all’ennesimo trucco argomentativo, quello della falsa dicotomia: o esiste una libertà sregolata e «soggettiva», o non esistono diritti esigibili. Ma dal punto di vista liberale il limite ai miei diritti esiste, anche se è uno solo, cioè quello del rispetto dei diritti altrui. Nel caso della diagnosi preimpianto questo significherebbe come minimo riconoscere all’embrione diritti pari a quelli degli altri soggetti implicati – ammesso, naturalmente, che risparmiare al concepito una morte per lento soffocamento all’età di sei mesi significhi rispettarne i diritti. Ma l’attribuzione di questi diritti non può essere data per scontata, e di fatto il nostro ordinamento giuridico non la riconosce. La Roccella abolisca la legge sull’aborto e modifichi l’art. 1 del Codice Civile, se ci riesce, e poi ne riparliamo.
E perché, soprattutto, questa distinzione tra diritto e libertà non vale per il fine vita? Ognuno di noi ha la libertà di morire, di mettere a rischio la propria vita e la propria salute. Ma tutto questo non può essere codificato in diritti esigibili. Esistono norme che impongono la cintura di sicurezza e il casco, e che vietano la vendita dei propri organi o il suicidio assistito. Insomma, sono libero di suicidarmi, ma non posso pretendere che il medico, o il Servizio sanitario nazionale, siano obbligati a garantirmi questa possibilità.
Qui emerge la consueta propensione dell’integralista alla neolingua. «Libertà», per la Roccella, non significa libertà giuridica ma mera possibilità fisica di compiere un atto: il malato terminale è libero di suicidarsi solo nel senso di avere la capacità di buttarsi dal terrazzo se nessuno è presente, ma non può chiedere a nessuno di aiutarlo a porre fine in modo più umano alle proprie sofferenze e non può nemmeno impedire che qualcuno lo blocchi e lo faccia ricoverare in manicomio. «Diritti» sono solo quelli che possiamo costringere qualcun altro ad erogarci; il libero accordo fra individui resta fuori dall’orizzonte mentale della Roccella – assieme del resto a molte, molte altre cose.

domenica 17 gennaio 2010

Il privilegio di insegnare religione

SCATTI stipendiali per gli insegnanti, ma solo per quelli di religione. Lo ha stabilito il ministero dell'Economia lo scorso 28 dicembre. Mentre i sindacati della scuola sono alle prese con un complicato rinnovo del contratto in favore di tutti i docenti e gli Ata (amministrativi, tecnici e ausiliari) della scuola, alla chetichella quelli di religione nella busta paga del mese di maggio troveranno una gradita sorpresa: il "recupero" degli scatti (del 2,5 per cento per ogni biennio, a partire dal 2003) sulla quota di retribuzione esclusa in questi anni dal computo. Supplenti compresi.

A spiegare la portata del provvedimento, che porterà nelle tasche degli interessati un bel gruzzoletto, è lo Snadir (il sindacato nazionale autonomo degli insegnanti di religione). "Gli aumenti biennali per gli insegnanti di religione, che in precedenza venivano calcolati nella misura del 2,5 per cento del solo stipendio base, dovranno ormai ammontare al 2,5 per cento dello stipendio base comprensivo della Indennità integrativa speciale". Una cosetta di non poco conto visto che l’Indennità integrativa speciale rappresenta circa un quarto dell’intera retribuzione dell’insegnante e che gli anni da recuperare sono tanti, quasi quattro bienni.
Continua (e fa molto indispettire): Aumenti ai prof di religione. È la "sorpresa" di Tremonti, la Repubblica, 16 gennaio 2010.

