A proposito della possibilità di intervenire sul patrimonio genetico degli embrioni vorrei demolire qualche luogo comune.
Sebbene la possibilità di modificare tratti somatici (come il colore degli occhi o l’immissione di un talento specifico) sia uno scenario fantascientifico piuttosto che scientifico, è utile sgombrare il campo da presunti argomenti che condannano la genetica migliorativa.
La condanna della manipolazione genetica positiva o migliorativa si basa spesso sull’argomento della violazione della autodeterminazione del nascituro (vedi come esemplare la posizione di Jürgen Habermas in
Il Futuro della Natura Umana, 2001). Argomento debole. Molto debole.
Innanzi tutto per l’estrema difficoltà di distinguere una manipolazione genetica
negativa (i cui scopi sono terapeutici e difficilmente condannabili moralmente) da una manipolazione genetica
positiva (i cui scopi sono migliorativi e oggetto di una dura accusa “eugenetica. Qual è la linea di confine? E, soprattutto, perché la manipolazione genetica negativa viene considerata moralmente accettabile, mentre quella positiva è criticata aspramente come immorale e disumana?
Lo stesso Habermas è costretto a ammettere che tracciare un confine tra genetica positiva e genetica negativa è difficile e implica l’annoso problema di operare una cesura in una sequenza discreta non interrotta da avvenimenti moralmente significativi. Il confine è necessariamente arbitrario e non fattuale, proprio come lo è il confine politico tra due Paesi o la definizione di maggiore età a partire dal compimento dei diciotto anni. Lungo il
continuum degli interventi genetici, qual è
il punto in cui un intervento (genetico e “tradizionale”) non è più terapeutico ma diventa migliorativo?
Se è agevole definire come intervento squisitamente terapeutico la correzione a livello genetico di una grave malattia (la sindrome di Lesch-Nyhan, ad esempio), è più difficile in casi più sfumati: l’incremento di intelligenza o di forza muscolare è evidentemente un intervento soltanto migliorativo? L’aumento della resistenza immunitaria o il rimedio della calvizie come devono essere considerati? Sembra ragionevole ammettere che una possibile soluzione consisterebbe nell’individuare una soglia di normalità, soddisfatta la quale gli interventi non sono più terapeutici bensì migliorativi. Quali sono i criteri per stabilire la soglia di
normalità, da utilizzare come spartiacque tra interventi terapeutici e migliorativi? La questione non è semplice, soprattutto alla luce della difficoltà di offrire criteri soddisfacenti per definire la normalità, la salute e la patologia, e della opinabilità e parzialità di tutti i criteri possibili.
La possibilità della manipolazione genetica darebbe poi origine a un
nuovo diritto che le si impone come argine: il diritto a un patrimonio genetico non manipolato. Argomento affine a quello della innaturalità, solleva la seguente domanda: la trasformazione genetica costituisce un accrescimento dell’autonomia e della salute individuali, oppure è dannosa?
Invocare il diritto alla casualità non risolve granché. Affermare il diritto al caso dovrebbe servire da una parte a condannare la strumentalizzazione di una vita umana rispetto alle preferenze di terzi (i genitori), dall’altra la violazione della lotteria cromosomica (che valore ha la lotteria cromosomica?).
Il diritto al caso è un’arma critica piuttosto debole: anche gli interventi genetici terapeutici (dunque gli interventi che in genere vengono considerati moralmente ammissibili) violano il diritto al caso, andando
intenzionalmente a correggere anomalie genetiche: la trisomia del cromosoma 21, originata
per caso, dovrebbe dunque essere protetta dall’intervento genetico? Perché sarebbe immorale sostituirsi alla casualità genetica nel caso degli interventi genetici migliorativi, ma non nel caso degli interventi genetici terapeutici? Il diritto al caso non può essere invocato arbitrariamente: si può istituire accettandone tutte le implicazioni, e dunque anche l’astensione da interventi genetici terapeutici, oppure è necessario ricusarlo. (Accettereste di essere curati “a caso”?)
La soluzione proposta da Habermas è che gli interventi terapeutici traggono la forza da una
presupposizione controfattuale di un possibile
consenso da parte dell’embrione, evitando così il rischio di eterodeterminazione genetica (per quale motivo sia possibile presupporre un consenso soltanto rispetto a interventi terapeutici, e non rispetto a interventi che possano migliorare le caratteristiche del nascituro (incrementi genetici di bellezza, intelligenza, memoria) è oscuro): questa presupposizione può riferirsi solo alla prevenzione di mali estremi, che senza dubbio sarebbero rifiutati da tutti. Non può invece essere ipotizzato in altre circostanze. La presunzione di un consenso da parte nel nascituro a quegli interventi contro mali estremi suscita innumerevoli perplessità. Se fosse rilevato un male
piccolo, o che comporta sofferenze medie, ci si dovrebbe forse astenere dall’intervenire perché l’intervento sarebbe immorale? E chi stabilisce quale male è estremo? Quali sono i criteri per valutare oggettivamente una gerarchia di mali?
