mercoledì 23 settembre 2009

Slow Food non lo mando giù

Luca Simonetti (noto nella blogosfera come Karl Kraus) ha scritto una critica devastante dell’ideologia di Slow Food, il movimento fondato da Carlo Petrini per la riscoperta dei sapori «tradizionali». In 31 pagine ricchissime di citazioni, Simonetti mette in luce il carattere essenzialmente reazionario di un pensiero che serve da copertura a una sinistra affluente, desiderosa di consumi di lusso ma anche ansiosa di dar loro una giustificazione ideologica, e al tempo stesso ignara (e forse disinteressata) dei destini e dei bisogni reali delle masse contadine del mondo.
[I]l ritratto della vita dell’uomo-slow è quella di un signore benestante e fornito in abbondanza di tempo libero. Il modo in cui questo signore è divenuto quel che è, a S[low ]F[ood] non interessa, lo riceve come già dato, lo presuppone. Il fatto che i mezzi che consentono all’uomo-slow di esercitare il suo gusto, i suoi sensi, il suo amore per la ‘lentezza’ possano provenirgli, come di fatto spesso accade, proprio dall’esercizio delle attività ‘diaboliche’ della velocità, dell’industrializzazione, dell’omologazione, insomma del capitalismo, è qualcosa che a SF non viene neppure in mente. Così come non immagina affatto che un simile modo di vita non sia proponibile al di sotto di un determinato livello di reddito, e come tale quindi non possa costituire il fondamento di un ‘nuovo modello di sviluppo’, presupponendo, al contrario, lo sviluppo proprio come di fatto già avvenuto. Questo mettere fra parentesi i processi reali, concreti, questo completo oblio o travisamento dello sviluppo storico reale, è tipico dell’operazione ideologica così come vien definita fin dai tempi di Marx […] attribuire alle società preindustriali, ‘arretrate’ o peggio primitive, la lentezza e il tempo necessario per pensare ecc., è una pura mistificazione. Sono proprio le società ‘sviluppate’ quelle che possono permettersi di ‘perdere tempo’, in quanto gli aumenti di produttività (altra parolaccia, su cui il manifesto di SF, come si è visto, scagliava anatemi) consentono ad esse di produrre maggior reddito in tempi minori. Sono in realtà proprio le società tradizionali, pre-industriali, ‘sottosviluppate’ quelle che dedicano la maggiore quantità di tempo alla produzione del reddito, quelle più ossessionate dalla produzione, nonché quelle che sfruttano più spietatamente le risorse naturali mettendo più a repentaglio l’ambiente. Ma anche questo punto, che pure non è del tutto ignoto a SF, viene sistematicamente taciuto nei suoi tentativi di elaborazione teorica.
Il risultato allora è fatalmente la denigrazione o anzi negazione del progresso, che in SF si coniuga con l’elogio delle ‘piccole’ comunità locali e la rivalutazione delle tradizioni ataviche e secolari. Neanche questa è una novità: il pensiero reazionario, da Herder in poi, ha sempre insistito sull’imprescindibilità del legame coi luoghi, perché è solo nella dimensione locale che le ‘tradizioni’ possono sopravvivere, e perché solo l’ancoraggio al concreto, al particolare garantisce dagli attacchi che il razionalismo illuminista muove alle istituzioni della società tradizionale. Ma il paradosso è che le “tradizioni” a cui si richiama SF, cioè quelle locali, sono, nella quasi totalità, fenomeni quanto mai recenti, frutto della irrimediabile scomparsa della civiltà contadina preindustriale e, nello stesso tempo, tentativi ideologici di ovviare alla loro scomparsa mettendo al loro posto una “civiltà contadina” e una “campagna” idillico-pastorali del tutto artificiose. La finalità di questa operazione è, storicamente, quella di quietare le ansie della nuova classe egemone trasportando in un passato remoto gli ideali di pace, tranquillità, armonia che essa faticava a trovare nel presente. È difficile negare che il passato idillico a cui SF si richiama (e che non è mai esistito) fosse un passato nel quale le differenze di classe e di sesso erano soverchianti, in cui la mobilità sociale era sostanzialmente inesistente, in cui la quasi totalità della popolazione mancava del cibo in quantità sufficiente, e che la fine di questo sistema – profondamente iniquo ed oppressivo – è dovuta proprio alla vittoria di quel progresso tecnico e a quella crescita economica che SF ritiene responsabile di ogni male.
In questo lavoro ho quindi cercato di enucleare i principali “miti” costitutivi dell’ideologia di SF: le idee di natura, di tradizione, di limite, la critica del progresso e la diffidenza per la scienza, l’elogio del ruolo tradizionale della donna, il legame con la terra e con i luoghi – il semplice elenco sembra piuttosto eloquente. Lo stratagemma che consente a SF, così come ad altre ideologie politiche contemporanee, di presentare questa posizione come “progressista” consiste nel collegare la critica dello sviluppo economico, del progresso scientifico e tecnico e dell’industrializzazione – critica che di per sé è antichissima, avendo accompagnato la Rivoluzione Industriale fin dal suo sorgere – alla critica dell’imperialismo e dell’etnocentrismo da un lato, e dall’altro alla critica del consumismo e della cultura di massa (una posizione quest’ultima del resto assai vicina alla cultura cattolica contemporanea più conservatrice).
Da leggere tutto: anche per portare alla luce, fra tante scorie, le cose buone – qualcuna c’è – che Slow Food ha prodotto.

lunedì 21 settembre 2009

8 marzo: arresti confermati

Francesca
Il GIP ha confermato gli arresti per Francesca, Sandro, Gabriele e Sandrone (parliamo degli arrestati alla 8 marzo).