venerdì 15 gennaio 2010

Amanti della vita immaginari

Il commento migliore alla sentenza del giudice Antonio Scarpa del Tribunale di Salerno, che ha autorizzato per la prima volta in Italia la diagnosi genetica di preimpianto per una coppia fertile portatrice di una gravissima malattia ereditaria, è forse quello di Giordano Bruno Guerri, apparso ieri sul GiornaleDico no a una norma feroce che finge d’amare la natura e non ama l’essere umano», 14 gennaio 2010, p. 15). Ne riporto la parte finale:
Il caso della famiglia lombarda di cui parliamo sembra fatto apposta non per aprire una discussione – come accadrà – ma per chiuderla. La povera madre (che abbraccio), ha avuto cinque gravidanze per ottenere un solo figlio sano. Un’altra figlia è nata, e morta a sette mesi, perché la coppia è portatrice di una tremenda malattia ereditaria. L’Atrofia Muscolare Spinale di tipo 1 causa la paralisi di tutta la muscolatura e porta a una dolorosissima morte per asfissia dopo una vitanonvita di agonia. È, secondo le statistiche, la più comune causa genetica di morte dei bambini nel primo anno di vita. Mia madre, che ha novant’anni, piange ancora (e non per modo di dire) una bambina che le morì a sette mesi – per polmonite – più di sessant’anni fa. Alzi la mano chi di voi è pronto a condannare quella donna e quell’uomo per avere deciso tre aborti che avrebbero portato bambini malati di quella crudeltà della natura. Se qualcuno l’ha alzata, si tratta di mani che non sono disposto a stringere, neanche appartenessero all’uomo più pio della terra. Il più buono non può esserlo di certo. Si alzeranno molte mani, piuttosto, per dire che allora quella coppia doveva rinunciare a fare altri figli, piuttosto che ricorrere alla diagnosi genetica preimpianto, ovvero a selezionare gli embrioni sani. Sono mani di amanti della vita immaginari, ai quali chiedo: è meglio nascere sani o malati? Chiedo: è meglio nascere o non nascere? Chiedo: quanti feti già sviluppati, di molte settimane, subiscono un aborto – chirurgico e legalissimo – dopo un’amniocentesi? Quel bambino «selezionato geneticamente» non è un esperimento hitleriano per produrre una razza di superuomini. Gli viene garantito soltanto che sarà in grado di vivere. Che altro si vuole da lui e per lui? Che altro dolore si vuole imporre a quei due genitori che desiderano soltanto averlo e amarlo senza sofferenza? Sia data lode – la mia ammirazione senz’altro – al giudice Antonio Scarpa, che ha autorizzato la diagnosi preimpianto, smentendo una legge assurda e feroce che – fingendo di amare la natura – non ama l’essere umano.
Da leggere, sempre sul Giornale, anche l’intervento del deputato del PdL Melania Rizzoli, «Caro sottosegretario Roccella, non è reato volere dei figli sani» (15 gennaio, p. 11).

Il disegno della scienza

Marina Corradi commenta la sentenza sulla legge 40 con le solite presunte argomentazioni.
Un passaggio è particolarmente gustoso (Gli embrioni «sbagliati» sono morte data, sono lutti, Avvenire, 15 gennaio 2010):
Non è ancora figlio quel grappolo di cellule, ci diciamo per tollerare l’aborto. Ma lo sappiamo invece, e lo conferma la scienza, che a poche ore dal concepimento il disegno è già vergato, unico, non ripetibile: il disegno di quell’ uomo.
Poveretta: è evidente che non riesca proprio a comprendere quanto scienza e disegno stonino messi insieme così. Ma il dubbio è sempre lo stesso: malafede o ignoranza?

giovedì 14 gennaio 2010

Autorizzazione concessa

Ricevo da Filomena Gallo, Presidente Associazione Amica Cicogna ONLUS, e volentieri posto.


Salerno, 11 gennaio 2010
Il giudice autorizza l’accesso alla fecondazione assistita con diagnosi genetica preimpianto ad una coppia fertile

Il Giudice Antonio Scarpa del Tribunale di Salerno autorizza, per la prima volta in Italia, la diagnosi genetica preimpianto ad una coppia fertile portatrice di una grave malattia ereditaria, l’Atrofia Muscolare Spinale di tipo 1 (SMA1).
Questa malattia causa la degenerazione e la morte motoneuronale con la conseguente inarrestabile paralisi e atrofia di tutta la muscolatura scheletrica e costituisce oggi la più comune causa genetica di morte dei bambini nel primo anno di vita, con una morte per asfissia.
La coppia si è rivolta al ginecologo Domenico Danza, per accedere alla procreazione medicalmente assistita e poter effettuare la diagnosi preimpianto con tecniche combinate di citogenetica e di genetica molecolare al fine di avere un figlio che potesse vivere. Lo specialista non ha potuto consentire l’accesso alle pratiche di procreazione medicalmente assistita perché la legge 40 del 2004 lo consente solo per casi di sterilità/infertilità.