Escludere interventi (eugenetici o terapeutici?) richiamandosi alla necessità del consenso degli interessati sembra equivalere all’affermazione che l’abolizione della schiavitù dovrebbe suscitare il consenso potenziale degli schiavi; ma in fondo la schiavitù – rispetto alla pena di morte, o al diritto del sovrano di vita e di morte sui sudditi – sembra un male medio o trascurabile; dal momento che sarebbe azzardato affermare che tutti darebbero il proprio consenso alla liberazione dalla schiavitù (qualcuno potrebbe preferire vivere in schiavitù, o magari i figli degli schiavi liberati potrebbero rimpiangere la condizione dei loro genitori), possiamo continuare a tenerci i nostri schiavi (bel risultato!).
Gli interventi genetici migliorativi non compromettono l’autonomia individuale e la possibilità di scegliere della propria esistenza.
Non è riscontrabile una differenza moralmente rilevante tra modificazione
genetica e modificazione
pedagogica, e la pedagogia è accettata (la scuola, i campeggi, le lezioni di danza e di pianoforte), allora anche un intervento genetico migliorativo dovrebbe rientrare in un’area discrezionale dei genitori (la nascita stessa, quella tradizionale, è un atto intrinsecamente eterodeterminato: cosa c’è di più irreversibile e asimmetrico del mettere al mondo un figlio
naturalmente?).
È bene sottolineare l’impossibilità di rendere «non avvenuta» una qualsiasi forma di educazione. È sempre possibile, almeno in linea di principio, correggerne le conseguenze; ma questo è possibile anche per gli interventi genetici (posso correggere le conseguenze di una miglioria genetica così come posso correggere le conseguenze di una educazione musicale. Non è superfluo aggiungere che se mi fosse stata aggiunta una predisposizione musicale, ciò non implicherebbe affatto un dovere o una impossibilità di sottrarmi alla carriera musicale. Potrei ignorarla, e non sentirmi limitata nella mia libertà da una aggiunta genetica voluta dai miei genitori. In questa cornice, la mia esistenza non sarebbe compromessa e i miei genitori avrebbero soddisfatto un desiderio che non mi comporta alcun danno, cioè non comporta per me nessun peggioramento della mia condizione. Vi sono limitazioni ben più gravi della libertà filiale, e atteggiamenti dannosi da parte dei genitori nei riguardi dei figli che non sono condannati con la veemenza con cui spesso si critica l’eugenetica, né sono vietati da una legge: l’iscrizione a certe scuole, l’educazione parentale dei primi anni di vita, l’indottrinamento religioso, lo stesso contesto sociale in cui si nasce, le aspettative verso un figlio avvocato o dentista. Tutti questi elementi sono fortissimi condizionamenti della mia libertà di determinare il corso della mia esistenza, e sono forse più irrimediabili del possedere una predisposizione genetica alla danza o all’hockey su ghiaccio. L’infanzia di Jennifer Capriati, trascinata dal padre per ore sui campi da tennis, è un buon esempio di imposizione molto diversa dall’imposizione di una caratteristica genetica…). È evidente che la premessa dell’equivalenza tra modificazioni genetiche e modificazioni pedagogiche (e dunque della possibilità di apportare ‘correzioni’ in entrambi i casi) è costituita dal rifiuto di un ingenuo determinismo genetico.
Insomma, l’esistenza di un individuo
migliorato geneticamente sarebbe in qualche modo peggiore della sua esistenza senza quel miglioramento? E se quel miglioramento può essere agevolmente trascurato nelle decisioni riguardanti la propria vita, potrebbe in qualche modo costituire un restringimento dell’autodeterminazione?
Il nascituro si trova nella condizione di non potere mai esprimere una preferenza, ma soltanto una eventuale e futura protesta. Questa eventuale protesta non può servire per condannare una modificazione genetica nei casi in cui la dotazione di predisposizioni (musicali, sportive) non comporti nessun ragionevole peggioramento della condizione del nascituro: egli potrà non usare le predisposizioni geneticamente determinate, e scegliere liberamente il corso della propria esistenza. La dotazione di predisposizioni non danneggia in nessun modo la sua vita.
Inoltre, l’esistenza di un figlio ‘programmato’ mi sembra preferibile all’esistenza di un figlio dell’errore e della distrazione.