sabato 19 settembre 2009

La sentenza del TAR sul diritto di rifiutare i trattamenti sanitari

È disponibile sul nostro sito la sentenza n. 8650 del 25 marzo 2009 (ma depositata solo pochi giorni fa in segreteria) del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, in cui si esamina il ricorso presentato dal Movimento di Difesa del Cittadino contro l’anomalo «atto» con cui il Ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali Maurizio Sacconi aveva tentato a suo tempo di bloccare l’applicazione delle sentenze sul caso Englaro (anche questo può essere scaricato dal nostro sito).
Il TAR ha giudicato inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione, cioè ha dichiarato che ad occuparsene avrebbe dovuto essere il giudice ordinario, non quello amministrativo; ma, come anticipavamo due giorni fa, fra le righe della sentenza si può leggere se non un giudizio sulla questione (che sarebbe stato improprio) almeno i principi su cui un eventuale giudizio non potrebbe non fondarsi (pp. 11-12):
L’articolo 32, comma 2, della Costituzione, l’articolo 3 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e l’articolo 1 della legge n. 180 del 1978 prevedono tutti che ogni individuo ha il diritto di non essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario (se non per disposizione di legge, secondo la nostra carta costituzionale).
Il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari è fondato sulla disponibilità del bene “salute” da parte del diretto interessato e sfocia nel suo consenso informato ad una determinata prestazione sanitaria.
Da tale premessa consegue che i pazienti in Stato Vegetativo Permanente, che non sono in grado di esprimere la propria volontà sulle cure loro praticate o da praticare e non devono, in ogni caso, essere discriminati rispetto agli altri pazienti in grado di esprimere il proprio consenso possano, nel caso in cui la loro volontà sia stata ricostruita, evitare la pratica di determinate cure mediche nei loro confronti.
Conseguentemente la verifica circa l’obbligatorietà della prestazione sempre e comunque di trattamenti sanitari anche nell’ipotesi di accertata volontà contraria del paziente attiene al diritto della dignità umana che, ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, deve essere tutelata.

venerdì 18 settembre 2009

Quando 48 ore fanno la differenza

Le doglie erano state un segno infausto per Sarah Capewell, una donna di 23 anni di Great Yarmouth, Norfolk, Inghilterra: a 21 settimane e 5 giorni di gestazione il parto era di gran lunga troppo in anticipo, tanto che i sanitari del James Paget Hospital di Gorleston le dissero che suo figlio sarebbe quasi certamente nato morto. A dispetto di questa previsione, però, il piccolo Jayden sopravvisse al parto; ma quando la madre chiese che il bambino venisse sottoposto a cure intensive, i medici rifiutarono. L’ospedale segue infatti le linee guide del Nuffield Council on Bioethics sul trattamento dei grandi prematuri, che sconsigliano di intraprendere qualsiasi trattamento prima delle 22 settimane compiute di età gestazionale (le linee guida della British Association of Perinatal Medicine, uscite nell’ottobre del 2008 pressoché contemporaneamente alla nascita di Jayden, alzano questo limite a 23 settimane). Nonostante le proteste di Sarah, dunque, al bambino non fu prestata nessuna cura, e il piccolo spirò due ore più tardi fra le braccia della madre.
La donna non ha accettato l’esito della vicenda, e ha lanciato una petizione per cambiare le linee guida, mettendo online un sito, Justice for Jayden, per sostenerla.

Ripresa da alcuni giornali britannici nei giorni scorsi, la vicenda ha inevitabilmente finito per attirare l’attenzione degli integralisti italiani. Gianfranco Amato le ha dedicato un articolo («Lasciato morire perchè nato 48 ore prima. L’incredibile storia del piccolo Jayden», 15 settembre 2009) su Sussidiario.net, quotidiano online nato nell’ambito dell’esperienza della Compagnia delle Opere, e riconducibile quindi ad ambienti in buona parte coincidenti con Comunione e Liberazione. La lettura che Amato fa della decisione dei medici è peculiare: la soglia delle 22 settimane sarebbe, per lui, di natura giuridica.
Di fronte al disperato appello di salvare il proprio figlio, quella giovane madre si è sentita rispondere dai medici del James Paget Hospital di Gorleston, Norfolk, che lei non aveva partorito un neonato ma, a termini di legge, aveva abortito un feto vivente. Con il tatto impietoso di chi ha ormai perso qualunque senso di umanità, i medici dell’ospedale hanno spiegato a Sarah Capewell, che quello che lei si ostinava a chiamare il suo bambino, era in realtà, sotto il profilo giuridico, semplicemente un feto, quindi un soggetto privo di alcun diritto. Il piccolo Jayden avrebbe dovuto nascere 48 ore più tardi perché, secondo regolamento, si potesse definirlo persona, e quindi riconoscergli il diritto a essere salvato [corsivi miei].
La verità, naturalmente, è del tutto diversa. Prima di tutto non esiste alcuna distinzione di status giuridico per i prematuri nati prima di 22 settimane – né si vede come un consiglio privato di bioetica, com’è il Nuffield Council, potrebbe mai emanare regolamenti giuridicamente vincolanti, o addirittura «leggi», per usare la parola impiegata da Amato. Le linee guida hanno in realtà un significato esclusivamente medico, e si fondano su una semplice osservazione: non esistono a oggi casi documentati di prematuri nati prima delle 22 settimane di gestazione sopravvissuti per più di pochi giorni. Il caso di Amillia Taylor, una bambina nata a 21 settimane e 6 giorni e sopravvissuta, che è citato dal Sussidiario e che avrebbe spinto Sarah Capewell a lanciare la sua petizione, sembra essere basato su un malinteso: l’età gestazionale si misura dall’ultima mestruazione, che precede di circa due settimane l’effettivo concepimento; nel caso di Amillia, concepita in vitro, l’età gestazionale sarebbe stata calcolata a partire dalla fecondazione, e sarebbe quindi inferiore di due settimane a quella calcolata tradizionalmente. A circa 24 settimane di età gestazionale equivalente, la sopravvivenza di Amillia, nonostante un peso alla nascita bassissimo, desta meno sorpresa.
L’unico caso finora non confutato di sopravvivenza di un bambino nato a meno di 22 settimane rimane pertanto quello di James Elgin Gill, nato nel 1987 a 21 settimane e 5 giorni; ma la fonte più autorevole a sostegno di questo primato rimane, a quanto ne so, il Guinness Book of Records, che con tutto il rispetto, non equivale certo a una pubblicazione scientifica.
In ogni caso, è chiaro che ci troviamo di fronte a probabilità infinitesimali di sopravvivenza. Sull’altro piatto della bilancia va posta la gravosità estrema degli interventi di rianimazione su un prematuro di quell’età: con vene che si rompono al contatto degli aghi, la pelle che viene via assieme all’adesivo usato per fissare tubi e fili, la tendenza a subire emorragie cerebrali, etc. Certo, la capacità di provare dolore in un bambino di 21 settimane è assai incerta; ma anche un dubbio conta, di fronte alla virtuale certezza dell’inutilità delle cure.
In altre parole, rianimare un prematuro minore di 22 settimane è forse l’esempio più chiaro di accanimento terapeutico, anche secondo l’accezione più stringente usata dal magistero cattolico: il ricorso a cure inutili e gravose su un malato terminale.
Serve una conferma? La possiamo trovare nella «Proposta di linee-guida per l’astensione dall’accanimento terapeutico nella pratica neonatologica» della Cattedra di Neonatologia dell’Istituto e Centro di Bioetica dell’Università Cattolica del S. Cuore, Facoltà di Medicina e chirurgia “A. Gemelli”, Roma: un nome che è una garanzia – e infatti queste linee guida sono assai più ‘interventiste’ di quelle proposte da istituzioni più laiche. Ma non abbastanza interventiste da dire una cosa diversa rispetto alle linee guida del Nuffield Council nel caso che ci interessa (pp. 3-4):
Neonati di età gestazionale ≤ 22 settimane compiute

Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche e delle tecnologie disponibili la sopravvivenza di neonati di età gestazionale ≤ 22 settimane (età gestazionale che corrisponde a metà del periodo canalicolare dello sviluppo del sistema respiratorio) è condizionata negativamente dall’assenza delle aree di scambio dei gas (alveoli).