Il Giudice Antonio Scarpa, ha così motivato la sentenza:
“Il diritto a procreare, e lo stesso diritto alla salute dei soggetti coinvolti, verrebbero irrimediabilmente lesi da una interpretazione delle norme in esame che impedissero il ricorso alle tecniche di pma da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che però rischiano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili; solo la pma attraverso la diagnosi preimpianto, e quindi l’impianto solo degli embrioni sani, mediante una lettura “costituzionalmente” orientata dell’art. 13 L.cit., consentono di scongiurare tale simile rischio”.

Il Tribunale di Salerno, per la prima volta in assoluto, ha consentito di ricorrere alla procreazione assistita preceduta da diagnosi genetica preimpianto alla coppia fertile e che ha già avuto altre 4 gravidanze naturali, ordinando il trasferimento in utero dei soli embrioni sani, superando con una interpretazione della legge 40/04 in linea con la Carta Costituzionale, il disposto dell’art. 1 comma 2 e art. 4 comma 2 della L. 40/04 che stabilisce il divieto ad accedere alla fecondazione assistita a chi non ha problemi di sterilità.

Dichiara l’Avv. Filomena Gallo, legale della coppia ricorrente, “i miei assistiti hanno chiesto l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita perché è l’unica speranza per avere un figlio che viva, poiché la malattia di cui sono portatori è la forma più grave, fa nascere bambini morti o che non sopravvivono oltre l’anno di vita. Il tribunale di Salerno con l’ordinanza del Giudice Scarpa, ha emesso una decisione chiara e rispettosa dei diritti dei soggetti coinvolti. Sono stati oggi riconosciuti e affermati diritti inviolabili, trascurati dalla legge 40/04 e invece tutelati costituzionalmente, quali: 1) tutela del diritto alla salute della donna; 2) tutela del diritto all’informazione nel trattamento sanitario; 3) tutela del diritto alla procreazione cosciente e responsabile.

Il tribunale di Salerno ha operato per la salvaguardia della supremazia del diritto e delle connesse libertà della coppia tutelate dalla Carta Costituzionale, ha operato una interpretazione della legge sulla fecondazione assistita costituzionalmente orientata, nel rispetto del diritto alla salute ma in questo caso anche alla vita di un figlio che diversamente sarebbe morto.

L’esempio dei musulmani americani

Marilisa Palumbo ci offre qualche dato e qualche utile riferimento sulla condizione dei musulmani americani, che sembrano confutare quanti sostengono la non integrabilità degli islamici («Musulmani americani. Una storia di buona integrazione», Europa, 13 gennaio 2010, p. 5). Ho aggiunto i link ai documenti citati.
«Se si contasse il numero di musulmani americani, saremmo uno dei più grandi paesi musulmani al mondo». Così Barack Obama a giugno, intervistato dalla rete francese Canal Plus alla vigilia del discorso al mondo islamico pronunciato al Cairo.
Il presidente parlò in quell’occasione di sette milioni di cittadini americani di religione musulmana (la Casa Bianca disse di aver preso il dato dal Cia World Fact Book), ma in realtà non si hanno cifre esatte: il censo Usa non chiede ai suoi rispondenti la loro affiliazione religiosa.
Le stime, tutte approssimative, variano comunque tra i 2,3 e gli otto milioni (con oltre 1200 moschee sul territorio).
Al di là delle cifre, quel che colpisce a guardare gli islamici d’America – e che anche il primo presidente ad avere come middle name Hussein sottolineò – è il loro livello di integrazione nella società, di gran lunga superiore a quello dei musulmani in Europa (come conferma un sondaggio Gallup dell’anno scorso).
Secondo molte ricerche (tra le ultime e più affidabili una del Pew Research Center che risale al 2007), la maggioranza dei musulmani americani appartiene alla classe media, ha un buon livello di istruzione (il 60 per cento circa è laureato, contro il 30 circa della popolazione nel suo insieme), e dispone di un reddito medio superiore alla media nazionale.
Non è facilissimo dire a che cosa si debba questa success story (che ovviamente, come nota la Palumbo nel seguito dell’articolo, ha anche qualche ombra: dopo l’11 settembre sarebbe stato un miracolo se non ce ne fossero state). Personalmente ritengo che la risposta vada cercata in buona parte nel classico American dream: la prospettiva del successo personale – prospettiva concreta, anche se non sempre raggiunta – costituisce un premio cospicuo allo sforzo di «giocare secondo le regole», di adeguarsi alle norme sociali. Allo stesso tempo, un paese composto di immigrati pone probabilmente di meno l’ostacolo del pregiudizio nei confronti delle minoranze, il che aiuta enormemente l’integrazione. Il problema dell’Europa è allora di riuscire a riprodurre queste condizioni; non è facile – e non per colpa dei musulmani.