Procedure indicate:
  1. Valutazione obiettiva del neonato (conferma dell’EG).
  2. Astensione dall’intubazione endotracheale e dalla ventilazione.
  3. Permettere alla madre di vedere il neonato, se lo richiede.
  4. Trasferimento del neonato in ambiente riservato (terapia intensiva o unità di osservazione neonatale) che consenta di prendersi adeguatamente cura del neonato e della famiglia, procedendo con le cure palliative che in questa situazione consistono nel:
    • evitare la grave ipotermia cui sono esposti i neonati
    • contenere le stimolazioni d’ambiente (luci e rumori)
    • evitare qualsiasi tipo di stimolazione che possa indurre dolore
    • non intraprendere controlli cruenti (prelievi)
    • effettuare, se necessario, monitoraggi incruenti
    • incannulare la vena ombelicale per infusione di farmaci analgesici (da somministrare secondo protocolli specifici)
L’assistenza ai genitori prevede che
  • siano accolti i desideri in ordine ad aspetti religiosi, culturali e tradizionali
  • si consenta ai genitori di vedere e stare vicino al neonato, se richiesto
  • si offra disponibilità all’ascolto ed alla informazione
Si parla, come si vede, esclusivamente di cure palliative.
Quanto all’esiguità delle 48 ore necessarie per far cambiare atteggiamento ai sanitari, essa è solo apparente: ogni giorno, intorno a questa età gestazionale, avvicina sensibilmente il raggiungimento della capacità respiratoria necessaria alla sopravvivenza.

Su che cosa si basa la ricostruzione fuorviante – a questo punto lo possiamo dire – del Sussidiario? Sembra che la fonte sia una singola frase di un articolo del Daily Telegraph: «After asking doctors to consider his human right to life, she claims she was told: “He hasn’t got a human right, he is a foetus”» («Dopo aver chiesto ai medici di considerare il diritto alla vita del bambino, la donna sostiene che le sia stato risposto: “non ha diritti umani, è un feto”»; Laura Donnelly, «Premature baby dies as guidelines say he was born too early to save», 9 settembre). Si paragoni la circospezione del Telegraph («la donna sostiene») con la sicurezza ostentata del Sussidiario, che costruisce l’intero articolo attorno a una frase riportata, che potrebbe essere stata male interpretata e che in ogni caso non può cambiare la realtà medica. Inoltre il Telegraph riporta correttamente, benché forse troppo sinteticamente, la motivazione delle linee guida:
Medical guidance for NHS hospitals says the low chance of survival for babies born below 23 weeks means they should not be given interventions which could cause suffering.
Nel pezzo di Gianfranco Amato non riesco invece a trovare il minimo riferimento all’obiettivo di non infliggere sofferenze. Si trova in compenso l’immancabile, frusto paragone con i nazisti; e si trovano anche particolari della vicenda assenti da tutti i resoconti della stampa britannica a me disponibili: quello citato del Telegraph e quello del Daily Mail (Vanessa Allen e Andrew Levy, «“Doctors told me it was against the rules to save my premature baby”», 10 settembre). Ecco cosa scrive Amato:
Così, l’agonia del piccolo Jayden è durata due ore, sotto gli sguardi gelidi e indifferenti del personale sanitario. Neppure la più piccola assistenza è stata prestata durante quelle lunghissime ore, così come è stata recisamente respinta la supplica della madre per poter celebrare il funerale del bimbo.
Gli «sguardi gelidi e indifferenti» sembrano una nota di colore aggiunta lì per lì; non è affatto chiaro che non sia stata prestata la minima assistenza, nemmeno palliativa: il Mail dice invece esplicitamente che era presente un’infermiera, che avrebbe potuto offrire le semplici cure necessarie; la supplica «recisamente respinta» di celebrare il funerale si riduce sempre sul Mail a una discussione con alcuni funzionari sui certificati necessari (e l’impressione, a leggere il giornale inglese, è che i funerali ci siano alla fine stati).
Non voglio dire che il comportamento dei medici inglesi sia stato sicuramente al di sopra di ogni biasimo: chiunque sia mai entrato in un ospedale sa che non sempre gli atteggiamenti sono del tutto improntati a una calda comprensione, e nel caso specifico c’è stata certamente una insufficiente comunicazione con la madre. Ma sembra proprio che la voglia irrefrenabile di giudicare e condannare il prossimo – sempre leggermente sorprendente in un cristiano – abbia indotto l’autore (e chi ne ha ripreso acriticamente il pezzo) a colmare un po’ affrettatamente alcune lacune della storia.

giovedì 17 settembre 2009

Così tanto per dire

A nessuno possono essere imposte alimentazione e idratazione forzata, nè cosciente nè incosciente, e anche in caso di stato vegetativo un cittadino può esprimere ex post la propria volontà di interrompere terapie giudicate inutili, comprese proprio alimentazione e idratazione.

Il Tar del Lazio - accogliendo un ricorso del Movimento difesa dei Cittadini all'ordinanza Sacconi emanata lo scorso anno, nei giorni del caso Eluana - boccia di fatto la legge sul testamento biologico già approvata alla Camera e al vaglio del Senato, dove si precisa invece che alimentazione e idratazione artificiali sono atti imprescindibili che il malato in stato vegetativo non può rifiutare tramite una dichiarazione anticipata di trattamento.

La sentenza. "I pazienti in stato vegetativo permanente - si legge nella sentenza - che non sono in grado di esprimere la propria volontà sulle cure loro praticate o da praticare e non devono in ogni caso essere discriminati rispetto agli altri pazienti in grado di esprimere il proprio consenso, possono, nel caso in cui loro volontà sia stata ricostruita, evitare la pratica di determinate cure mediche nei loro confronti".

E ancora: il paziente "vanta una pretesa costituzionalmente qualificata di essere curato nei termini in cui egli stesso desideri, spettando solo a lui decidere a quale terapia sottoporsi". Il TAR, nella sentenza n. 8560/09, ha evidenziato che si tratta di questioni che coinvogono il "diritto di rango costituzionale quale è quello della libertà personale che l'art. 13 (della Costituzione, ndr) qualifica come inviolabile".

Ha poi ricordato che è entrata in vigore la convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità che impone che venga loro garantito il consenso informato. Infine, il Tribunale Amministrativo ha sottolineato come il rilievo costituzionale dei diritti coinvolti esclude che gli stessi possano essere compressi dall'esercizio del potere dell'autorità pubblica.

La conseguenza è l'esclusione della giurisdizione del giudice amministrativo spettando, in caso di violazione dei principi richiamati dal TAR, al giudice ordinario garantire il pieno rispetto dei diritti della dignità e della libertà della persona.

mercoledì 16 settembre 2009

8 marzo (e non è la festa della donna)


Questo è un video di due giorni fa.
Chi ha avuto voglia di cercare forse lo aveva già visto. Per il resto sono Il Tempo, Il Messaggero e qualche altro giornaletto a raccontare la (loro) versione degli avvenimenti e delle ragioni dello sgombero e degli arresti. Versione che non sembra avere smentite, almeno nella stampa ufficiale.
Qui un post dell'osservatorio repressione.
Qui il comunicato degli occupanti 8 marzo.
Qui qualche foto della manifestazione di sabato scorso (Roma non si chiude).

martedì 15 settembre 2009

Non tutti si piegano

Giacomo Galeazzi intervista Annarosa Racca, presidente di Federfarma («“Sono credente, ma non posso violare la legge”», La Stampa, 14 settembre 2009, p. 17):
Annarosa Racca, presidente di Federfarma, raccoglie l’appello di Benedetto XVI?
«No. Massimo rispetto per la sensibilità religiosa, io stessa sono cattolica, ma non possiamo violare le leggi dello Stato. Per fortuna nostra la Ru4686 riguarda gli ospedale e quella sì interrompe una vita. Quando invece ci arriva la ricetta per la pillola, non è solo un anticoncezionale, serve in mille patologie. Nella pre-menopausa, per disfunzioni ormonali, persino per l’acne».

Quindi?
«Io non posso appurare che uso faccia la cliente della pillola. Devo limitarmi a verificare la correttezza della prescrizione. È così che ieri ho salvato una persona in gestosi gravidica. Le era aveva stata prescritta una cura errata, io mi sono rifiutata di darle quei farmaci e ho chiamato il medico che mi ha detto di essersi sbagliato».

E l’obiezione di coscienza?
«La legge sull’obiezione è stata scritta per i medici non per i farmacisti. Noi siamo al servizio dello Stato e dobbiamo applicarne le leggi, cioè dispensare il farmaco prescritto e se non ce l’abbiamo procurarcelo il prima possibile. Non possiamo contrastare la decisione del medico: si crea un conflitto illegale se interferiamo con la diagnosi-prescrizione».

lunedì 14 settembre 2009

[...] non possiamo esentarci dalle nostre responsabilità individuali

Perché non reagire? Reagire a cosa? Non reagiamo a noi stesse che sbeffeggiamo la democrazia, astenendoci dal votare per la fecondazione assistita, la diagnosi preimpianto, la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Non reagiamo quando gli intellettuali tessono le lodi dell’irrazionalità, col risultano che la dicotomia femmina/maschio, donna/uomo (dicotomia sessista) viene a rafforzarsi nell’immaginario collettivo, con i maschi/uomini che permangono nell’essere giudicati non solo animali umani razionali, ma anche attivi e oggettivi, in opposizione a donne che risultano non solo animali non umani (in quanto oggetti sessuali) ma anche irrazionali, emotive, passive, soggettive. Non reagiamo di fronte ai sinonimi di «uomo» e di «donna» che troviamo nella versione 2007 di Microsoft Office Word. Sinonimi di «uomo»: «essere umano, persona, individuo, genere umano, il prossimo, umanità, gente, maschio, adulto, addetto, operaio, tecnico, giocatore, atleta, soldato, militare, elemento, unità, un tizio, un tale, uno, qualcuno. Sinonimi di «donna»: «femmina,gentil sesso, bel sesso, sesso debole, signora, signorina, donna di servizio, domestica, cameriera, collaboratrice familiare, colf, governante, dama, regina. Manca «escort»: peccato! Il referendum, il fascino dell’irrazionalità, i sinonimi Microsoft appaiono innocui rispetto a «culi, fighe, peni, tette» sbattuti ovunque, oltre che in prima pagina. Apparentemente innocui. Perché se irrazionali, emotive, passive, soggettive, le donne non riescono a nutrire fiducia nelle proprie capacità intellettive, ad aspirare, per merito comprovato, non per «gnoccheria», a posizioni scientifico-culturali di spicco, ove il corpo non debba venir mercificato.
Nicla Vassallo, Donne e uomini «pensanti» per rompere il muro del silenzio, l’Unità, 12 settembre 2009.

venerdì 11 settembre 2009

Ascoltare le vite ad una ad una

Guido Ceronetti, Insetti senza frontiere, Milano, Adelphi, 2009, n. 91:
Il culto, la religione, l’idolatria della vita-per-la-vita in astratto può significare oblio e disprezzo completi, addirittura feroci, per le vite in concreto, la tua, la mia, le nostre una per una. In questo falso amor vitae il dolore fisico e psichico, la realtà della mente e del piano mentale non hanno luogo, sono là ma privi di passaporto, diventano «razza maledetta» esclusa da ogni riconoscimento, «intoccabili». La vita ad ogni costo non ascolta gli urli di là dal muro, non indaga quel che c’è dentro o intorno o sopra un letto, è una specie di complicità oscura con la faccia più improvvida della morte, ed è sempre così quando un principio astratto perverte o fa scempio dell’esperienza. Pietà in astratto assoluta si fa, qui nei rigagnoli del fermento, gridante empietà. Ascoltare le vite ad una ad una è vera pietà.