mercoledì 13 gennaio 2010

Presepi a Rosarno

Proprio così. Il giorno che ricorderemo come l’inizio della rivolta di Rosarno, Panebianco dedica un capoverso del suo atto di accusa a quelle scuole (cinque? Sei? Fossero anche una dozzina?) che per risibili questioni di integrazione non hanno fatto il presepe. Altro che topi nelle baracche: il presepe. È quello il problema, secondo Panebianco.
Continua qui.

Perché vivono in ghetti

Maurizio Ambrosini interviene su Lavoce.info a proposito della polemica sull’immigrazione ospitata dal Corriere della Sera, che ha visto contrapporsi Giovanni Sartori e Tito Boeri («Ma l’Italia è già multietnica», 12 gennaio 2010):
Si può convenire sul fatto che il presidio dei confini è una dimensione costitutiva della sovranità degli Stati moderni, per quanto democratici. Tutti dispongono di polizie di frontiera, richiedono passaporti, espellono all’occasione stranieri indesiderati. Nello stesso tempo, si obbligano a esaminare le istanze dei richiedenti asilo e ad accogliere quelli che ne hanno diritto, anche se arrivano, come in genere accade, violando le frontiere o usando documenti falsi. […]
Altra cosa è una legge che definisce reato la permanenza sul territorio con un permesso turistico scaduto, da parte di persone che spesso lavorano. […] La legge è inapplicabile per mancanza di strutture e mezzi adeguati. Rischia di intasare la macchina della giustizia, di spingere gli immigrati irregolari verso condizioni ancora più marginali e contigue all’illegalità, di confermare alla fine il messaggio che in Italia le leggi sono severissime sulla carta, ma poco applicate nei fatti.
Qui si innesta un’altra questione. Gli immigrati irregolari non si insediano in Italia per colpa dei preti troppo accoglienti o degli intellettuali liberal, ma perché sono richiesti da molti datori di lavoro italiani, famiglie comprese, e non solo a Rosarno Calabro. […] La fermezza di facciata è contraddetta dall’inefficacia dei controlli sui luoghi di lavoro. In Francia sono stati arrestati in un anno 900 datori di lavoro di immigrati non autorizzati, in Italia questo non avviene.

Quanto ai mussulmani, il problema della penetrazione del fondamentalismo in queste comunità esiste. Ma vanno colti tre aspetti: 1) è un problema tipicamente europeo, negli Stati Uniti i circa 6 milioni di mussulmani non sono percepiti come una minoranza chiusa e ostile, non vivono in quartieri-ghetto, sono in gran parte istruiti e professionalmente qualificati. 2) Il fondamentalismo si nutre della discriminazione e dell’esclusione economica e sociale. I mussulmani in Europa non vivono in ghetti per loro scelta, ma perché non riescono a uscirne. E nei ghetti l’identità culturale e religiosa, l’unica risorsa accessibile a tutti, diventa facilmente un simbolo di opposizione a una società ostile ed escludente. In quei contesti la predicazione fondamentalista attecchisce più agevolmente. 3) Non è possibile, in un ordinamento democratico, né comprimere la libertà di culto, né impedire l’accesso alla cittadinanza per motivi religiosi, né indagare le opinioni di chi chiede di lavorare in Italia, di ricongiungersi con la famiglia o di diventarne cittadino. […]
Lascio da parte il problema dei giovani. Riesce difficile capire come si possa sperare di veder crescere lealtà e attaccamento al nostro paese a chi viene lasciato a lungo fuori della porta della cittadinanza, e costretto a lunghi e complicati procedimenti per accedervi, magari perché arrivato in Italia a due anni, o perché, nato qui, per un anno o due è stato accudito dai nonni al paese d’origine dei genitori.
La società italiana non sta diventando multietnica perché qualche scriteriato ha aperto le porte. Il cambiamento avviene per dinamiche ed esigenze che hanno origine all’interno della nostra società, e in modo specifico nel mercato del lavoro. In realtà noi produciamo ogni giorno la società multietnica, quali che siano le nostre opinioni al riguardo. Non è possibile utilizzare le braccia e rifiutare le persone, o negare loro di poter entrare un giorno a pieno diritto nella comunità dei cittadini di cui ormai, di fatto, fanno parte.
Da leggere tutto.