giovedì 10 settembre 2009

Non fingerò cordoglio

Paolo Villaggio su Mike Bongiorno (Mi trattò da rettile. Non fingerò cordoglio), oggi su l'Unità:
Beh lui è stato responsabile forse di un abbassamento generale della cultura italiana degli ultimi quarant’anni. La televisione purtroppo ha sostituito la scuola, ha sostituito la famiglia, l’oratorio. E la scuola ha fatto cultura, ma ha fatto la cultura televisiva, una cultura molto bassa e adesso ne paghiamo le conseguenze. Lui è stato uno dei capo fila di quei televisivi che cercavano disperatamente il consenso, cioè i numeri. Io trovo che sia stata quasi deleteria la sua presenza, insomma a me non piace, sarebbe facile come sempre fingere il grande cordoglio. No lui è stato straordinario, c’erano dei momenti in cui si poteva anche sospettare che certe gaffe incredibili che ha fatto fossero premeditate. Io l’ho conosciuto a un Festival di Sanremo dove ero un giovane esordiente e lui non aveva capito che il mio modo di bistrattare il pubblico era un modo disperato per cambiare il rapporto con il pubblico, di cambiare il linguaggio che era diventato già stantio quarant’anni fa e mi ha trattato con un po’ di disprezzo,mi ha trattato quasi come un rettile, come uno scarafaggio. E quando son salito sul palco con lui nella serata inaugurale mi ha detto: «Tu però vai giù tra il pubblico perché qui forse...» e io gli ho detto: «Non ti preoccupare Mike che non sporco, quindi non c’è problema». Ma ho sentito che lui in fin dei conti era fiero della sua mediocrità perché non capiva e non sapeva, non aveva la percezione di essere mediocre.

La Morte e Terry Pratchett

In Gran Bretagna il dibattito sul suicidio assistito si è riacceso con il caso di Debbie Purdy, la malata di sclerosi multipla che ha chiesto a un tribunale di chiarire se il marito rischia di venire incriminato qualora la accompagnasse in Svizzera a morire in una clinica della Dignitas (l’organizzazione che aiuta i malati a praticare il suicidio).
Nel dibattito è intervenuto Terry Pratchett, l’autore di celebri libri di fantasy, come la serie di Discworld, a cui è stato diagnosticato nel 2007 il morbo di Alzheimer. Le considerazioni di Pratchett si possono leggere sul MailOnlineI’ll die before the endgame, says Terry Pratchett in call for law to allow assisted suicides in UK», 3 agosto 2009).
Nel corso degli ultimi anni ho incontrato persone deliziose, che dicono di avere il forte desiderio di prendersi cura degli altri. Non ho nessuna ragione di dubitarne; ma riuscirebbero costoro ad accettare il fatto che ci sono altre persone che hanno il desiderio fortissimo di non trovarsi mai ad aver bisogno che qualcuno si prenda cura di loro?
[…]
Mi sto godendo in pieno la vita, e spero di continuare a farlo per un bel po’. Ma sono anche deciso, prima che la fine dei giochi si profili all’orizzonte, a morire seduto nel mio giardino, con un bicchiere di brandy in mano e Thomas Tallis sull’iPod – perché la musica di Thomas riuscirebbe a sollevare persino un ateo un pochino più vicino al Cielo – e forse un secondo brandy, se ci sarà tempo.
Ah, e visto che siamo in Inghilterra, sarà bene aggiungere: «Se piove, in biblioteca».
[…]
Anche le cose che aggiungiamo [alla vita], come l’orgoglio, il rispetto di sé e la dignità umana, sono degne di essere preservate, e possono andar perdute nel feticismo per la vita ad ogni costo.
Da leggere tutto.

mercoledì 9 settembre 2009

Quel che Rocco ha in serbo per noi

All’indomani dell’approvazione da parte del Parlamento della mozione che impegnava il Governo italiano a promuovere una risoluzione Onu per la moratoria sull’aborto forzato, Rocco Buttiglione – che di quella mozione era stato il principale artefice – rilasciava un’intervista al Corriere della Sera (Aldo Cazzullo, «“Aborto, convinciamo l’Europa a portare la moratoria all’Onu”», 17 settembre 2009, p. 13). Una delle dichiarazioni di Buttiglione faceva però storcere il naso ai puri e duri del movimento antiabortista, e non solo in Italia:
Il «movimento», dice Buttiglione, non è contro la 194. «Noi la legge non vogliamo cambiarla. Meno che mai l’articolo 1, secondo cui l’aborto non è uno strumento di controllo delle nascite. L’ha detto benissimo Livia Turco: l’aborto non è un diritto, ma una spaventosa necessità. Tutti siamo cambiati […] chi, come me, si batté contro la 194, riconosce di essersi sbagliato su un punto». Quale? «Da bigotto come sono, lo dico teologicamente: Dio affida il bambino alla madre in un modo così particolare, che difendere il bambino in contrapposizione alla madre è giusto ma impossibile. Dobbiamo sostenere la madre, renderla libera: più sarà libera, più sarà difficile che rinunci al bambino».
La rinuncia, che Buttiglione sembra compiere in questo passo, alla criminalizzazione della donna che abortisce non poteva ovviamente non dispiacere agli oltranzisti del Culto dell’Embrione, e nei giorni seguenti il malcontento si fece sentire.