martedì 12 gennaio 2010

Targhe alterne (ovvero obiettore nel pubblico, abortista in privato)

Si sa ma nessuno se ne è interessa più di tanto. Sono molte le donne che si sono sentite fare questa proposta nel percorso accidentato e tutto italiano per abortire, ma in quel momento magari hai altri pensieri che denunciare il farabutto. Oggi qualcuno è andato a curiosare (Inchiesta shock a Roma: medico obiettore all’ospedale san camillo pratica aborti in studio privato):
un medico obiettore di coscienza in ospedale [...] pratica gli aborti di sera in uno studio privato.
L’inchiesta parte dalle corsie del San Camillo, un ospedale dove – di norma – è difficilissimo abortire perché la maggior parte dei ginecologi dichiarano obiezione di coscienza. Così un giornalista si arma di telecamera nascosta e si finge fidanzato di una ragazza che vuole abortire, superare le difficoltà è facilissimo perché nella struttura sono tutti a conoscenza dei nomi dei medici che fanno il “doppio gioco”.
Il giornalista infatti sa come fare per volere un aborto affidandosi ai consigli della vigilanza “No, non nell’ospedale perché si rischia. Qualche clinica privata te lo può fare – è il primo suggerimento che arriva dalla guardia giurata – “questa è bravissima ma c’è un altro che fa tutto… sono quelli che lo fanno…questi qua sono medici che sono obiettori di coscienza…”. Al giornalista viene dato un pizzino con un numero di telefono per contattare il medico.
Scatta allora la telefonata della ragazza che chiede appuntamento allo specialista, pronto a riceverla e a parlare di aborto alla luce del sole, come se non fosse un obiettore. Anzi invita i pazienti a non perdere tempo “ragazzi bisogna che quagliate perché se le avete avute il 29 ottobre.. non è che la prendo e domani faccio l’intervento…”. Non ci sono quindi problemi di obiezione anzi ribadisce il medico “ ho bisogno di vederla, di fare un’ecografia e di un BHCG però non può fare i capricci questa ragazza…”. Alla domanda se questa cosa si potesse fare al San Camillo il dottore risponde categorico “ Ma al San Camillo passano due mesi, nasce il ragazzino, lo deve fare privatamente”. Insomma, obiettore sì, ma non davanti ai ricchi assegni di chi può permetterselo”.

Protezione civile Super Spa

Aiuto, qualcuno protegga i nostri soldi da Guido Bertolaso. Ora che la Protezione civile diventa una società per azioni nessuno potrà più chiedere conto al governo su appalti ed eventuali spese allegre. Pochi giorni fa, il 17 dicembre, Gianni Letta ha fatto approvare al Consiglio dei ministri il decreto studiato e voluto dal Guido più amato dagli italiani, e da Silvio Berlusconi, in cambio del ritiro delle sue annunciate dimissioni. Un'altra mossa che toglie di mezzo il Parlamento. Il passaggio chiave è scritto in poche parole: «Il rapporto di lavoro dei dipendenti della società è disciplinato dalle norme di diritto privato». Scende così un ulteriore velo di riservatezza su forniture, contratti, progetti per centinaiae centinaia di milioni di euro all'anno, e su assunzioni e consulenze, che non dovranno più passare sotto la lente della trasparenza pubblica. Una scorciatoia che unita alle ordinanze di urgenza e ai poteri di emergenza di cui gode la Protezione civile, trasformerà Bertolaso, 60 anni il 20 marzo prossimo, in un vicerè dalle mani d'oro a completo servizio del presidente del Consiglio di turno. Come già succede ora, ma con meno obblighi da rispettare.
Su l'Epresso, di Fabrizio Gatti.

sabato 9 gennaio 2010

Su Darwin

Sul numero in edicola del bimestrale di divulgazione scientifica Darwin compare anche un mio pezzo (Giuseppe Regalzi, «Prigioniero del proprio corpo», pp. 64-65):
Cos’è che ci colpisce tanto nel caso di Rom Houben, l’uomo che per 23 anni è stato erroneamente ritenuto in stato vegetativo? A cosa si deve l’attenzione che per molti giorni i mezzi di comunicazione hanno dedicato alla sua vicenda? Quale parte del nostro immaginario ne è stata stimolata, forse anche perturbata?
Riassumiamo i fatti. Nel 1983 Rom Houben, belga di 20 anni, subisce un grave incidente automobilistico. Dopo un periodo di coma sembra entrare in stato vegetativo: è sveglio, ma non risponde agli stimoli esterni e appare privo di ogni funzione cognitiva. La situazione rimane immutata per 23 lunghi anni, finché nel 2006 un’équipe guidata da Steven Laureys, un neurologo dell’Università di Liegi, applica a Houben la versione riveduta della Coma Recovery Scale (un sistema di valutazione del comportamento) e rileva tracce di coscienza nel paziente. […]
Il fascino morboso esercitato da storie come questa dipende, credo, dalle innegabili analogie con fenomeni che hanno affascinato e terrorizzato molte generazioni passate: la morte apparente e il seppellimento prematuro. La sindrome locked-in, con il suo soggetto consapevole rinchiuso in un corpo immobile, che non riesce ad avvertire gli altri di ciò che gli succede e delle proprie reali condizioni, richiama subito alla mente la morte apparente, sindrome scientificamente assai meno definibile, ma il cui ricordo vive ancora, per esempio nei racconti di Edgar Allan Poe. […]

Ad Avvenire non piace il Consiglio d’Europa

Avvenire, il giornale della Conferenza Episcopale Italiana, è tornato ad occuparsi della Corte europea dei diritti dell’uomo (Gianfranco Amato, «I consueti bersagli “cattolici” dell’ormai solita Corte», 7 gennaio 2010, p. 2). Questa volta la materia del contendere non è il crocifisso ma l’aborto: tre donne irlandesi, costrette ad andare ad abortire in Gran Bretagna, hanno fatto ricorso alla Corte contro il loro paese, che non consente l’interruzione volontaria di gravidanza se non in caso di grave pericolo per la vita della donna (e anche qui solo in teoria: la legge che dovrebbe regolare questi casi ancora non esiste).
A prescindere dal merito dei singoli casi pendenti avanti la Corte (prima il crocifisso, ora l’aborto), la questione più generale che si pone è di capire se sia ammissibile che la cultura, la tradizione, i valori e persino le norme approvate in Parlamento attraverso un processo democratico possano essere messe in discussione da un organismo internazionale artificialmente creato e del tutto avulso dal contesto che è chiamato a giudicare. Il paradosso si ingigantisce se si considera che quella cultura, quelle tradizioni, quei valori e quelle leggi appartengono a uno Stato membro dell’Unione Europea e possono essere smantellate da un organismo che con l’Unione non ha nulla a che vedere. Sì, perché la «Corte europea dei diritti dell’uomo», non è un’istituzione della Ue e non va confusa, come spesso accade, con la Corte di giustizia europea, che invece è, a tutti gli effetti, un’importante componente dell’architettura istituzionale comunitaria.
Gli strenui difensori dei princìpi liberali e democratici si dovrebbero porre il problema se sia giusto consegnare la sovranità popolare di un Paese membro della Ue nelle mani di 17 uomini delle più disparate estrazioni, visto che fanno attualmente parte della Corte anche giudici provenienti da Turchia, Macedonia, Albania, Montenegro, Moldavia, Georgia e persino dall’Azerbaigian. Sono costoro che hanno la facoltà di giudicare cultura, tradizioni, valori e leggi di Paesi civili e democratici del Vecchio Continente come l’Irlanda e l’Italia, accomunati – guarda caso – dal «difetto» di essere entrambi di tradizione cattolica.
A leggere queste righe, sembra quasi che l’Irlanda sia stata invasa in un recente passato da un esercito di Turchi, Albanesi e persino Azerbaigiani, che l’avrebbero costretta a sottostare a un iniquo trattato. E invece la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali è stata liberamente ratificata il 25 febbraio 1953 dalla Repubblica Irlandese, sesto stato a farlo. Si tratta di un trattato internazionale che vincola chi l’ha firmato, e che può comunque essere denunciato in qualsiasi momento, secondo le modalità previste dal suo stesso articolo 58.
Incomprensibile appare poi l’osservazione sul fatto che la Corte europea dei diritti dell’uomo non è un’istituzione dell’Unione Europea. Giusto correggere la confusione che molti (soprattutto integralisti cattolici) continuano a fare; ma l’autore sembra trarne per conseguenza una qualche mancanza di legittimità. Sì, la Corte è un’istituzione del Consiglio d’Europa (di cui l’Irlanda è, al pari dell’Italia, uno degli stati fondatori), non dell’Unione; e con ciò? Forse il problema è la presenza di stati non sufficientemente «civili» e «democratici», i cui giudici sono chiamati a giudicare modelli di virtù come l’Italia e l’Irlanda? Lasciamo stare il politicamente corretto: in effetti alcuni membri del Consiglio d’Europa, e quindi della Corte, non hanno tutte le credenziali democratiche a posto (solo alla Bielorussia, l’ultima vera e propria dittatura del continente, è stato impedito di aderire; un altro stato europeo ha scelto autonomamente di non entrare a farne parte). Ma ad Amato sembra sfuggire l’enorme importanza di quella presenza: i cittadini di quei paesi hanno la possibilità di adire la Corte per la difesa dei propri diritti fondamentali. Sarebbe difficile garantire questa possibilità senza trattare allo stesso tempo quegli stati da pari; del resto, la Corte offre sufficienti garanzie, mi pare, di un giusto processo. E ovviamente a finire sul banco degli imputati non ci sono solo sempre i poveri paesi cattolici...