Emerge ora una seconda intervista, rilasciata pochi giorni dopo a Friday Fax, la newsletter del Catholic Family and Human Rights (un’organizzazione antiabortista che opera all’interno delle Nazioni Unite), in cui Buttiglione corregge vistosamente il tiro (Piero A. Tozzi, «“Defended With All Possible Means” – Rocco Buttiglione Clarifies Remarks on Protecting the Unborn Child», 29 luglio). Queste dichiarazioni hanno avuto una buona diffusione all’interno dell’universo pro-life cattolico americano, ma sembrano essere rimaste in larga parte ignote al pubblico italiano, nonostante ne fosse stata effettuata una traduzione abbastanza tempestiva, da cui cito i passi più interessanti.
Peraltro credo che la nostra posizione nei paesi occidentali sarà rafforzata dall’iniziativa di condanna dell’aborto forzato, perché essa rende più evidente che il feto non è parte del corpo della donna, e rende chiaro che l’aborto è un male morale. Non è perseguito pubblicamente, ma è un male morale. In questo senso penso che l’iniziativa rafforzi la nostra posizione, anche sa da un punto di vista legale non cambia nulla.
Alla domanda dell’intervistatore se fosse stato stato «un errore» opporsi alla depenalizzazione dell’aborto, Buttiglione risponde in questo modo (corsivo mio):
La mia dichiarazione è stata semplificata. Io non ho detto che è stato sbagliato cercare di difendere i diritti del bambino con l’uso del codice penale. Non ho detto questo. La vita del bambino deve essere difesa con tutti i mezzi possibili. Con il codice penale? Sì, naturalmente, con il codice penale dove questo è possibile. Ma oggi in Italia questo non è possibile, quindi dobbiamo affidarci ad altri mezzi. Dobbiamo renderci conto che non abbiamo il consenso per mettere fuorilegge l’aborto.
E più avanti:
In Italia speriamo che tra 10-15 anni – se facciamo la cosa giusta oggi – possiamo avere una maggioranza per la vita che non abbiamo oggi.
Perciò, se sei in un paese dove la maggioranza delle persone è pro-life, adotti una strategia. Ma in paesi dove sei in minoranza, devi fare alleanze. L’ideale è avere una protezione legale per difendere la vita del figlio, e buone politiche per le madri.
È interessante notare che in un’intervista in lingua italiana rilasciata appena tre giorni prima di questa (Alberto Bobbio, «“Ora servono politiche familiari”», Famiglia Cristiana, 26 luglio, pp. 20-21), Buttiglione non faccia il minimo cenno a questi vagheggiamenti di un ritorno ai bei tempi andati; anzi, sembra ripetere quello che aveva detto al Corriere: «finalmente si supera la follia di mettere la libertà della donna contro la vita del bambino», «Bisogna smetterla di difendere il bambino contro la madre o viceversa».
La conclusione sembra essere solo una: i fanatici dell’embrione non possono rinunciare al loro sogno di chiudere in galera le donne che abortiscono. Nell’attesa di vederlo realizzato, possono solo imparare le arti della doppiezza e dell’ipocrisia, adattando provvisoriamente il loro messaggio ai vari contesti in cui si trovano a svolgere la loro missione.

martedì 8 settembre 2009

Giornata di studi su etica, terapia intensiva e trattamenti d’emergenza

Il Master in Etica pratica e Bioetica, attivato presso la Facoltà di Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma e diretto da Eugenio Lecaldano, e la Commissione Bioetica della Società Italiana Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) hanno organizzato una giornata di studi su «Etica, terapia intensiva e trattamenti d’emergenza», che si svolgerà il 24 settembre 2009 nei locali della Facoltà di Filosofia in Via Carlo Fea 2, Roma (Aula I).

Programma:

9.30 apertura lavori

I sessione
Presiede: Francesco Saverio Trincia (Sapienza ­Università di Roma)

10.00-10.30 Serenella Pignotti (Terapia Intensiva Neonatale, Ospedale Meyer Firenze), «Rianimazione dei grandi prematuri e dilemmi morali»
10.30-10.50 discussant: Caterina Botti (Sapienza Università di Roma)
10.50-11.20 discussione generale

pausa

II sessione
Presiede: Fabrizio Rufo (Sapienza Università di Roma)

11.40-12.10 Maurizio Liberti (Servizio emergenza 118 Bologna), «Rianimazione cardio-polmonare e dilemmi morali»
12.10-12.30 discussant: Maurizio Balistreri (Sapienza Università di Roma)
12.30-13.00 discussione generale

III sessione
Presiede: Irene Figà Talamanca (Sapienza Università di Roma)

14.00-14.30 Guido Bertolini (Dipartimento di Epidemiologia, Istituto Mario Negri Bergamo), «Le scelte di fine vita in terapia intensiva»
14.30-15.10 discussant: Simone Pollo (Sapienza Università di Roma), Lucio Fumi (Direttore medico indipendente nell’industria farmaceutica europea)
15.10-15.40 discussione generale

pausa

IV sessione
Presiede: Eugenio Lecaldano (Sapienza Università di Roma)

16.00-16.30 Amedeo Bianco (Presidente FNOMCEO), «Presentazione documento FNOMCEO»
16.30-17.20 discussant: Piergiorgio Donatelli (Sapienza Università di Roma), Giuseppe Renato Gristina (SIAARTI), Alberto Oliverio (Sapienza Università di Roma)
17.20-18.00 discussione generale

Per informazioni: eugenio.lecaldano@uniroma1.it

lunedì 7 settembre 2009

È chiaro chi perderà

Chiara Saraceno, «Il Grande Scambio sui diritti civili», La Repubblica, 7 settembre 2009, p. 1:
Non è chiaro chi uscirà vincitore dalla complessa partita che si sta giocando nel rapporto Stato (o meglio governo) e Chiesa cattolica in queste settimane, tra minacce, aggressioni, ricatti e promesse. I giocatori sono troppi, ciascuno con un suo interesse e motivazione specifica.
Berlusconi vuole mettere una pietra tombale su ogni critica non tanto ai suoi comportamenti privati, quanto alla sua disinvolta confusione tra pubblico e privato, in questioni che riguardano sesso, ospitalità, candidature e incarichi politici, affari. Perciò, così come è disposto ad usare ogni mezzo, pubblico e privato, per mettere a tacere chi lo critica, è anche disposto ad utilizzare il proprio ruolo pubblico per offrire in cambio alla Chiesa il potere di regolare le scelte private dei cittadini sulle questioni che ad essa stanno più a cuore.
[…] come ha chiarito a suo tempo Ruini ed è continuamente ripetuto in queste settimane, la Chiesa è interessata non ai comportamenti privati dei politici ma alle loro azioni politiche nei settori che le stanno a cuore. Se non è chiaro chi e come vincerà, è chiaro chi perderà: noi cittadini. Perché la merce che i nostri governanti (e coloro che aspirano a sostituirli) sono disposti a scambiare in cambio della benevolenza della Chiesa è la nostra libertà non solo di opinione, ma di comportamento su questioni rilevanti per la nostra vita e per il senso che le attribuiamo: che tipo di coppia fare, se e quando fare figli e se accettare di portare a termine una gravidanza non desiderata, come essere curati e come essere accompagnati alla morte (ovvero lasciati andare) quando ogni cura non è più possibile. Lo scambio cui tutti questi attori si accingono non è solo l’importantissima libertà di stampa e di opinione. È il fondamento stesso di ogni diritto civile: l’habeas corpus e il diritto di poter dire e decidere su di sé.

sabato 5 settembre 2009

Master in Bioetica Animale

L’Università di Pisa ha attivato un Master in Bioetica Animale presso il Dipartimento di Scienze Fisiologiche. L’obiettivo del Master è la «formazione di professionisti in grado di analizzare, in chiave interdisciplinare, i problemi morali emergenti dal rapporto uomo - animali non umani e di fornire in proposito valutazioni etiche razionali». I corsi inizieranno il 15 gennaio 2010 e dureranno 15 mesi; la scadenza per le domande di ammissione ai 30 posti disponibili (e ad altri 15 posti per uditori) è fissata al 1 dicembre 2009. Ulteriori dettagli, col bando ufficiale e i moduli per la domanda, qui.