Si consoli comunque Gianfranco Amato: coi tempi che corrono, è del tutto possibile che – almeno nel nostro paese – qualcuno decida che la Tradizione e i Valori e le Leggi non debbano più sottostare a questa strana invenzione nordica che sono i diritti umani, e che l’Italia abbandoni di conseguenza il Consiglio d’Europa. Per decisione autonoma, o perché buttata fuori a calci.

venerdì 8 gennaio 2010

Che ne pensate?

Credo che nessuna donna è favorevole all’aborto e chi vi è ricorsa si porta dietro per tutta la vita una ferita difficilmente rimarginabile.
(Da un forum sull’aborto. Per precisione l’estensore della frase riportata si dichiara a favore del diritto di scegliere, ma non è questo che mi interessa in questo momento).

Partorire senza dolore


Ovvero partorire in analgesia (se lo si desidera: chi volesse partorire con dolore per chissà quale ragione è, ovviamente, libera di farlo).
L’AIPA, Associazione Italiana Parto in Analgesia, è una associazione nata dallo sforzo e dalla volontà di un gruppo di cittadine mosse dall’urgenza di garantire alle donne un diritto inviolabile, quello di poter liberamente scegliere un parto che eviti o riduca loro le sofferenze, usufruendo di pratiche antalgiche efficaci e sicure e dell'analgesia epidurale in particolare.
La presidente Paola Banovaz lo spiega qui.
L’Associazione si prefigge lo scopo di tutelare il diritto di libera scelta, l’assicurazione ad un parto rispettoso e la garanzia di un’informazione seria su temi riguardanti gravidanza, parto e puerperio.
L’epidurale in Italia non è un diritto, negata nell’84% degli ospedali pubblici e nelle cliniche convenzionate. Nel restante 16% si nascondono centri che formalmente la garantiscono ma di fatto la negano senza nessuna ragione medica valida. Vuoi perchè la dilatazione non è mai a 5 cm o perché è stata superata quella limite dei 6 cm, o perché prima si deve tentare la vasca, la doccia, il massaggio.
L’epidurale non rientra tra i servizi che candidano una struttura sanitaria al bollino rosa. Gli ospedali amici delle donne spesso non garantiscono alle donne che ne fanno richiesta una cura valida al dolore in travaglio di parto.
In nome di una naturalità del parto da difendere l’Italia sacrifica il diritto delle donne, le mortifica imponendo un trattamento sanitario discriminatorio. Perché per nessun paziente è tollerabile uno stato di sofferenza prolungata senza che venga somministrata una cura efficace che lenisca il dolore.
Le gravide - e quindi come tali donne - sono le uniche pazienti che possono essere lasciate ore, in alcuni casi si potrebbe parlare di giorni, senza che venga loro somministrato alcunché.
L’AIPA promuove una petizione popolare per garantire l’epidurale gratuita e garantita a tutte quelle donne che ne faranno richiesta, prima e/o durante il parto.
Qui il blog Diritto all’epidurale negato.