Quel che non si perdona ai gay

Vittorio Lingiardi, «Omofobia. Il “muro” del risveglio felice» (L’Unità, 4 settembre 2009, p. 17):
Se, in passato, lo «scandalo» era la devianza omosessuale, oggi ciò che preoccupa e spaventa, fino all’odio, è la possibilità di una normalità omosessuale e della sua realizzazione affettiva, persino familiare […] ciò che gli omofobi (siano essi balordi da strada o intellettuali a modo) non possono sopportare è quel sapore di felicità che nell’ormai lontanissimo 1978, Michel Foucault notava quasi incidentalemente in un’intervista: «Se si vedono due omosessuali, o meglio due ragazzi che se ne vanno insieme a dormire nello stesso letto, in fondo li si tollera, ma se la mattina dopo si risvegliano col sorriso sulle labbra, si tengono per mano, si abbracciano teneramente, e affermano così la loro felicità, questo non glielo si perdona. Non è la prima mossa verso il piacere ad essere insopportabile, ma il risveglio felice».

Milano

13 settembre, ore 18.30, Milano, Festa Democratica, Plasharp, MM1 Lampugnano.

giovedì 3 settembre 2009

Due di Bioetica su Darwin

Il team di Bioetica è presente al completo sul numero da oggi in edicola della rivista di divulgazione scientifica Darwin (n. 33, settembre-ottobre 2009).
Chiara Lalli firma un intervento sulle famiglie arcobaleno (pp. 62-63):
In Italia ci sono molti bambini nati o cresciuti in famiglie omosessuali. Famiglie ricomposte, donne che hanno usato le tecniche di riproduzione artificiale, uomini che hanno fatto ricorso alla maternità surrogata, cogenitori (cioè una coppia di uomini e una coppia di donne che hanno insieme dei figli). L’omogenitorialià è dunque una realtà, e non sembrano esserci valide ragioni per condannarla o stigmatizzarla. La letteratura scientifica in merito, infatti, rassicura. Anche il buon senso può venirci in soccorso: se l’omosessualità non è una patologia e se il desiderio di avere un figlio è legittimo, dovrebbe esserlo indipendentemente dall’orientamento sessuale.
Nel 2005 è stata condotta Modi di, una ricerca nazionale sulla salute di lesbiche, gay e bisessuali. Nel campione analizzato «il 17,7 per cento dei gay e il 20,5 per cento delle lesbiche, con più di quaranta anni, hanno almeno un figlio. La quota scende ma rimane significativa se si considerano tutte le fasce d’età. Sono genitori un gay o una lesbica ogni venti. Per la precisione il 5 per cento dei primi (il 4,7 per cento è padre biologico) e il 4,9 per cento delle seconde (il 4,5 per cento madre biologica)». Sono dunque circa centomila i figli cresciuti in una famiglia gay, secondo una stima inevitabilmente per difetto. […]
Giuseppe Regalzi racconta invece la storia della colossale frode scientifica perpetrata dal dottor Woo Suk Hwang («Ascesa e caduta del re della clonazione», pp. 86-95):
Il 12 gennaio 2006 il dottor Woo Suk Hwang stava piangendo di fronte alle telecamere della Tv sudcoreana. «Mi sento così annichilito e mortificato che non ho quasi la forza di chiedere scusa». Venti dei suoi colleghi, in piedi a capo chino dietro di lui, condividevano l’umiliazione di quei momenti. «Chiedo il vostro perdono», aggiunse Hwang rivolgendosi ai suoi concittadini, che l’avevano a lungo idolatrato e considerato un eroe nazionale. In quel momento agenti di polizia stavano perquisendo la sua abitazione e i suoi laboratori alla ricerca di prove, dopo che due giorni prima una commissione d’indagine istituita dall’Università Nazionale di Seul aveva concluso che i due articoli scientifici che avevano dato a Hwang la gloria, pubblicati sulla prestigiosa rivista Science nel 2004 e nel 2005, contenevano estese falsificazioni, e che la pretesa produzione di cellule staminali embrionali a partire da embrioni umani clonati, in essi documentata, non era mai avvenuta.
Ma come era stato possibile che una frode scientifica di questa portata passasse all’inizio inosservata? E quali eventi avevano trasformato Hwang in meno di due anni da oscuro esperto di scienze veterinarie nello scienziato forse più celebre al mondo, e infine in disprezzato truffatore? È quanto cercheremo di vedere nelle prossime pagine.

Lasciamo la decisione a Gasparri e i suoi

Dall’intervento di Maurizio Gasparri alla summer school organizzata dalla Fondazione Magna Carta e dall’Associazione Italia Protagonista (Cristiana Vivenzio, «Gasparri: “In nome del politicamente corretto non si può tradire l’identità”», L’Occidentale, 2 Settembre 2009):
Essere il Pdl non vuol dire garantire a ciascuno la possibilità di fare ciò che vuole, con il solo limite di non crear danno ad altri. È ben difficile lasciare al singolo la decisione sul limite alla libertà. Occorrono regole per far vivere insieme la libertà delle persone con il bene comune. Ci sono insomma dei princìpi etici che devono caratterizzare l’azione politica.
(Hat-tip: Licenziamento del poeta.)