giovedì 7 gennaio 2010

Corriere Wars: Sartori-Sith contro i Cavalieri Jedi della Blogosfera

Riassunto delle battaglie precedenti. Mentre la Galassia (politica e mediatica) è nel caos, l’illustre prof. Sartori, con patente pubblica di democratico, svela il proprio vero volto: è l’Imperatore Sith! La scoperta avviene il 20 dicembre 2009 con un articolo in cui Sartori-Sith emana un editto imperiale in cui si afferma la non integrabilità dei musulmani nelle società a maggioranza non islamica. Ma l’Imperatore, ahilui, cita proprio l’esempio sbagliato: l’India.
Continua su MilleOrienti.

martedì 5 gennaio 2010

Gli evangelici cristiani alla conquista dell’Uganda


Ecco alcuni portavoce della cristianità in azione. Superfluo commentare. Doveroso leggere tutto il pezzo (Americans’ Role Seen in Uganda Anti-Gay Push, The New York Times, january 3, 2010). In Italia ne parla quasi solo Internazionale. I grandi quotidiani, almeno nelle versioni .it, hanno altre fondamentali notizie da seguire (dal punto g alle varie liti da cortile).
Last March, three American evangelical Christians, whose teachings about “curing” homosexuals have been widely discredited in the United States, arrived here in Uganda’s capital to give a series of talks.

The theme of the event, according to Stephen Langa, its Ugandan organizer, was “the gay agenda — that whole hidden and dark agenda” — and the threat homosexuals posed to Bible-based values and the traditional African family.

For three days, according to participants and audio recordings, thousands of Ugandans, including police officers, teachers and national politicians, listened raptly to the Americans, who were presented as experts on homosexuality. The visitors discussed how to make gay people straight, how gay men often sodomized teenage boys and how “the gay movement is an evil institution” whose goal is “to defeat the marriage-based society and replace it with a culture of sexual promiscuity.”

Now the three Americans are finding themselves on the defensive, saying they had no intention of helping stoke the kind of anger that could lead to what came next: a bill to impose a death sentence for homosexual behavior.

One month after the conference, a previously unknown Ugandan politician, who boasts of having evangelical friends in the American government, introduced the Anti-Homosexuality Bill of 2009, which threatens to hang homosexuals, and, as a result, has put Uganda on a collision course with Western nations.

Donor countries, including the United States, are demanding that Uganda’s government drop the proposed law, saying it violates human rights, though Uganda’s minister of ethics and integrity (who previously tried to ban miniskirts) recently said, “Homosexuals can forget about human rights.”

venerdì 1 gennaio 2010

Un esamino per la Polverini

Susanna Turco intervista Renata Polverini, candidata del PdL alla presidenza della Regione Lazio («“Io sarei una di sinistra? Sui temi etici proprio no...”», L’Unità, 31 dicembre 2009, pp. 16-17):
Esamino di ortodossia finiana su temi etici. Cosa pensa del biotestamento?
«Penso che la vita non sia nella nostra disponibilità. E quando è toccato a me decidere, ho fatto tutto il possibile perché una persona a me molto cara, il marito di mia madre, restasse in vita».
Quindi? La legge ora in discussione in Parlamento?
«Beh, bisogna cercare una convergenza. Se non riusciamo a trovarla nemmeno sulla vita e la morte... ».
Le segnalo che l’impresa si sta rivelando ardua. Procreazione assistita: pensa ancora che la legge 40 non abbia dei limiti?
«All’epoca del referendum per modificare quella legge votai no. Lo confermo».
Ru 486. È giusto commercializzare la pillola del giorno dopo?
«Va somministrata in ospedale. Non è un farmaco qualsiasi, provoca un aborto, è giusto che la donna sia assistita».
Bocciata. Avanti un altro.