mercoledì 2 settembre 2009

RU486, stop alla disinformazione

È uno dei migliori articoli finora apparsi sulla pillola abortiva quello che la ginecologa Mirella Parachini ha scritto per il quotidiano TerraPillola abortiva, stop alla disinformazione», 1 settembre 2009, p. 11):
Nel dibattito sulla RU486 che si sta svolgendo nel nostro Paese, mi ha colpito come la maggior parte degli interventi provengano da molteplici campi, rimanendo per lo più in secondo piano l’opinione degli “addetti ai lavori”. I giudizi emessi senza alcuna esperienza clinica confondono la discussione e creano infondate partigianerie che non si ritrovano quando il tema venga affrontato con criteri di buona pratica clinica.
Un esempio è l’articolo di Eugenia Roccella, sottosegretario al ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, sul Sole 24 Ore del 9 agosto, in cui ricorda una intervista alla dott.ssa Elisabeth Aubeny, la ginecologa francese che per prima ha applicato il metodo farmacologico (e non creato, come viene detto) nella quale verrebbe «ammesso con serenità» la maggior sofferenza provocata dall’aborto farmacologico rispetto a quello chirurgico. Perché mai si deve parlare di “ammissione” quando si tratta di una banalissima informazione deducibile da qualunque tabella comparativa riportata in letteratura? Non è che l’aborto chirurgico non provochi dolore, tant’è vero che viene praticato in anestesia, locale o generale. È solo che si svolge in poco tempo, mentre le contrazioni nell’aborto medico durano più a lungo. Dato altrettanto deducibile dalle suddette tabelle. Ma anche in questo caso è prevista l’assunzione di antidolorifici. Nelle stesse tabelle tuttavia si leggeranno tutti gli altri vantaggi e svantaggi di ciascun metodo, come è normale nello studio di diverse tecniche, senza che questo debba comportare una opzione contrapposta tra due campi avversari. La maggior parte dei medici che si occupano di Ivg e dispongono di entrambe le metodiche applicano dei criteri di valutazione caso per caso, informano la paziente delle varie possibilità e le chiedono di scegliere. Questo avviene tutti i giorni, in tutti gli ospedali, per qualunque atto medico. Perché non deve avvenire in questo caso? La disinformazione passa innanzitutto dalla distorsione del linguaggio. Nell’articolo della Roccella l’aborto farmacologico viene chiamato “aborto chimico”, con un evidente intento spregiativo: forse che l’effetto di un qualunque altro farmaco non è altrettanto “chimico”? Anche nel caso dell’ulcera gastrica si parla di trattamento “medico” o “chirurgico”, ma non si parla mai di trattamento “chimico” dell’ulcera gastrica. Sempre nell’articolo in questione si assimila la procedura ad un “piccolo parto”, mentre l’esempio andrebbe fatto con l’aborto spontaneo precoce; qualunque donna che abbia partorito e anche abortito spontaneamente una gravidanza iniziale vi saprà dire la differenza. Si dà altrettanto per scontato che il metodo chirurgico sia da preferire perché “controllato” dal medico anziché dalla paziente. E se lo chiedessimo alle pazienti? Se ci sono donne che per innumerevoli e complessi motivi vogliono poter scegliere tra due opzioni che la medicina offre loro, perché pensare che non siano in grado di farlo? È disinformazione anche continuare a dire che il tasso di mortalità per aborto medico è 10 volte maggiore dell’aborto chirurgico: in Europa, dove dal 1988 sono state vendute circa 2,5 milioni di confezioni di Mifegyne, non sono mai stati riportati casi di shock settico. È infine disinformazione tacere del ruolo del mifepristone nell’aborto terapeutico del secondo trimestre, questo sì vero “parto in miniatura” per donne che interrompono una gravidanza desiderata ma con una qualche patologia grave. Con la RU486 somministrata prima delle prostaglandine, i tempi del travaglio sono letteralmente dimezzati; sto parlando di situazioni che a volte si prolungano per giorni e giorni con una intensità di dolore fisico e psichico tale da rappresentare anche per noi operatori un grosso impegno emotivo.
Lo stesso avviene nei drammatici casi di morte intrauterina, in cui questo farmaco viene usato da anni nei Paesi in cui era disponibile. Perché noi medici dovremmo ritenere giusto non disporne nel nostro Paese?

martedì 1 settembre 2009

I piccoli ospedali e la razionalità

Un intervento del neurologo Fabrizio Fiacco sul problema dei piccoli ospedali («A chi serve il piccolo ospedale?», La Stampa, 31 agosto 2009, p. 28):
Purtroppo non passa settimana in cui non si debba contare una nuova morte a causa della cosiddetta malasanità, ma leggendo i giornali di questi giorni si registra come vengano presi provvedimenti che perpetuano il rischio di ricorrenza di eventi tragici. Lascia di stucco la decisione prefettizia di prorogare la prevista chiusura dell’«ospedaletto» di Mazzarino a seguito delle proteste dei cittadini: questo è veramente paradossale! La logica vorrebbe casomai il contrario, ma anche qui prevale la paura del popolo (che si solleva solo quando toccato personalmente da un evento grave, o timoroso di non avere più l’ospedaletto e il piccolo Pronto Soccorso a due passi da casa) e non il coraggio di prendere misure dettate dalla razionalità.
I piccoli ospedali, soprattutto nel Sud Italia, dove illuminate inchieste giornalistiche hanno reso pubbliche delle situazioni incivili, con dotazioni di 20-30 posti letto per 30 Dirigenti (vedi la trasmissione di Rai3 Report di qualche mese fa), non dovrebbero esistere se non in posti di montagna o comunque isolati. Forse andrebbero lasciati dei punti di primo intervento davvero attrezzati e con «medici di urgenza» capaci per stabilizzare l’eventuale paziente in pericolo di vita per poi trasferirlo quanto prima in un ospedale degno di questo nome. Ma si preferisce, con i magri bilanci di cui disponiamo, mantenere in vita, per non dire in agonia, delle strutture fatiscenti e inadeguate, con personale medico e infermieristico ristretto e precario.
I politici non dovrebbero aver paura delle proteste dei cittadini che chiedono che non vengano chiusi i «loro» piccoli ospedali. Dovrebbero invece essere capaci di spiegare che sarebbe più utile riconvertire il piccolo ospedale in una struttura di riabilitazione o di lungo-degenza. In questo modo si potrebbero risparmiare milioni di euro da investire negli ospedali maggiori, da cui è giusto pretendere un funzionamento adeguato alle richieste dei cittadini.

Montana Court to Rule on Assisted Suicide Case

Dolore
Robert Baxter was by all accounts a tough man. Even in the end, last year, as lymphocytic leukemia was killing him, Mr. Baxter, a 76-year-old retired truck driver from Billings, Mont., fought on. But by then he was struggling not for life, but for the right to die with help from his doctor.

“He yearned for death,” his daughter, Roberta King, said in a court affidavit describing her father’s final agonized months.

Now, in death, Mr. Baxter is at the center of a right-to-die debate that could make Montana the first state in the country to declare that medical aid in dying is a protected right under a state constitution.

The state’s highest court on Wednesday will take up Mr. Baxter’s claim that a doctor’s refusal to help him die violated his rights under Montana’s Constitution — and lawyers on both sides say the chances are good that he will prevail.

Continua (New York Times, August 31, 2009)